“C’era solo un posto dove potevo parlare senza paura del mio corpo malato: lo spazio bianco della scrittura…”. “In trasparenza l’anima”, romanzo d’esordio di Beatrice Sciarrillo, racconta la storia di una ragazza con un grave disturbo alimentare. Su ilLibraio.it proponiamo una riflessione della scrittrice, che presenta Anita (la protagonista), e un capitolo dal libro
A scrivere del mio corpo ho cominciato nel momento in cui stava scomparendo. Inconsciamente avevo così paura di perderlo, di rimanerne senza, che iniziai a scrivere di come non lo sopportassi, di come fosse così complicato viverci dentro.
Scrissi non solo per paura e rabbia, ma anche dopo la lettura di alcuni romanzi verso cui fui spinta quasi per magia. Il più importante fu senz’altro Memorie di una ragazza di Annie Ernaux. Ricordo ancora le sensazioni fisiche provate quando, appollaiata su una sedia, lessi le pagine in cui Ernaux, con quel tono freddo che la contraddistingue, ricorda la sé stessa ragazza sgattaiolare nel negozio di alimentari, gestito dai genitori e, di fronte a quell’abbondanza di cibo inscatolato, incellofanato, congelato – gloria e vanto della sua famiglia – divorare il più velocemente possibile ogni cosa su cui cadevano i suoi occhi, ogni cosa che le sue mani potessero abbrancare e portare alla bocca, per poi vomitare tutto e ricominciare da capo il giorno dopo.
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“La ragazza del ‘58”, come si definiva sul suo diario segreto, tentava così di aggrapparsi al seno affettivo, di quietare i desideri taciuti, di assumere un controllo su una vita di cui non si sentiva più padrona. Mentre leggevo, percepivo in me la liberazione e la vittoria che attraversavano quel corpo accovacciato sul water: il vomito come potenza gestuale e autodeterminazione.
Riemersa dal suo passato adolescenziale, Ernaux afferma che allora non sapeva che quella cosa si chiamasse bulimia: lo scoprì molti anni dopo quando, ormai adulta, si imbatté in un volume di medicina.
All’età di sedici anni, io conoscevo molto bene il nome della cosa che mi si era appiccicata addosso, ma mai la pronunciavo. Ero mangiata dal pensiero magico e temevo che nominandola, l’avrei persa per sempre: e come avrei fatto allora? Era la cosa più importante che possedevo al mondo.
C’era solo un posto dove potevo parlare senza paura del mio corpo malato: lo spazio bianco della scrittura. Scrivevo per conservare qualcosa che sentivo scomparire e, anni dopo, quando cominciai quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo, ripresi in mano le vecchie agendine, fitte di note e cancellature. Le lessi e le buttai, riscrissi tutto daccapo. Sarebbe bello dire che questo libro l’ha scritto la mia memoria di ragazza, che questo romanzo sia il racconto della mia esperienza di malattia, ma così non può essere, perché la memoria è una creatura infida, bugiarda, che distorce gli eventi e non è capace di cronicizzare un’esperienza patologica.
Io non sono Anita e questa non è la mia storia, ma è qualcosa che il mio corpo ha conosciuto.
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Per gentile concessione della casa editrice, proponiamo l’incipit del romanzo:
1
È da quando avevo dodici anni che mia sorella non ha più fiducia in me. Dice che la malattia mi ha fatto diventare bugiarda, dice che giorno dopo giorno mi sta divorando.
Non solo lei, tutti in famiglia dicono che il mio corpo sta scomparendo, che si è ridotto a un misero pugnetto di ossa sempre in movimento. Dove loro vedono le ossa, io vedo la carne, una carne viva e pesante. Quando mi guardo allo specchio, non vedo lo scheletro che sono per gli altri, vedo un coagulo di sensi di colpa. Quando addento una mela, quando finisco il vasetto di yogurt perché obbligata, quando mia madre mi lega alla sedia per costringermi a stare ferma, il mio corpo si fa gigantesco, occupa sempre più spazio fino a sfiorare l’esplosione.
Vedo tutto, non vedo la malattia. Non oso neanche nominarla. Non si nomina ciò che è sacro.
