Violetta Bellocchio racconta su ilLibraio.it “Il professore e il pazzo” di Simon Winchester, grande protagonista della nonfiction storica. Un libro e un autore che meritano attenzione

Non scambiatelo per una storia di guarigione, Il professore e il pazzo (Adelphi), né per un apologo edificante sul potere della conoscenza. I fatti raccontati in questo libro sono tutti verissimi, e quindi, ricchi di sfumature, senza condurre a un lieto fine convenzionale. Ad esempio: uno degli autori di punta dell’Oxford English Dictionary era un assassino rinchiuso in manicomio criminale, da cui spediva dotte lettere al direttore del dizionario, che arrivò a conoscere l’identità del suo più brillante collaboratore soltanto dopo anni di scambi epistolari.

La bellezza del libro sta nel mondo che gira intorno al legame tra due uomini molto più accostabili l’uno all’altro di quanto fosse logico pensare. E non è una storia del passato, affatto, perché non abbiamo in mano un fondo di magazzino ripubblicato per grazia di Dio. La decisione recente da parte del comitato dell’OED di includere tra le “nuove parole” termini come selfie e mansplain è una mossa che, giustamente, fa notizia, ne veniamo aggiornati. Perché significa tirare una linea tra le parole futili e quelle che, in un modo o nell’altro, sono una bella sterzata nella nostra maniera di intendere e utilizzare il linguaggio.

Il professore e il pazzo

L’autore, Simon Winchester, è uno che, zitto zitto, ha insegnato il mestiere a mezza Europa. Non soltanto è stato un inviato del Guardian, non soltanto ha conosciuto le scrivanie di tutta l’editoria importante, ma è stato sbattuto in galera e ci è rimasto tre mesi durante l’invasione delle isole Falkland perché sospettato di essere una spia della Corona. Non sono faccenduole che capitino proprio a tutti quelli capaci di tenere una penna in mano. È naturale che quando, dopo parecchi libri da giornalista in senso stretto, Winchester si è dedicato a un’impresa storico-linguistica complicatissima, dominava la materia come se fosse il cortile del suo condominio. Perché era stato nel mondo prima di andare a ricostruire un altro mondo. Perché conosceva talmente bene il tempo presente da essere il candidato ideale per saltare all’indietro nei secoli, e individuare, con precisione ed empatia, i chiodi fissi degli uomini e delle donne che hanno fatto la storia del lessico inglese come ancora lo conosciamo noi. E pagina dopo pagina viene fuori che la cultura, quella vera, la dobbiamo a un insieme di matti scatenati: “il professore” James Murray era un ragazzino scozzese figlio di gente umile, che fin da piccolo dava sfogo a una curiosità ossessiva nei confronti di tutto lo scibile umano, e gli incontri fondamentali nella sua vita di studioso non sono stati tanto quelli con l’establishment dell’epoca vittoriana (anche se non gli hanno nuociuto in termini di carriera), ma quelli con i personaggi marginali, dotati della sua stessa voracità intellettuale. Certo, era fondamentale anche allora darsi un tono, frequentare gli ambienti giusti; ma la spallata cruciale, per i progetti che hanno dato forma alla lingua inglese, la tiravano i borderline, i maniaci, gli autodidatti come Murray.

“Il pazzo” William Minor, invece, era un americano con due genitori che facevano i missionari e un gran cervello che forse conteneva già le premesse del crollo: laureatosi a Yale, aveva commesso il madornale errore di arruolarsi nell’esercito come medico in piena Guerra di Secessione, sopravvalutando di parecchio la propria forza d’animo, e dall’esperienza era uscito stravolto, senza mai recuperare la capacità di distinguere tra la realtà e le fantasie paranoiche. E nel momento in cui si cacciò in un guaio irreparabile – riparato a Londra, ammazzò a colpi di pistola un passante credendo fosse un ladro – gli venne comunque concesso di accomodarsi in manicomio insieme ai libri che amava più di qualsiasi essere umano.

La scommessa del grande editor che a suo tempo approvò il progetto pare fosse “rendere entusiasmante la lessicografia”. Winchester ha scritto un libro coltissimo che non ti fa mai sentire ignorante. E da allora ha proseguito sulla stessa scia, diventando un vero divulgatore, uno che, se serve, ti tiene serenamente fermo quattro pagine per approfondire un dettaglio solo in apparenza minore. È un grande vecchio della nonfiction storica, e andrebbe letto molto di più. Adelphi di suo negli ultimi anni ha già tradotto Atlantico e L’uomo che amava la Cina. Approfittatene

 

L’AUTRICE – Scrittrice, traduttrice e giornalista, Violetta Bellocchio (nella foto di Valentina Vasi) è l’autrice del memoir Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014). Ha fatto parte di L’età della febbre (minimum fax, 2015) e di un’altra antologia, Ma il mondo, non era di tutti? (Marcos y Marcos, 2016), curata da Paolo Nori. A sua volta ha curato l’antologia di nonfiction Quello che hai amato. (Utet, 2015). Il suo ultimo romanzo è Mi chiamo Sara, vuol dire principessa (Marsilio). È in uscita nel 2018 per Chiarelettere La festa nera.
Bellocchio ha inoltre fondato la rivista online Abbiamo le prove nel 2013, e l’ha seguita personalmente fino al 2016.
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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