Richard Yates (Yonkers, 3 febbraio 1926 – Tuscaloosa, 7 novembre 1992) è uno dei più acclamati autori americani, grazie al capolavoro “Revolutionary Road” e a racconti come quelli di “Undici solitudini”. Nei suoi romanzi elabora i traumi dell’infanzia, e racconta l’America piccolo borghese delle suburbs. Celebrato da scrittori come Kurt Vonnegut, in vita non ha mai avuto il successo che avrebbe meritato – L’approfondimento

Quella di Richard Yates è stata una vita occidentale, moderatamente infelice in quella che avrebbe dovuto essere la terra promessa.

Il suo talento, istintivo e genuino, ma cesellato da un costante e duro lavoro, gli permette di trasformare i suoi traumi, borghesi, provinciali, potenzialmente anonimi, in alcuni dei racconti e dei romanzi più apprezzati della letteratura americana. Un olimpo che si conquista con fatica, amato da critici e scrittori (uno fra tutti, Kurt Vonnegut), e quasi ignorato dal pubblico, al punto che tutti i suoi romanzi, alla pubblicazione, non superano le dodicimila copie vendute: è un risultato, certo, ma incredibilmente modesto in rapporto ai mondi che nascondono i suoi libri.

Richard Yates: una solitudine

Richard Yates nasce nel 1926, a Yonkers, sobborgo di New York che si affaccia sull’Hudson voltando le spalle al Bronx. I genitori, che resteranno il modello privilegiato per tanti dei suoi personaggi, hanno velleità artistiche inespresse (il padre, rappresentante della General Electrics avrebbe sperato in una carriera da tenore) e un matrimonio infelice, che provoca nella madre continui crolli nervosi e che sfocerà inevitabilmente nel divorzio. Giovane negli anni sbagliati del Novecento, a Yates toccherà una sorte analoga a quella di buona parte della sua generazione: la guerra. Nel suo caso in Francia prima e con l’occupazione della Germania poi.

Cold spring harbor di Yates

Gli anni in Europa sono fatali per la salute di Yates: il suo personalissimo nemico si chiama tubercolosi, e lo attacca ai polmoni. Un fardello di infermità che Yates si porta dietro per sempre, fumandoci – letteralmente – sopra, con continui malesseri e ricadute, fino alla morte per un efisema polmonare a sessantasei anni, nel 1992.

Padre di tre figlie avute da altrettante mogli, Richard Yates passa la sua vita a scrivere, per se stesso e per gli altri (ricoprendo anche l’incarico di autore per Bob Kennedy, quando era Ministro della Giustizia), e combattere con dei traumi mai risolti che si mostrano in una dipendenza dall’alcol prima e in episodi depressivi poi.

Revolutionary Road, un dramma piccolo borghese

Il dramma borghese della sua vita si riflette, inesorabile, nella sua poetica. A partire da uno splendido esordio: Revolutionary Road, del 1961. Un romanzo che ha un buon successo nonostante si tratti di un prodotto decisamente difficile per il mercato, con un titolo fraintendibile e un carattere profondamente letterario. Revolutionary Road segue le frustrazioni coniugali di una coppia del Connecticut e nei due protagonisti, Frank e April Wheeler, affossati da una vita anonima che non riflette le aspirazioni culturali e artistoidi dei due, non è difficile, riconoscere il profilo dei genitori di Yates. Lo scrittore lavora al romanzo per cinque anni, riscrivendolo e cesellandolo dopo che una prima bozza era stata rifiutata dall’editore. Al termine di questo processo di scrittura, il libro non avrà praticamente bisogno di editing e Richard Yates, senza forse saperlo, fa il suo ingresso nella storia letteraria americana.

