Cos’altro è “Seminario sulla gioventù” (1984), se non un romanzo di formazione picaresco omosessuale? Quella narrata nell’esordio di culto di Aldo Busi non è, tra l’altro, un’omosessualità facilmente addomesticabile. Lo scrittore costruisce una forma di vita che non chiede assimilazioni, ma sta fuori, sta contro, per essere altro…
Diciamolo subito, e una volta per tutte: Seminario sulla gioventù di Aldo Busi è un romanzo omosessuale. Questo fatto colpisce con un’evidenza assoluta, a rileggerlo oggi, quarant’anni dopo la sua prima pubblicazione, ma stupisce ancora di più con quanti sforzi la critica italiana, in questi quattro decenni, abbia cercato di nascondere questa evidenza – e non senza l’aiuto del suo autore, che non ha mai mancato di dichiarare “Io non sono uno scrittore omosessuale, io sono uno scrittore”, rifiutando la stessa etichetta di “romanzo gay” a favore di quel forte mito culturale dello Scrittore, scritto sempre con la maiuscola nel suo manifesto di poetica Nudo di madre (Manuale del perfetto Scrittore), che persegue il monumento, e l’idea di una Letteratura che abbraccia la totalità.
Ma il punto è un altro: voler tacere dell’omosessualità del romanzo, o rubricarla a semplice tema fra gli altri, accidente della vita del protagonista, ossessione di un individuo, “certo materiale che ormai non fa più scandalo” (così Carlo Bo, in una recensione uscita sul Corriere della Sera il 30 maggio 1984), vuol dire distorcere la stessa logica formale del romanzo. Anche quei pochi che hanno inserito Busi in una genealogia sessualizzata, come Francesco Gnerre ne L’eroe negato (2000), riconoscendo giustamente che “l’omosessualità è provocatoriamente esibita con una carica eversiva che non ha precedenti”, non sono riusciti a sottolineare quanto questa evidenza sia in realtà la manifestazione esplicita del precipitato sulla forma romanzesca di una esistenza “diversa per forza” (per parafrasare il titolo di un libro importante di Leo Bersani, Homos. Diversi per forza). Significa cioè trovare un’architettura formale che si inserisca nella grande tradizione del romanzo europeo e nordamericano (e in questo Busi è autore coltissimo, che riprende coscientemente e seriamente il canone occidentale, configurandosi come il nostro ultimo autore pienamente novecentesco), e al tempo stesso non riprodurre pedissequamente le morfologie di genere eterosessuali.
Cos’altro è Seminario se non un romanzo di formazione picaresco omosessuale? L’ultimo aggettivo non è una specificazione secondaria, ma significa proprio una completa ristrutturazione del genere e del sistema valoriale che a quel genere si assegna. Non riconoscere questa specificità vuol dire fare violenza alla storia, e non collocare Seminario nella genealogia che gli spetta. Questo non vuol dire necessariamente essenzializzare un genere letterario e una identità o un orientamento sessuale, tutt’altro, vuol dire assumere un posizionamento strategico per spiegare quale valore, anche politico, può avere per noi oggi il romanzo di Busi. Non si tratta, cioè, di forzare la costruzione di un archivio aggiungendo tasselli, ma all’opposto di guardare al futuro per far saltare il tavolo.
In Sodomie in corpo 11, romanzo pubblicato nel 1988, e immediatamente finito a processo per “contenuto altamente osceno”, il narratore scrive che “la vera letteratura alta fine a se stessa (…) non si occupa delle comuni voglie sessuali esaudite o negate, ma dello scatenarsi della frustrazione nel personaggio, di come essa si riverbera nei suoi costumi e nel suo ambiente sociale”. È chiaro allora che l’“esasperato e ossessivo sessualismo fine a se stesso, con rappresentazioni crudamente veristiche di amplessi, descrizioni di scene ed esposizioni di rapporti omosessuali anali e orali” (come recita l’atto di accusa) che caratterizzano Sodomie e il Seminario, non sono semplici temi scandalistici, ma uno strumento attraverso cui dare una rappresentazione totalizzante di un individuo in società: l’omosessualità, cioè, diventa la forma di costruzione dell’architettura romanzesca. La Bildung che Seminario sulla gioventù costruisce per tappe disordinate nel corso della narrazione recita, infatti, il copione del romanzo di formazione omosessuale: l’ingiuria, la fuga verso la città (che per Eve Sedgwick Kosofsky è uno dei racconti fondativi dell’identità moderna), la ricontrattazione del proprio sé.