2
Scalza e infreddolita corro in bagno. Devo fare in fretta: ho mezz’ora, mia madre e mia sorella si alzeranno poco prima delle otto. Quando scenderanno al piano di sotto, io avrò finito la colazione e mi farò trovare in salotto a studiare. Fuori è già giorno, ma se alzassi la serranda mia madre si sveglierebbe. Muovendomi a tentoni, svuoto la lavastoviglie. Tiro fuori i piatti fondi e quelli piani, i bicchieri di vetro e quelli di plastica. Apparecchio la tavola con le tovagliette e le tazze dell’ikea, la imbandisco come se a svegliarsi in questa casa fosse una famiglia unita e felice di vivere insieme. Prendo dal frigo la bottiglia del latte, ne verso un po’ nella tazza, poi rovescio i cereali in una scodella. Avvicino la ciotola al naso e chiudo gli occhi. Conto fino a sette, intanto inspiro l’odore dei cereali. Non appena sento le narici pulsare, butto fuori tutta l’aria inspirata, mentre immagino il gusto dei cereali, la croccantezza di quando, mordendoli, scricchiolano sotto i denti per poi liquefarsi sulla lingua, o la tenerezza di quando, dopo averli lasciati nel latte bollente, si sciolgono fino a scomparire.
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A sei anni, i cereali avevano sostituito le merendine confezionate e la mia vita era diventata triste. Seduta di fronte alla scodella dei Looney Tunes, guardavo mia madre dall’altro lato del tavolo e le domandavo come dovessi fare. «Bisogna metterli nel latte o mangiarli direttamente così?». Con le brioches era più semplice, bastava lasciare che i miei denti da latte affondassero nella morbida pasta. Le mie preferite erano quelle ripiene di marmellata all’albicocca. Mia sorella continuava a mangiarle, mentre io non potevo più. «Fai come vuoi» mi rispondeva mia madre, mentre finiva di truccarsi in cucina. Il suo viso riflesso nello specchio sembrava quello di una bambola. Le guance rosse di fard, i glitter sulle labbra, le ciglia lunghissime dopo tre attente passate di mascara. «È tardi» mi avvertiva, vedendomi indugiare con il cucchiaino in mano. Poi, quando si alzava per spegnere la moka, io guardavo la sua schiena magra piegarsi sui fornelli, stringevo il cucchiaino tra pollice e indice e m’imboccavo da sola. In sottofondo, la sigla di Lady Oscar e sulla tovaglietta accanto alla mia la plastica della merendina mangiata da Marta.
Svuoto la tazza nel lavello, poi vado in bagno e butto i cereali dentro il wc. Non mi fido a gettarli nell’organico, nemmeno se li spingessi sul fondo, mia madre ormai controlla ogni cosa e se mi scoprisse sarebbe la fine. Mi legherebbe alla sedia e mi imboccherebbe lei stessa. Mi direbbe di spalancare bene la bocca, conterebbe ad alta voce i cucchiaini di latte e mi toccherebbe la pelle del collo per accertarsi che io deglutisca e mandi giù tutto. Mi chiudo a chiave.
«Anita apri». Mia madre si è svegliata e bussa alla porta con insistenza. «Apri» ripete, sempre più forte.
«Un attimo». Seduto sul water, il mio corpo tenta di evacuare l’odore respirato, di svuotare lo stomaco vuoto. Spingo a denti stretti ma non esce niente, neanche l’aria. Mi tocco la pancia e la sento piena di gas.
M’infilo in bocca due o tre pastiglie di lassativi, le ingoio senz’acqua.
Mia madre dà manate contro la porta. Una, due, tre volte, poi la porta si apre.
«Cosa stai facendo?». Rimane sull’uscio, addosso la camicia da notte beige. Ai piedi, un paio di ciabatte con il tacchetto. Mi domanda dove ho messo la colazione, in che posto l’ho imboscata stamattina. Io continuo a tastarmi lo stomaco, fisso un punto per terra. Intanto, a voce bassissima, la supplico di andarsene, di lasciarmi in pace.
Lei mi si avvicina e guarda giù. «Non hai nemmeno le ciabatte».
