Nella raccolta di racconti “Musa e getta”, sedici importanti autrici italiane svelano altrettante “muse”, donne meravigliose ma spesso dimenticate, offrendo a lettrici e lettori uno sguardo nuovo sul rapporto tra i sessi, l’identità femminile e la lotta per l’emancipazione – Su ilLibraio.it un estratto dal testo di Claudia Durastanti, che racconta Alene Lee, autrice della Beat Generation
Lunedì 1 marzo, alle ore 18, sulla pagina Facebook de ilLibraio.it, la presentazione dell’antologia nell’ambito di “LibLive”
Qualcosa di più, e qualcosa di meno
Alene Lee
Durante la guerra guardavo le femmine attorno a me; mi piacevano le operaie, le modelle e le puttane. Queste femmine andavano e venivano dalle fabbriche, apparivano sulle riviste, occupavano le strade e poi sparivano nei sotterranei; erano ovunque, uno sciame di ragazze riflesse nelle vetrine con le labbra scure e i fermagli tra i capelli, erano come le anguille o tante piccole vipere attorcigliate dentro alle carrozze delle metropolitane, si rovesciavano fuori come un’acqua nera e luminosa, cantavano certe canzoni tristi alla radio e riempivano New York di lampi e desideri.
Nei giorni di festa tiravano fuori piccole frecce da guerriere e si abbattevano sui loro bersagli, precise e marziali in ogni avanzare. Da qualsiasi paesino fossero partite, ormai erano arrivate, e la città non esisteva più senza di loro. Le sentivo dentro di me come una nuova frontiera. Le guardavo, e pensavo a chi sarei diventata io. Quelle femmine lavoravano, posavano, scopavano; puzzavano di fiori secchi e di una vita segreta al mare.
Da bambine senza fantasia giocavamo a riparare i morti, fingevamo che i maschi fossero tornati dalla Germania o da Pearl Harbor e li bendavamo fino a immobilizzarli. Io prendevo qualche vicino di casa e lo trasformavo in una mummia, lo bloccavo sull’asfalto e gli chiedevo nell’orecchio Ti ha fatto male la guerra? Dimmi dove ti ha fatto male, e poi lui mi dava un bacio senza saliva e scappava a casa. Mia nonna era una cherokee che non ricordava niente della sua vita da nativa, eppure i bambini dicevano che casa mia era piena di teschi e di candele, e questo alone di stregoneria mi è rimasto riluttante addosso per tutta la vita. La guerra stava finendo e noi ci scaraventavamo per le strade, nessuno ci fischiava dietro: c’erano solo le ragazze, le vedove che insegnavano a scuola e i drugstore con le sbarre di legno sulle finestre; l’eco crudele e pulita dei bambini che gridavano nei parchi.
Staten Island era una terra vergine, fatta di adolescenti riformati e senza sesso. Qualcuno di loro moriva per davvero: un compagno di scuola era rimasto chiuso nella sua stanza per tutte le vacanze estive e un giorno si era buttato giù, spiccando il volo prima di un ennesimo settembre. Poi un giorno erano tornati. Erano sbarcati dalle navi per finire al manicomio o all’università o a perdere tempo nei bar; erano tornati a vivere a casa di mamma, ad addormentarsi sulle panchine e a fare casino. Erano tutti reduci da qualcosa, anche quelli che non erano mai partiti e avevano trovato una scusa per non combattere contro i nazisti. Si comportavano come se fossero scampati a qualcosa di orribile, eredi di un mistero che spettava a noi capire, se volevamo che si affezionassero a noi. Le case dei vicini si erano riempite di nuovo di voci scontrose, era tornato il brusio delle motoseghe, c’erano strette di mano troppo ruvide in chiesa, una fosforescenza malinconica e violenta. Non c’era più spazio, iniziavamo ad annaspare.
A scuola i ragazzi portavano gli occhiali con la montatura più grande, andavano in giro con le camicie dalle maniche corte e i calzini consumati; parlavano molto di politica e di letteratura. Anche se avevano scoperto il mondo, io prendevo voti più alti dei loro. Le amiche mi invitavano a fare i compiti insieme, ma io preferivo scappare a Manhattan per andare nei bar dove facevano entrare le ragazze nere. Li sentivo ancora prima di vederli: studenti universitari che si lamentavano perché volevano sfasciare tutto e non gli riusciva di sfasciar niente, freddi e impolverati come le scorie di una rivoluzione.