Il racconto della vita di Barbino, il protagonista del romanzo, che da un piccolo paese di provincia si muove come un picaro per il nord Italia, arrivando a Parigi e finendo a Londra (salvo poi essere bloccato alla frontiera perché ha un dildo nella valigia), traccia, infatti, esattamente quel processo di “risoggettivazione” che Didier Eribon identifica come caratterizzante delle soggettività marginalizzate: la possibilità, cioè, di ricreare la propria identità personale a partire dall’identità assegnata. Proprio perché nel Seminario a essere in gioco è questo processo di ricostruzione, il percorso di formazione del giovane protagonista non è lineare, ma aperto, perverso, molteplice: la trama si sfalda, la temporalità impazzisce, l’io si rifà di volta in volta, in un processo non subito, ma scelto e consapevole: “Barbino era pronto a passare all’invenzione di se stesso”. Non a caso, prima che arrivi la consapevolezza di questo processo Barbino è un personaggio, agito e parlato alla terza persona: solo poi inizierà a dire io e a raccontare, in quanto io, la propria storia. Meglio: in quanto molteplicità di io: “Un suono mi sale alla gola, io,”, dice a un certo punto Barbino, “e scoppio a ridere come un matto: io, io, io! Continuo a ripetermi e non riesco a crederci di quanti ‘io’ sia stato fatto sino a ora, quanti ‘io’ siano ora, al buio, insieme al mio”.
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Questo processo di invenzione del sé si fa letteralmente opera di teatralizzazione, di costruzione di maschere: come un personaggio, “per diventare un eroe a tutto tondo”, Barbino deve prima passare “dalla messa in scena della propria personalità davanti a fondali che cedono, papere, porte cieche, e incursioni in scena”. C’è dietro, chiaramente la tradizione barocca del mondo come teatro, l’idea wildiana, lapidariamente espressa nella Salomè, che solo le maschere dicono la verità, ma anche l’allusione a una moltiplicazione dell’identità che, costitutivamente, ha caratterizzato le esistenze gay nella modernità (e già l’incipit avvertiva che “a pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi?”). Questa situazione ricade anche sulla voce del narratore e soprattutto sull’inaffidabilità di quanto dice: se l’atto di costruzione del sé è un anche un atto di narrativizzazione e messa in forma, la finzione conta più della memoria, della precisione, della cronaca. Non c’è testimonianza nel Seminario, l’ipertrofia dell’io è un atto di auto-invenzione, di risoggettivazione, appunto, fino all’esito estremo di far dubitare delle parole stesse di Barbino.
Non è un caso, ancora, che una delle scene iniziatiche del racconto sia un episodio di cross-dressing, in cui Barbino balla e canta vestito da femmina, non capisce perché tutti ridono sguaiatamente, e lo appellano “cülatì! cülatì!”. Questa scena segna quasi un destino, cui Barbino farà i conti per tutta la vita (il verdetto sociale d’altronde è un destino), e il personaggio nel corso del racconto assume quasi le caratteristiche di una figura tragica che cerca di sottrarsi e fare i conti con il fato, tanto che la narrazione a tratti seguirà uno schema mitico, concretizzato soprattutto nelle tre donne misteriose che svolgono, nella vita di Barbino, il ruolo di Parche – e si risolveranno in altrettante figure della non-conformità sessuale.
Questo schema mitico si ritrova anche nelle molte scene iniziatiche del primo capitolo (probabilmente il più bello del romanzo), in cui inizia la formazione del protagonista – e significativamente questa formazione avviene sempre attraverso e sul corpo, attraverso la sensualità prima (gli odori, il tatto, il gusto), la sessualità poi. L’infanzia di Barbino è segnata da continue manifestazioni di una sessualità polimorfa – in questo Seminario si inserisce di nuovo in una chiara genealogia di romanzi (soprattutto quelli più o meno autobiografici) che hanno raccontato il desiderio omosessuale a partire proprio dall’infanzia: basti pensare all’incipit del Libro bianco di Jean Cocteau, alla narrativa di Christopher Isherwood, a Becoming a Man di Paul Monette, fino ad arrivare a Farla finita con Eddy Belleguele di Edouard Louis, in cui si trovano manifestazioni di sessualità infantile vissuta a uno stato quasi animale, o sicuramente pre-sociale, strettamente connessa alla stessa ambientazione provinciale che si riscontra nel Seminario.