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Mi giro verso mia madre e le guardo il viso. La guancia sinistra ha ancora il segno del cuscino. È una striscia rossa e sottile, così precisa che sembra tracciata con un righello. La notte mia madre dorme con il volto girato verso la porta, dice che in quella posizione può sentire meglio i rumori e, se succedesse qualcosa in casa, accorrerebbe subito in aiuto. Negli ultimi otto anni il suo volto si è riempito di rughe. La fronte, le guance, il mento, anche il collo, tutto mi pare grinzoso, vecchio, stanco. Il terrore che io muoia, dice, non la fa dormire la notte e io la vedo sempre più magra. Ha smesso di andare a cena fuori con le amiche perché non vuole lasciarmi a casa da sola, insiste per accompagnarmi in auto all’università perché teme che, da un giorno all’altro, un numero d’ospedale la chiami per avvisarla che sua figlia è stata trovata svenuta per strada, se non morta d’infarto dentro un bagno della facoltà. Per tutta l’infanzia ho avuto paura che mia madre morisse. Ora è lei ad avere paura che io muoia.
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«Ho già bevuto tutto il latte e mangiato tutti i cereali».
Mia madre scuote il capo. Non mi crede, dice che se rovisterà dentro l’immondizia troverà i cereali sbriciolati in fondo al cestino dell’organico.
«Non c’è niente!». Il tono della mia voce s’innalza d’improvviso, mia madre indietreggia, sul volto un’espressione di paura mista a rabbia.
«Anita, alzati e torniamo in cucina».
Dondolo il torace avanti e indietro, le dico di no, di lasciarmi stare, poi afferro con entrambe le mani la tavoletta del water e la stringo forte, come se temessi che mi strappasse a forza da lì.
Mia madre comincia a urlare, non ce la fa più, è stanca di combattere per farmi mangiare. «Anitaaa!» grida con tutta la voce che ha in corpo. Gli strilli richiamano mia sorella, arriva con la mascherina sulla fronte e i capelli aggrovigliati, bellissimi. Come ogni giorno Marta media tra me e mia madre, ci prova. Ma mia madre è completamente fuori di sé questa mattina. «Ora chiamo il 118!» urla, contro me e mia sorella.
Marta non si muove, mia madre si accascia sul bordo della vasca e scoppia a piangere. Si copre il viso con le mani, mentre tra sé e sé dice quello che dice sempre: «Io non la voglio una figlia malata in casa, io non la voglio una figlia malata in casa». Le parole si mischiano al pianto. Quando si arriva a questa parte del copione, significa che il litigio, o quello che è, sta per finire, che anche oggi mia madre non farà nessuna telefonata, ma si limiterà a piagnucolare tutta la mattina per poi cucinarmi il pranzo, la merenda e la cena. Tre volte al giorno, ogni giorno, mia madre mi prepara da mangiare; ogni giorno il suo primo pensiero appena sveglia, il suo desiderio più grande, è che sua figlia assaggi ciò che ha cucinato.
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La guardo piangere, non dico niente. Lascio la presa sul water, mi sollevo e tiro su mutande e pantalone della tuta. Poi vado a chiudermi in camera e sbatto la porta più forte che posso. Sento le grida di mia madre venire da fuori, la sua voce rimbomba nel corridoio. Mi siedo per terra, stringo le ginocchia. Perché mia madre non mi lascia stare? Io sto benissimo. Mi guardo i piedi che diventano viola dal freddo, le unghie lunghe che non taglio da giorni. Penso a quando ero bambina, alle sere in cui mi nascondevo dentro l’armadio grande dell’entrata perché avevo paura delle urla dei miei genitori. «Fuori di qui!», «Non sei mai a casa!», «Stai zitta!». Io mi tappavo le orecchie e cercavo un rifugio tra i cappotti, i maglioni, le sciarpe. Poi mi fissavo i piedi e ci giocavo. Facevo finta che le dita fossero i componenti della mia nuova famiglia e io ero il mignolino, quello che aveva bisogno di protezione e che in cambio donava affetto. Dopo un po’ Marta veniva a cercarmi, lei sapeva sempre dov’ero. Apriva l’anta dell’armadio, rovistava tra i cappotti e mi sussurrava all’orecchio di uscire fuori. «È tutto finito,» bisbigliava «non è successo niente». Tornavamo in stanza, lei accendeva la radio e, sulle note di Madonna o Britney Spears, ballavamo abbracciate. I piedi scalzi sul tappeto e le orecchie ostinate a non sentire nulla di tutto ciò che succedeva fuori dalla nostra cameretta.
