In vetta alle classifiche di vendita dalla sua uscita, “Le ossa parlano” è la nuova indagine del vicequestore Rocco Schiavone (interpretato da Marco Giallini nella serie tv), nato dalla penna di Antonio Manzini. In occasione dell’uscita del romanzo, l’autore racconta a ilLibraio.it gli aspetti più interessanti del libro e le sue idee sulla scrittura e sulla lettura: “Per me la cosa importante, come scrittore ma anche come lettore, è che i personaggi seriali affrontino le piaghe del tempo. Il tempo deve passare anche per Schiavone, e questo significa che deve invecchiare e andare incontro agli stessi accidenti della vita con cui tutti noi siamo costretti a fare i conti. Non mi piacciono i personaggi congelati nel tempo e nello spazio, che hanno sempre la stessa età…”. E sui due anni di pandemia: “Non mi sembra che abbiamo imparato molto, anzi mi pare che ci sia stata semmai una regressione verso l’abbrutimento, il consesso sociale è sempre più squallido, si sta depauperando…” – L’intervista

Antonio Manzini è tornato in libreria a gennaio con una nuova e attesa indagine di Rocco Schiavone, Le ossa parlano (Sellerio), e da allora è saldamente in testa alle classifiche di vendita.

Senza fare troppi spoiler, possiamo raccontarvi che le pagine iniziali del romanzo vedono Schiavone salutare amaramente Roma (forse per sempre? Non vogliamo crederci!) per tornare ad Aosta, dove ad attenderlo ci sarà il tradimento, più a sé stesso che ad altri, di un ormai ex amico e uno dei casi più difficili su cui si sia mai trovato a indagare: il ritrovamento delle ossa di un bambino in un bosco. 

In questo nuovo romanzo Manzini sceglie di concentrare tutta l’attenzione su un’indagine che merita rispetto e attenzione: una parentesi cupa nelle vite dei suoi personaggi che questa volta restano, quasi tutte, sospese, come in attesa. Ma il lettore appassionato delle avventure di Rocco Schiavone sa che l’acuta penna di Manzini è sempre al servizio della storia: ad attenderlo ci sarà dunque come sempre lo stile veloce e preciso a cui ci ha abituato l’autore, le descrizioni accurate e i dialoghi serrati tra Schiavone e i suoi sottoposti, le paranoie e le battute di Michela Gambino e tutta la rosa di comparse a cui abbiamo imparato ad affezionarci. 

Antonio Manzini, Rocco Schiavone

Manzini, in questa indagine il vicequestore Rocco Schiavone si trova a indagare su una vicenda difficile, forse la più dura con cui si sia mai confrontato. Da dove è nata l’idea?
“Volevo ricordare che, anche se sui quotidiani se ne parla meno, ci sono mostruosità che continuano ad accadere, nel nostro paese come nel mondo. E poi c’è un’altra questione: non avevo ancora affrontato questo tipo di caso e quindi mi è sembrato giusto mettere il mio personaggio di fronte a una situazione del genere”.

E com’è stato, per lei che è la voce di Schiavone, scriverne?
“Un po’ pesante: devo avere una vera e propria mimesi con quello che sto scrivendo, altrimenti non ci riesco: devo entrare nei personaggi, li devo sentire, devo capire cosa pensano”.

Rocco Schiavone ha un carattere complesso, nei primi libri sembrava più oscuro, ma in realtà è pieno di lati di luce e umanità.
“È un personaggio che si racconta sempre più a fondo, da anni ormai. Per me la cosa importante, come scrittore ma anche come lettore, è che i personaggi seriali affrontino le piaghe del tempo. Il tempo deve passare anche per Schiavone, e questo significa che deve invecchiare e andare incontro agli stessi accidenti della vita con cui tutti noi siamo costretti a fare i conti. Non mi piacciono i personaggi congelati nel tempo e nello spazio, che hanno sempre la stessa età, mi sembra appartengano a un modo ormai passato di raccontare, o forse più fumettistico”. 

Nei romanzi di Schiavone lei si muove sempre su un doppio binario: quello delle indagini da un lato e quello della storia personale del vicequestore dall’altro. Come si approccia al racconto del passato di Schiavone?
“La storia personale di Rocco era già abbozzata con una trama più o meno chiara subito dopo il primo romanzo e piano piano è stata svelata. Adesso anche se sono stati raccontati più o meno tutti gli aspetti del suo passato, la sua vita privata continua a svolgersi con la stessa precisione con cui vengono raccontati i casi che incontra sul lavoro. A dire la verità, la vita privata di Rocco è la parte che preferisco, rispetto alle indagini vere e proprie”.

In questa vicenda, però, le ha dato meno spazio.
“In questo romanzo il privato dei personaggi non compare quasi per niente, perché è talmente pesante l’indagine, talmente importante, che ho preferito lasciar perdere sia gli acciacchi personali di Rocco sia quelli degli altri (tranne Italo) e farli concentrare sul caso, che era molto più importante di qualunque cosa si potesse scrivere di loro”. 