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Nel caso di Busi, tuttavia, colpisce soprattutto il tono grottesco con cui spesso l’(omo)sessualità infantile di Barbino è raccontata: “Guardare, ascoltare, toccare, udire, annusare, era tutto a posto, il corpo era magnifico, una continua sorpresa, nel suo piccolo non gli mancava niente. E Barbino sempre lì con un dito a ravanarsi il culo per portarselo al naso e aspirare perché aveva sentito all’osteria della Rosi che lì c’era ‘la cioccolata calda degli intenditori’”. La sessualità diventa, insomma, fin da subito il filtro attraverso cui rifrangere tutto il mondo sociale e il legame fra il personaggio e gli altri: e infatti sono proprio le esperienze e la precoce percezione della differenza di genere che iniziano a costruire il carattere di Barbino: “A Barbino piaceva molto ricamare anche per una ragione più da spia che da forzato della madre a lavori effeminati: gli piaceva stare insieme alle donne”. Sono proprio le due attività principali dell’immaginario femminile, il ricamo, e il raccontare storie (in entrambi i casi, cioè, tessere delle trame) a formare il giovane Barbino e ad allontanarlo all’universo maschile, cui di necessità dovrebbe appartenere, ma che considera alla stregua di una “vescica di asino gonfia di collera repressa”. Barbino contratta così la sua soggettività nello stare nel mezzo fra le canoniche manifestazioni dei due generi, delineando una situazione quasi paradossale (e la logica del narratore è spesso cavillosa, assurda e paradossale) per cui proprio quegli uomini che tanto disprezza saranno l’oggetto del suo amore: “avrebbe finito per desiderare solo chi, già lontano, è allontanato ancora di più, odioso, nemico: un uomo”. Al punto tale da arrivare a considerare l’amore stesso una forma di masochismo: il capitolo 2, con Barbino ormai a Parigi, si apre proprio con questa constatazione: “è chiaro che l’amore è diventato un masochismo involontario, quel volersi male che non dà più piacere, che si disprezza o si vuole eliminare”. Non si tratta, tuttavia, di una situazione semplicemente singolare, di una posizione psicologica del narratore deluso, ma piuttosto una verità di caratura generale che investe lo scontro fra la formazione della sessualità e dell’affettività all’interno di un ambiente sociale ostile: quell’ambiente che bolla come “cülatì!” il bambino che fa la donna e in cui la stessa parola ‘amore’ non può essere pronunciata nella lingua di quel mondo sociale: “Cos’era l’amore, quel suono che in dialetto non esisteva e che si poteva dire solo nella lingua dei signori e delle preghiere come O Gesù d’amore acceso?”.
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La formazione di Barbino, allora, si svolge anche e spesso contro quel mondo: a lungo si sogna il matricidio e il padre è considerato un “eunuco della Storia e della politica” che fa il tiranno e sfoga la propria violenza contro il figlio ribelle. La costruzione di Barbino, avviene, cioè costantemente contro le norme sociali e soprattutto contro le norme sessuali. Risoggettivarsi vuol dire quindi costruirsi contro, delinearsi come in un pharmakòs: quel rito, cioè, che nell’antica Grecia mirava a ripurificare la società attraverso l’espulsione di un individuo designato come maledetto: “Diventare io significa prima venir esiliati, fare in modo che ti scaccino dalla città, provocare il confronto, la sfida contro il patto sociale”. Ed è in questo contesto che prende forma l’esplorazione della sessualità, una sessualità precoce, che non vuole escludere niente, e si muove così dal cross-dressing alla coprofagia, alla masturbazione del pazzo del paese, fino alla relazione sessuale con il maestro di scuola raccontata come il “ricordo più bello delle scuole elementari”.
L’ (omo)sessualità è tuttavia – e resta – ambigua per tutto il romanzo, muovendosi dal polo della sacralità misterica (in questo anticipando certe pagine di Walter Siti) a quello della violenza e della noia. Basti pensare alla scena voyeuristica in cui Barbino assiste alla masturbazione del fratello come a un culto misterico: parla di “mistero” di cui è stato “il testimone”, di “segreto”, si sente “partecipe di un’opera di magia”. O più avanti, in una scena di cruising che ha luogo nei “cessi della Wanda, la guardiana protettrice dei pisciatori indugianti”, in piazza Duomo a Milano, “il buco del culo” viene paragonato retrospettivamente “a un dono eucaristico”. Proprio le scene di cruising (in particolare nei vespasiani), così ricorrenti nel romanzo, mostrano questa ambiguità: sono spesso dei luoghi euforici, quasi alla stregua di quelli di cui parla José Esteban Muñoz in Cruising Utopia, luoghi in cui passare al meglio il proprio tempo, in cui riconoscersi fra pari, in cui poter sborrare “come un geyser con una ghenga di centauri in cuoio”, o ancora luoghi di “sdrammatizzazione degli organi sessuali”, che diventano lì dei giocattoli democratici, “a cui tutti possono dare una sbirciatina o una palpatina – quasi tutti. Una forma di saluto universale tra anarchici”. Ma si tratta, tuttavia, di luoghi temporanei, sempre in dialettica con la violenza, lo sfruttamento e le difficoltà affettiva con cui la sessualità e la vita di Barbino sono intricate.