Revolutionary Road, Minimum Fax, Yates

Con i suoi testi, romanzi ma anche racconti brevi, Richard Yates descrive e dà vita a una realtà piccolo-borghese mutuata dalle sue esperienze di vita. Ne scrive inesorabilmente, come se non potesse fare altrimenti e le sue opere – in Italia quasi interamente pubblicate da Minimum Fax – sembrano scritte per spiare quello che succede dietro le tende di pizzo delle villette delle suburbs americane, nella loro più feroce e vergognosa intimità. Vite che si svolgono sempre uguali a se stesse e si moltiplicano in quelle dei vicini, e dei vicini dei vicini, in un’infinita periferia dell’anima. Un gioco di specchi in cui le frustrazioni, anziché annullarsi, si rinforzano riflettendosi l’una nell’altra.

Adulti accidentali

La vita adulta, per Richard Yates, è un incidente, un accadimento che l’essere umano è costretto ad affrontare nudo e carico di quel bagaglio di nevrosi che si porta dietro dall’infanzia. Nessuna delle vite raccontate da Yates è perfettamente a suo agio con la maturità: sarebbe meglio dire che finge di esserlo, nascondendo dietro la recita della rispettabilità una serie di problematiche irrisolte. Non sono simpatici, i personaggi che nascono dalla penna di Yates, e se suscitano la simpatia del lettore è solo per brevi istanti, prima che vengano rivelati in tutta la loro piccola crudeltà quotidiana. Esseri paralizzati, bloccati da un’insoddisfazione a cui non riescono a venire a capo e da cui non riescono a smarcarsi: nessun cambiamento, per quanto fortemente desiderato, sembra allora possibile.

Yates, racconti, Undici solitudini

Sono i personaggi che affollano i racconti di Undici solitudini, raccolta del 1962. Anche in questo caso le solitudini raccontate fanno riferimento a esperienze vissute in prima persona dall’autore, a sentimenti conosciuti e analizzati: storie ambientate in contesti scolastici, storie di adulteri e crisi coniugali, storie di aspiranti scrittori. Tutti i personaggi sono accomunati dalla feroce onestà con cui Yates li racconta, vittime e carnefici di tanto banali quanto crudeli situazioni quotidiane. O il romanzo Cold Spring Harbor, del 1986, in cui Yates tratteggia gli incroci e i sotterranei scontri di tre famiglie della provincia di Long Island: benestante e sempre uguale a se stessa, terreno ideale per l’esplosione di dolori lasciati covare in seno alla quotidianità.

Un’inconscia fiducia

Appena uscito, sempre per la romana Minimum Fax, l’ultimo inedito di Yates: Il vento selvaggio che passa. Anche in questo caso un romanzo che indaga il disgregarsi di un matrimonio. E anche in questo caso il lettore si trova di fronte un protagonista che sogna la gloria (attraverso la scrittura), e una donna frustrata che nasconde la propria infelicità e la vede inesorabilmente riflettersi nelle vite degli altri. Una volta di più assistiamo al dramma del matrimonio, perno inevitabile della poetica di Yates.

Yates, inedito, Minimum Fax

Kurt Vonnegut in uno dei contributi inseriti come prefazione al testo, scrive: “Mi è stato impossibile trovare anche solo un segno di interpunzione che non fosse esattamente al posto giusto; non ho trovato un solo paragrafo che, se ve lo leggessi oggi, non vi lascerebbe a bocca aperta per la sua forza, intelligenza e nitore”. Nonostante questo cristallino talento, nonostante una scrittura piana, che culla l’attenzione del lettore con facilità, Richard Yates non è stato capito. Viene paragonato spesso a Fitzgerald, eppure, come ricorda sempre Vonnegut, non ha avuto la fortuna di lavorare accanto a Getrude Stein ed Hernest Hemingway, non ha avuto la fortuna di danzare in una Parigi piena di lustrini.

Ma è la speranza nello scarto che può nascere dal desiderio del cambiamento, che ha permesso a Yates di diventare lo scrittore che tutti oggi possono leggere. La possibilità di una deviazione che, invece, i suoi personaggi tradiscono sempre, e in cui tuttavia il loro creatore non ha mai smesso di credere. D’altronde la frase che Yates teneva appesa sopra al tavolo dove scriveva (del candidato presidente Adlai Stevenson battuto due volte da Eisenhower), è un monumento a questa antinomia:
“Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine”.

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