Marta ha un anno più di me. Alla mia nascita mio padre la portò in ospedale e, quando mostrò a quella bambina biondissima la neonata stretta tra le braccia di nostra madre, lei mi prese per un bambolotto e, per lungo tempo, chiese ai miei genitori di dormire accanto al nuovo giocattolo di casa. Poco prima che io nascessi, Marta aveva imparato a camminare con mio nonno. A parlare invece abbiamo iniziato insieme. Tardi però, perché per più di due anni abbiamo parlato solo tra di noi usando un lessico tutto nostro. «Sodì» per indicare la sedia, «cacù» per designare la pipì. Mia madre, preoccupata, ci aveva portate dalla logopedista, ma lei le aveva detto di stare tranquilla e di non separarci: presto avremmo appreso il linguaggio comune e ci saremmo aperte al resto del mondo. Mia madre ci guardava come fossimo due aliene e scuoteva la testa. Ora penso che fosse gelosa di quel linguaggio che era solo nostro.
Io la chiamavo «Ma’» e lei «Anì». Ai miei occhi Marta era una regina, una bambina forte che non aveva paura di niente, non aveva bisogno di niente, mentre io ero bisognosa di tutto, ogni cosa mi metteva paura: le maestre, i compagni di scuola, i miei genitori. Temevo ogni parola pronunciata in questa casa, ogni evento del mondo esterno, che fosse una recita, un dettato, una lezione di nuoto. Oggi Marta ha ventun anni, e la notte, quando mi sente sussultare sul materasso in preda a un incubo, mi viene vicino, scalda il mio corpo con il suo e mi accarezza la fronte finché non mi addormento.
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Sento mia madre entrare in bagno. Dopo ogni nostro litigio si chiude a chiave dentro il bagno o in camera sua perché non vuole vedere più nessuno. Vuole dimenticarsi, finge di dimenticarsi, almeno per qualche ora, di me. Dice di non capire dove abbia sbagliato e come sia possibile che abbia cresciuto una figlia così. «L’altra mia figlia non è come lei» dice nei colloqui con la psicologa di famiglia. È come se, mostrando l’esempio di Marta, volesse discolparsi e rendere evidente che la responsabilità non è sua. Alla fine di ogni seduta mi guarda e mi fissa in silenzio.
Mia sorella bussa alla porta, supplicandomi di venire fuori. Io non ho più la forza di oppormi. Esco dalla stanza e la raggiungo in cucina. Marta prende una tazza pulita dalla credenza, ci versa dentro un po’ di latte e l’appoggia sulla tavola accanto a un mucchietto di cereali. Mi fa cenno di sedermi e mentre mi guarda mangiare, io mi tocco lo stomaco. Si sta già gonfiando e, più tardi sul water, non uscirà niente.
L’AUTRICE E IL LIBRO – Beatrice Sciarrillo (1998), diplomata alla scuola di scrittura Molly Bloom di Roma, è all’esordio nel romanzo con In trasparenza l’anima.
Il libro si apre con Anita, la protagonista, che si alza prima di tutti e prepara la colazione. In una tazza versa il latte, se lo porta alle narici, aspira e poi lo butta nel lavello; quindi prende i cereali, li nasconde in una tasca, va in bagno e li getta nel water. In trasparenza l’anima racconta la storia di una ragazza con un grave disturbo alimentare – che non riesce a riconoscere – e la cui più grande preoccupazione è preparare gli esami dell’università.
Quando viene ricoverata in ospedale, dopo la minaccia di un Tso, incontra sia coetanee sia una donna molto più grande di lei con la stessa malattia. Ma Anita non vede la sua condizione come una malattia… Tra pasti in comune, giornate di studio e momenti tesi con le altre pazienti, assistiamo al percorso di crescita e guarigione di Anita.
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