Io mi sedevo sugli sgabelli e qualcuno mi offriva da bere pur di raccontarmi la storia della sua vita; se era carino andavamo a pomiciare in bagno e gli permettevo di mettermi una mano tra le gambe, poi scappavo a prendere il ferry per tornarmene a Staten Island con il ronzio delle sue chiacchiere ancora nelle orecchie, e la certezza che il proprietario del locale mi avesse scambiato per una che si faceva pagare. Mi sporgevo sul parapetto per fissare il porto che spariva in una bruma appiccicosa e dicevo che sarei tornata domani, mi sarei trasferita domani. Cosa sarebbe cambiato, se mi fossi fatta pagare? Ogni ragazza aveva una storia su come era arrivata a New York. C’è chi era scesa dal treno, chi aveva fatto l’autostop e chi era arrivata addirittura volando, in fuga dall’Europa e da qualche barone sadico che l’aveva costretta a mettere in valigia i coltelli. E poi c’era chi arrivava dall’acqua, come me.
Una mattina sono scesa dal ferry e non sono più tornata indietro, avevo i vestiti stropicciati per il lungo abbraccio di mia madre e la lingua incrostata di zucchero, il residuo di una caramella troppo dolce. Cosa farai Alene, con chi starai Alene. Io e mia madre ci intendevamo benissimo su molte cose, mentre su altre non voleva starmi a sentire, non riusciva a capire che io avevo un’assoluta riluttanza al fare, una riluttanza che aveva fatto impazzire i miei maestri. Io ero allora una ragazza svelta con i fianchi un po’ grossi e le caviglie che stavano bene con i mocassini, mi mettevo le fasce in testa per tenere a bada i capelli, fumavo un pacchetto di sigarette al giorno e anche se mi piacevano i libri non ero voluta andare all’università. Mi era venuta la voglia di cambiare aria e, per convincere mia madre a darmi i soldi destinati al primo mese di affitto, le avevo detto Vedrai, farò la commessa nei grandi magazzini o la segretaria, e lei mi aveva creduto. Avevo una bella faccia.
Io di lavorare non ho mai avuto una vera intenzione, ed è per questo che non sono andata a vivere con le mie amiche. Non ci tenevo a dividere la stanza con una ragazza che voleva fare l’attrice e a spartire tutto l’appiccicume della sua ambizione. E se poi non ci riusciva? Non volevo sopportare le chiacchiere su quanto era stronzo il padrone; non volevo trasferirmi in città per sentire il fischio del bollitore alle sei del mattino, Alene, mica avresti dieci centesimi per la metropolitana, e l’odore di patate e di uova sode da mangiare prima o dopo il turno di lavoro in qualche fabbrica del pesce; non volevo vedere le sue calze di nylon appese al radiatore, o il rossetto che non tingeva abbastanza perché lo aveva pagato troppo poco; non volevo sentire l’odore di glicerina della sua crema per le mani. Ogni giorno una ragazza si trasferiva a New York e si inventava qualcosa da fare, ma io non avevo idee e aspirazioni, e conoscevo a malapena il quartiere in cui sarei andata a stare. Al secondo anno delle superiori avevo pizzicato il professore di disegno e un mio compagno di classe a baciarsi nello stanzino del custode. Non avevo fatto la spia perché mi avevano offerto una sigaretta e poi eravamo diventati amici, e così quando avevo telefonato a Frank per chiedergli se c’era qualcosa che potessi fare ora che eravamo cresciuti e la scuola era finita, mi aveva detto Alene, vieni a fare un giro da queste parti.
Viveva in un caseggiato di Alphabet City pieno di madri italiane che non sapevano i nomi dei figli e neanche quello dei cani e tenevano la radio accesa tutto il giorno; l’affitto era di trenta dollari al mese. Ci vivono botteganti e scrocconi, ma ci vengono gli artisti adesso, un posto lo rimedi e io gli avevo detto Frank, io non sono né l’una né l’altra cosa, ma lui insisteva che con questa bella faccia mi avrebbero presa e così ho rimediato un posto letto a Paradise Alley. Solo che nessuno lo chiamava così; le donne che ci abitavano dicevano Stiamo tra Eleventh Avenue e la A nell’East Village, e così avevo preso a dire anche io, imitando la loro dieta di arance e sardine.
Paradise Alley era un’espressione che usavano i romanzieri da quattro tacche che venivano a bussare alla nostra porta per vedere come viveva la gente vera e a spiegarci quanto era stato umiliante crescere con tutti i soldi a disposizione per una laurea in legge alla Columbia. La prima persona con cui ho stretto amicizia era un buffo ragazzo ebreo che si chiamava quasi come me e portava gli occhiali da grande, quelli con la montatura scura e goffa.