All’inizio del romanzo Rocco Schiavone sembra dire addio a Roma: nella scrittura, che possibilità narrative rappresentano per lei Roma e Aosta?
“Sono due palcoscenici completamente diversi : uno insiste sul passato, l’altro sul presente. E sono due città che non hanno niente in comune, nessun punto di contatto. Sono due ambienti completamente diversi. Cercavo una città lontana da un romano che è sempre vissuto a Roma, sia geograficamente sia morfologicamente, anche soltanto per l’aria, la luce, l’atmosfera, il clima. E Aosta mi sembrava la migliore, anche perché la conoscevo. Preferisco scrivere di luoghi che ho visto o che somigliano a luoghi che ho visto, non potrei mai scrivere un libro ambientato in un posto dove non sono mai stato, direi una montagna di sciocchezze”.

Lei non si fa spaventare dall’uso della tecnologia nei suoi romanzi. Insomma, non basta vivere in un mondo digitalizzato per arrestare velocemente un criminale.
“La tecnologia ci ha addomesticati, ci viviamo in mezzo, mi sembra sciocco e anche un pochino ipocrita non parlarne. Qualunque cosa facciamo, qualsiasi lavoro facciamo, usiamo la tecnologia. Credo che l’unica soluzione sia cercare di scriverne con parsimonia e con verosimiglianza: chiunque scriva libri gialli, si deve informare su certe cose, anche obtorto collo. A me, per esempio, non interessano, mi annoiano, però ci devo fare i conti, e quando leggo che la prova del DNA arriva in due giorni mi viene da ridere, perché ce ne vogliono almeno venti. Significa che il narratore non sapeva più dove sbattere la testa. Poi si deve considerare che la maggior parte dei casi si risolvono con un testimone oculare, con una ripresa di una telecamera a circuito chiuso, o dai dati del cellulare: se Conan Doyle aveva una serie di alternative diverse, oggi sono tutte sostituite dalla tecnologia e sarebbe sciocco non mostrarlo, perché sarebbe poco credibile”.

La letteratura noir, forse più di altri generi, riesce a indagare le infinite sfaccettature del reale, le motivazioni dietro un gesto, i chiaroscuri dei personaggi. È d’accordo?
“Mi sembra un compito della narrativa in generale, non necessariamente del noir. Tutta la letteratura è alla ricerca di qualcosa: può essere un amore, un figlio perduto, una società da rimettere in piedi, un cadavere, un colpevole… la letteratura racconta sempre gli esseri umani alle prese con le loro problematiche, qualsiasi esse siano. Poi, certo, in una storia noir c’è sempre un caso da risolvere, un cadavere su cui indagare, ma l’enigmistica pura è qualcosa che non interessa più a nessuno: si cerca sempre di raccontare altro attraverso l’enigma. L’unica cosa che effettivamente può distinguere il genere è una maggiore possibilità di raccontare è la società che ci circonda, perché piomba immediatamente nel tessuto sociale, senza troppe sovrastrutture. L’omicidio accade e si è catapultati direttamente nell’ospedale, nelle scuole, nelle famiglie e si entra, anche con una certa virulenza, dentro le pieghe della società. Ma per il resto assolve lo stesso compito di un romanzo di formazione, o di un romanzo storico. Per me non esiste una letteratura di serie A e una di serie B: ci sono i libri belli e i libri brutti”.

Mentre si occupa del caso, Schiavone sta leggendo Germinale di Zola: e l’Antonio Manzini lettore cosa legge?
“Al momento sto leggendo alcuni scritti postumi di Papini e un romanzo di Anne Tyler. Ma in generale sono un lettore piuttosto onnivoro, ultimamente ho letto anche I rondoni di Aramburu e Il signor di Dido di Savinio e poi Bernard Malamud e Ricardo Piglia”. 

Continuiamo, ormai da due anni, a vivere in un mondo sospeso dal Covid, come pensa che entrerà questa quotidianità nelle future narrazioni?
“Mi chiedo quanto sia presente, nelle narrazioni dal 1920 in poi, l’influenza Spagnola. Si parla della guerra, delle avanguardie a Parigi, della Germania, ma della Spagnola molto poco. E probabilmente con questa pandemia sarà uguale. O si integra in modo che abbia senso narrativamente, altrimenti non è altro che un elemento di cronaca di contorno che si esaurisce in due righe, per esempio in un personaggio che gira con la mascherina. Spero che, se mai succederà, nelle narrazioni entrino gli sfregi che ha lasciato nelle persone, per esempio l’eccesso di solitudine dei ragazzi… ma per quanto riguarda la pandemia in generale, a me non sembra che la civiltà abbia subito un cambiamento radicale. Non mi sembra che abbiamo imparato molto, anzi mi pare che ci sia stata semmai una regressione verso l’abbrutimento, il consesso sociale è sempre più squallido, si sta depauperando, questo sta succedendo”.

Fotografia header: Photo by Rosdiana Ciaravolo/Getty Images

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