Eppure, rispetto a questa situazione la posizione del narratore non è mai quella vittimistica caratteristica di tante narrazioni contemporanee (e analizzata da Daniele Giglioli in Critica della vittima). Questa reazione avviene, in prima istanza, di nuovo attraverso quella poetica della maschera che investe la formazione di Barbino: “ero più duro di lui e di tutti, più duro perfino di me stesso, come se mi fossi inventato un Barbino di scorta per far fronte a quegli eventi straordinari in cui mi si chiedeva di essere annientato ma non di soccombere”. Poi, ribellandosi di far combaciare il dolore con la propria identità: il dolore “bisogna espellerlo”, dice Barbino, “creare un margine fra sé e la propria sofferenza, non permetterle di fagocitarci, di usare i nostri pronomi al nostro posto, non lasciarle dire ‘io’”. C’è insomma un fortissimo impulso vitalistico in Barbino, che si definisce, come dicevo, quasi sempre in maniera oppositiva. La Bildung – al contrario di quanto avviene nella secolare tradizione del romanzo di formazione – non avviene qui attraverso la ricerca di modelli da emulare, ma cercando modelli da non seguire: la gente “strana e spregevole (molto umana)” che Barbino incontra gli insegna sempre come non essere, come non diventare loro. Non a caso si rifiutano tutte le equivalenza fondanti dell’identità moderna: non solo quella con il dolore, ma anche quella con il lavoro. Contrariamente a una lunghissima tradizione che, a partire se non altro da Pinocchio in avanti, Barbino non è il lavoro che fa – e non a caso il lavoro è continuamente rifiutato.
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Barbino si colloca così in una posizione fortemente antisociale, “fuori dalle mura, dove stanno le streghe e le prostitute e i teatri”. Proprio questo posizionamento è quello che, a quarant’anni di distanza, vale la pena sottolineare ancora una volta. In un bell’articolo uscito qualche anno fa su Limina, Alberto Ravasio scriveva “L’omosessualità busiana è ancora più oscena oggi di trent’anni fa”. È più oscena oggi, credo, perché quella del Seminario indica una radicale posizione anti-omonormativa: quella di Busi non è un’omosessualità facilmente addomesticabile nei canoni eterosessuali in nome della ‘visibilità gay’, della ‘voce delle minoranze’. Perché, incarnando quell’antisocialità che secondo Leo Bersani dovrebbe caratterizzare un’arte gay (è quanto affermato in una conferenza del 1996 intitolata Is There a Gay Art?), il Seminario insiste sulla negatività, sull’amore per il potere, sulla violenza e su quanto questi aspetti possano essere caratterizzanti le relazioni umane. Busi, insomma, in Seminario costruisce una forma di vita che non chiede assimilazioni, ma sta fuori, sta contro, per essere altro. Una funzione importante dell’arte, scrive Leo Bersani, potrebbe essere ridefinita in senso anti-comunitario, opponendosi – per quanto possibile – all’assimilazione istituzionale delle singole opere. Esemplare, in questo senso, nella scrittura gay, è l’arte di Dennis Cooper, in cui, continua Bersani, l’ideale occidentale di conoscenza intersoggettiva viene spietatamente desublimato e reso letterale in un freddo e brutale squarciare i corpi come mezzo per conoscere l’altro.
Sta qui, allora, oggi, il senso di insistere e rivendicare Seminario come un romanzo omosessuale, perché, per dirlo con le parole di Barbino di fronte alla vergogna della sorella: “Per lei era esibizionismo, per me una forma morale, di metodo esistenziale, un non delegare a nessuno potere, responsabilità e sfizio”. E non deleghiamo, dunque, l’estetica omosessuale a quanto è assimilabile nei canoni eterosessuali o omonormativi. Che resta allora di tutti i Barbino che abbiamo creduto di leggere da giovani? Oggi niente, se non lo rileggiamo così, anche a costo di fargli violenza – e sono sicuro che la cosa a Barbino non dispiacerebbe.
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