Era uscito da poco dall’ospedale psichiatrico, stava provando a diventare eterosessuale con scarsissimi risultati, e io provavo una pena infinita per le ragazzette abuliche e serie che gli stavano attorno. Faceva sondaggi per un’azienda di cosmetici e mi aveva chiesto di aiutarlo a sbobinare le interviste per dieci dollari a settimana. Io andavo a casa sua, battevo a macchina, fumavo l’erba che comprava al parco e qualche volta cucinavo.
Lui ogni tanto mi leggeva una poesia e io gliela correggevo con la matita rossa finché non ce n’è stato più bisogno. Poi è diventato quasi famoso e mi ha presentato certi amici che parevano fantasmi di carne, erano magrissimi da svenire ma anche untuosi e pesanti; certi sembravano nazisti che amavano scuoiare i gatti, altri erano solo fatine che depositavano una polvere sottile e argentata ovunque si spostassero ed erano i miei preferiti, perché a parte quella velatura, non lasciavano niente.
Allen era un buffo ebreo gentile, non era veramente portato per le droghe ma ci credeva, anche se a volte tutti gli andirivieni di quei fantasmi impasticcati lo stancavano, e gli veniva una certa solitudine da prete e così ce ne stavamo abbracciati nel suo letto a parlare dei libri che ci piacevano e di come William Carlos Williams lo aveva aiutato a non impazzire e di quanto era dolce Emily Dickinson e di come avevamo pianto tutti e due la prima volta che lo avevamo preso nel culo, non proprio di dolore e non proprio di piacere. Io mi raggomitolavo nel suo letto, mi piaceva quando mi diceva: Come sei calma Alene, non come una sciamana, ma come una ragazza che è stata in tutte le strade d’America, e io non ero mai uscita dallo Stato di New York, però quella frase mi è rimasta impressa. Certe volte penso che sia stata la mia condanna, perché un giorno ne avrei parlato a Kerouac, e Kerouac l’avrebbe usata contro di me per dirmi che ero pazza proprio perché ero stata in tutte le strade d’America…
(continua in libreria…)
L’AUTRICE E LA RACCOLTA DI RACCONTI MUSA E GETTA – Scrittrice e traduttrice, Claudia Durastanti con il suo romanzo d’esordio Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani; nel 2013 ha pubblicato A Chloe, per le ragioni sbagliate, nel 2016 Cleopatra va in prigione e nel 2019 La straniera, finalista alla LXXIII edizione del Premio Strega e in corso di traduzione in 20 Paesi.
L’estratto dal su racconto, dal titolo Qualcosa di più, e qualcosa di meno, che abbiamo proposto, è tratto dalla raccolta Musa e getta, in libreria per Ponte alle Grazie.
Il racconto di Durastanti è ispirato a Alene Lee, autrice della Beat Generation, legata a Jack Kerouac.
L’antologia, a cura di Arianna Ninchi e Silvia Siravo, vede 16 scrittrici italiane (Ritanna Armeni, Angela Bubba, Maria Grazia Calandrone, Elisa Casseri, la stessa Durastanti, Ilaria Gaspari, Lisa Ginzburg, Chiara Lalli, Cristina Marconi, Lorenza Pieri, Laura Pugno, Veronica Raimo, Tea Ranno, Igiaba Scego, Anna Siccardi e Chiara Tagliaferri) confrontarsi con 16 “muse”: Lou Andreas-Salomé, Luisa Baccara, Maria Callas, Pamela Des Barres, Zelda Fitzgerald, Rosalind Franklin, Jeanne Hébuterne, Kiki de Montparnasse, Nadia Krupskaja, Amanda Lear, Alene Lee, Dora Maar, Kate Moss, Regine Olsen, Sabina Spielrein).
Nella raccolta, infatti, alcune tra le più amate e apprezzate scrittrici italiane contemporanee raccontano altrettante donne, sfrontate e bellissime o, al contrario, miti e riservate che, per lo spazio di una notte o per l’esistenza intera, hanno stretto relazioni complesse (e pericolose) con uomini di successo.
Muse non sempre “gettate” ma per lo più misconosciute – dando così corpo all’odioso detto secondo cui “dietro ogni grande uomo c’è una grande donna” – che tornano dunque, finalmente, al centro del palcoscenico letterario.
Le pioniere della psicanalisi e Kate Moss dalle cento copertine, Kiki regina di Montparnasse per una notte e Maria Callas la Divina per sempre, Nadia Krupskaja che lavora a realizzare il socialismo, Rosalind Franklin che scopre la struttura del DNA, le ispiratrici di pittori, musicisti, scrittori, filosofi: spaziando fra epoche e luoghi diversi, destini felici e infelici, Musa e getta giunge al cospetto di leggende viventi, persino sbarcate su Instagram, come Amanda Lear.