“Del Giappone, la prima volta in cui ho deciso di andarci, conoscevo essenzialmente la distanza. Quando sono partita, nel mio ‘bagaglio esistenziale’ avevo solo tre punti di contatto con l’arcipelago: una compagna di conservatorio che si era trasferita da Tokyo a Milano, i libri di Banana Yoshimoto e la cucina macrobiotica. Eppure, quando sono arrivata, qualcosa è successo. Qualcosa di imprevisto, difficilmente descrivibile se non come uno strambo desiderio di abbracciare lo spazio intorno, la città, le campagne verdissime, l’oceano. Un senso di appartenenza inspiegabile”. Su ilLibraio.it la riflessione di Francesca Scotti, in libreria con “Il tempo delle tartarughe”, una raccolta di racconti che si muovono tra Italia e Giappone

Del Giappone, la prima volta in cui ho deciso di andarci, conoscevo essenzialmente la distanza. Distanza geografica, che fa del viaggio per raggiungerlo una sorta di lungo pellegrinaggio – almeno per me. Distanza linguistica, anzi una barriera. E poi quella culturale – non sono cresciuta con i cartoni animati giapponesi e non sono stata un’adolescente lettrice di manga.

Quando sono partita, nel mio “bagaglio esistenziale” avevo solo tre punti di contatto con l’arcipelago: una compagna di conservatorio che si era trasferita da Tokyo a Milano (è stata lei a organizzare la prima esplorazione), i libri di Banana Yoshimoto letti alle medie, e la cucina macrobiotica, praticata in famiglia per un paio di anni alimentarmente complicati. Nessuno di questi aspetti – forse un po’ i romanzi della Yoshimoto – aveva creato in me delle aspettative, del cibo da desiderare, un panorama da voler vedere a tutti i costi.

Eppure, quando sono arrivata, qualcosa è successo. Qualcosa di imprevisto, difficilmente descrivibile se non come uno strambo desiderio di abbracciare lo spazio intorno, la città, le campagne verdissime, l’oceano. Un senso di appartenenza inspiegabile, una familiarità intuita e che ancora, dopo quattordici anni, non sono riuscita del tutto a decodificare. Forse il fascino del Giappone mi si è palesato tutto in una volta, travolgente; in realtà credo che ci sia qualcosa di più, una sorta di affinità che molti stranieri hanno provato.

Negli anni, questo inatteso legame è andato stringendosi. Le radici non hanno potuto affondare nella terra, ma si sono comunque avviluppate a una serie di aspetti, colori, suoni, scenari che le hanno nutrite, tenute salde, rinforzate e ora mi permettono di chiamare anche il Giappone, casa. Non che la pandemia e le difficoltà degli spostamenti non abbiano sottolineato le complessità di una vita a volte sfasata rispetto al proprio paese di origine, eppure… Eppure.

Se provo a pensare a ciò per cui Italia e Giappone si assomigliano, nei i primi istanti individuo prevalentemente le differenze – banali – che non mi piacciono: le case fredde – quando a inizio gennaio sono stata ospite di un’amica che abita in una bellissima casa tradizionale lei si è premurata di dirmi “Copriti bene, metti delle calze calde, sai come sono le nostre case”; la presenza delle vespe mandarinie – il paese ospita il calabrone più grande del mondo, con un pungiglione di 6 mm, specie potenzialmente letale che purtroppo non si limita alla vita in aperta campagna ma apprezza anche la frenesia delle città; l’ossessione per le procedure immodificabili e talvolta, almeno in apparenza, fini a se stesse.

Tra le affermazioni che ho sentito fare più spesso dai giapponesi a proposito degli aspetti in cui risiede l’unicità del loro paese ce n’è una continua a colpirmi: “In Giappone abbiamo quattro stagioni”. Detta così fa un po’ sorridere: anche in Italia abbiamo quattro stagioni. Però, l’anno scorso, per la prima volta ho passato dodici mesi senza mai lasciare il paese, nemmeno per pochi giorni, e forse sono riuscita a dare un’interpretazione alla formula: non solo ci sono quattro stagioni ma si ascoltano, si notano, si guardano, si festeggiano. Si partecipa al tempo che scorre. C’è un grande albero di ginkgo vicino a casa mia, sul fiume che scorre tra argini di ciliegi. Quando le sue foglie a ventaglio sono di un giallo dorato rende luminose anche le più grigie giornate autunnali e i rami spogli, contorti e un po’ sinistri dei ciliegi non si notano. Quando i sakura sbocciano in un rosa gonfio e fluttuante, del ginkgo appena verde non ci si accorge: lascia a loro tutta la scena. Niente è lì per caso ma è come se lo fosse.

