Dopo il successo di “Una vita come tante”, Hanya Yanagihara torna con “Il popolo degli alberi”, liberamente ispirato alle vicende del dottor Daniel Carleton Gajdusek, Premio Nobel per la medicina nel 1976 e scopritore del morbo di kuru, successivamente indagato per molestie sugli stessi bambini da lui curati. Il romanzo dissoda il substrato del predominio identitario, radicando il lettore agli equilibri di una nuova, condivisa, consapevolezza globale. Perché la Natura è la madre di tutti e, nel rispetto delle sue germinazioni, il limite invalicabile per ognuno di noi – L’approfondimento

Esplorando i territori di una civiltà al di fuori dell’ordinario, valicandone i confini alla scoperta di un’identità mai rivelata, è con periferica valutazione che Il popolo degli alberi di Hanya Yanagihara – dopo l’illustre, già edito, Una vita come tante, traduzione di Luca Briasco, Sellerio, qui al suo debutto originario nella traduzione di Francesco Pacifico, per Feltrinelli – suggestivamente indaga le conseguenze ultime della smania di onnipotenza umana, al contempo sollevando, con uno sguardo quantomai consapevole, riflessioni bioetiche ed etologiche le più ramificate e attuali (soprattutto di questi tempi, vista la probabile dinamica di zoonosi inerente la propagazione del virus).

E lo fa con una soluzione narrativa del tutto originale: nella cornice esterna di un memoriale biografico – sul futuro Premio Nobel dottor Abraham Norton Perina, noto immunologo arrestato (sul finale di carriera ma in prologo allo svolgimento) per presunti abusi sessuali nei confronti dei figli adottivi – l’ambientazione suggestiva del report di viaggio – presso l’arcipelago micronesiano di U’ivu, alla scoperta della leggendaria tribù mai contattata degli opa’ivu’eke – funge, sin da principio, quale contenitore di sostegno per una numerosità di richiami scientifici relativi alla misteriosa Sindrome di Selene, “il corpo di chi ne è affetto conserva una relativa giovinezza anche quando la mente comincia a deteriorarsi” – dalla cui lettura, e notazione, il fluire lisergico del racconto viene equilibrato in maniera determinante.

Il popolo degli alberi di Hanya Yanagihara

D’altro canto, è proprio nella varietà compositiva dello storytelling che meglio si declina la frammentaria personalità del nostro primo attore: sbilanciato osservatore di due mal comunicanti figure genitoriali: “Mio padre non si avventurava mai fin giù al ruscello, mia madre invece amava stare seduta sull’erba a guardare l’acqua che le lappava le caviglie”, in versatile contrasto con l’incostante gemello Owen: “l’allontanamento fu improvviso e devastante, risultato di un terribile tradimento che ha sconvolto Norton per sempre”. È nella metafora esterna di una natura matrigna e liminale, che il dottor Perina stabilizza le interiori lacunosità del proprio sé infantile, sì tanto da appartenere alla comunità tribale quasi fosse propaggine della sua inconsistenza famigliare.

Non a caso, freneticamente assorto nell’obiettivo di fornire una risposta sperimentale alla presunta immortalità dei sognatori (così vengono definiti i ciondolanti ivu’ivuani dopo aver contratto la malattia, “per la loro bava da sonnambuli, i loro sguardi inebetiti con quella punta di lucidità nel fondo, come se stessero arrancando in un denso sedimento di sonno”) l’ossessivo protagonista – nelle tante spedizioni accompagnato non soltanto dal visionario antropologo Paul Tallent e dalla sua grifagna collaboratrice Esme Duff, ma anche da un taciturno corteo di guide autoctone (e, su tutte, l’apripista Fa’a, il primo ad aver individuato i non più umani) – pare quasi congiungersi alle ritualità proibite (e a lui non destinate) dell’isola, cui si avvicina dapprima con scettica cautela (“Tu hai visto una tartaruga, niente più. Una tartaruga che hai trasformato tu in un dio. Ormai sei perduto come loro”) poi con intellettuale accettazione (“La cosa importante, però, è questa: (…) Ika’ana aveva centosettantasei anni”) e, infine, con un’immedesimazione tale da divenire egli stesso propagazione di pertinenza del luogo (“Oddio, pensai, ma possibile che in questa giungla niente si comporti come dovrebbe? Perché i frutti si muovono e gli alberi respirano e i fiumi di acqua dolce sanno di mare?”).

In tal senso, è partecipando (oniricamente?) alla più intraducibile delle costumanze degli abitanti – “Non mi era mai venuto in mente prima di Ivu’ivu che anche i bambini potessero intrattenere relazioni di tipo sessuale, ma al villaggio sembrava del tutto naturale, e in effetti lo era” – che il dottor Perina finisce per avocare a sé una disturbante paternità tropicale, arrivando, per l’effetto, ad adottare un numero consistente (quarantasei) di giovani isolani che altro non costituiranno se non una disfunzionale famiglia u’ivuana, ma denaturalizzata su suolo americano.

Hanya Yanagihara sellerio

Ed è questa, forse, la riflessione più incalzante del romanzo: denunciando, fra le righe, le prevaricazioni etnocentriche di supremazia intellettuale (a seguito del sensazionalismo sulla Sindrome di Selene, lvu’Ivu viene sconsideratamente invasa dal proliferare di aziende farmaceutiche a caccia di opa’ivu’eke; è d’altronde chiara la prossimità dell’autrice alle tematiche della colonizzazione e del relativismo culturale, essendo ella stessa di provenienza nativa dello Stato federato degli Stati Uniti d’America delle Hawaii), Hanya Yanagihara suggerisce l’incarnazione di un ancestrale contrappasso ferino che, nella nemesi di una maledizione micronesiana – “Una notte sognai che (…) era un ragno enorme e aggressivo dalle zampe dure e forti e due occhi rossi che brillavano di crudeltà” – condanna il tracotante Dottore occidentale a una prigionia tanto estrema quanto quella dei sempiterni sognatori (ormai ridotti a cavie da laboratorio), ripristinando così gli equilibri necessari delle cose.

Liberamente ispirato alle vicende di disonori e prigioni del dottor Daniel Carleton Gajdusek – Premio Nobel per la medicina nel 1976 e scopritore del morbo di kuru, successivamente indagato per molestie sugli stessi bambini da lui curati -, in una dinamica vegetale tanto simile alle foreste aliene di Annihilation (di Jeff VenderMeer traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi) ma uterina e rubiconda come L’isola del Dottor Moreau di H.G. Wells (traduzione di Mirko Esposito, Feltrinelli), Il popolo degli alberi di Hanya Yanagihara dissoda il substrato del predominio identitario radicando il lettore agli equilibri di una nuova, condivisa, consapevolezza globale. Perché la Natura è la madre di tutti, e nel rispetto delle sue germinazioni il limite invalicabile per ognuno di noi.

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