Conclusi i minuti dedicati alle immediate differenze provo a concentrarmi sulle somiglianze e individuo due strade possibili: una universale e una personale. Quella universale credo riguardi ad esempio l’importanza riconosciuta alla convivialità e, parzialmente collegata a questa, una grande attenzione per la buona cucina, la stagionalità degli ingredienti, le differenze regionali; il valore dato al trascorrere in famiglia alcune ricorrenze significative dell’anno; la rilevanza dei saperi e delle arti tradizionali e l’orgoglio di coloro che le rappresentano e tramandano.

La via personale invece mi fa credere o illudere di essere io a somigliare al paese per alcuni aspetti, di essere compatibile e di condividerne l’immaginario: l’attenzione per le piccole cose, la loro meraviglia. La presenza degli animali che partecipano come simboli, divinità, allegorie, spiriti, costellazioni al quotidiano. L’attenzione estetica per la natura – in questi anni di riduzione degli spostamenti ho potuto studiare con cura le case del quartiere: dal singolo davanzale con vasetti e piantine del modesto appartamento al grande giardino con alberi e fiori di loto, sono in molti a prestare un’attenzione e una premura profonde.

Anche nella lettura di alcuni autori giapponesi, quasi a conferma di questa possibilità di vibrare per simpatia e di capirsi nonostante la distanza, mi sono ritrovata: nelle lievi e inquietanti interconnessioni che legano i racconti di Ogawa Yoko – vicende mentali e fisiche grazie alle quali si sperimenta l’inatteso; nella rielaborazione in chiave contemporanea delle storie di fantasmi femminili giapponesi di Matsuda Aoko; nei boschi silenziosi disegnati da Anno Mitsumasa, autore di libri per bambini: se si osserva attentamente tra le foglie e le venature delle cortecce si possono notare molti, moltissimi animali ben nascosti.

Del Giappone, in questo breve racconto, ho sfiorato giusto la superficie. Però, per quanto riguarda la mia esperienza di scrittura, il desiderio di osservarlo è nato proprio da questa superficie non sempre – e per forza – liscia, rassicurante, poetica. Talvolta si incrina, si sfalda, si intorbidisce e mostra dell’altro: un corvo che rompe il sacchetto dell’immondizia di un vicino portando alla luce una moltitudine di ciotole di ramen disidratato tutte uguali, la solitudine di un’anziana che si affaccia alla finestra ogni mattina e ogni sera per salutarmi, una ragazzina con la divisa del liceo che cerca di combattere il sonno mentre il treno la riporta in periferia, un bambino che fa la strada da scuola a casa sempre di corsa, sempre da solo.

La profondità è altrove ma anche la superficie, se la si osserva con un po’ di attenzione, mostra la complessità e la ricchezza di quello che ricopre con sincerità abbagliante. Per brevi istanti.

scotti tempo delle tartarughe

L’AUTRICE – Francesca Scotti è nata a Milano nel 1981. Dal 2011 divide il suo tempo tra l’Italia e il Giappone. Diplomata al Conservatorio e laureata in giurisprudenza, nel 2011 ha esordito con la raccolta di racconti Qualcosa di simile (Italic), selezione Scritture Giovani al Festivaletteratura, vincitrice del premio Fucini e finalista al premio Joyce Lussu. Ha pubblicato, tra gli altri, Il cuore inesperto (Elliot, 2015), Ellissi (Bompiani, 2017), Capacità vitale (Bompiani, 2019). Collabora con Palazzo Marino in Musica e Mediterranean Ambassadors Music Experience, e suoi racconti e reportage sono stati pubblicati su diverse riviste italiane e straniere.

Francesca Scotti

E veniamo al suo nuovo lavoro, la raccolta di racconti Il tempo delle tartarughe, in libreria per Hacca. Per Ilaria Gaspari questo libro “è la porta di accesso a un mondo sospeso che in apparenza somiglia molto al mondo a cui siamo abituati, ma in realtà – ce ne accorgiamo da una dissonanza lieve, da un piccolo tuffo al cuore – è diverso quel tanto che basta a farci rendere conto di dettagli a cui l’abitudine ci ha resi insensibili. Ognuno di questi racconti, bozzetti in apparenza quieti e composti, è come un sasso lanciato sull’acqua: rimbalza, la increspa, affonda con un piccolo tonfo la cui eco riverbera nel cuore di chi legge. Al centro sono geometrie sghembe di coppie, di innamorati, di madri e figlie, di amiche, che si rivelano triangoli imperfetti: il terzo vertice rompe l’equilibrio, e così svela qualcosa di vero. Capita che sia una tartaruga ferita, o una bambina che odora di ombra, o un violoncello. Intorno, cittadine di provincia stinte dal sole, aiuole in cui sotto la neve crescono fiori, l’Italia e il Giappone in un’inaspettata affinità, dentro i cerchi di un tempo che intanto corre in circolo, nei circoli sempre più vasti che un sasso anche piccolo sa disegnare sulla superficie dell’acqua”.

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