“L’amicizia e la sorellanza continuano a essere una forma di conservazione e di stimolo per affrontare la vita, che è sempre turbolenta. Credo che la scoperta del ‘noi’ sia imprescindibile, in particolare per le ragazze…”. Serena Dandini si racconta con ilLibraio.it in occasione dell’uscita del romanzo “C’era la luna”. Tanti i temi affrontati (dal rapporto con la lettura, “un momento intimo, in cui ci si mette a nudo”, alla televisione di oggi: “A parte eccezioni come Splendida Cornice di Geppi Cucciari, che adoro, la tv generalista è un po’ ripiegata su sé stessa, un usato sicuro, a volte neanche tanto sicuro…”). Spazio anche alla satira nell’era dei social e alla preoccupazione per le nuove generazioni: “Dobbiamo stare molto attenti. Soffermarsi sulla fine degli anni Sessanta aiuta a capire chi eravamo, chi siamo oggi, ma anche chi non vogliamo tornare ad essere. Perché i diritti, quando ce li hai, per uno strano effetto ottico non li vedi…” – L’intervista

Il Piper e i cineforum. L’eroina intergalattica super sexy Jane Fonda-Barbarella e il genio grottesco e surreale di Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi.

Tutto si tiene in quella manciata di anni, tra il 1967 e il 1969, che portano l’uomo sulla Luna. Anni di fermento, di ribellione, in cui non è sempre agile destreggiarsi tra l’evasione e l’impegno. Soprattutto per una ragazzina romana come Sara Mei, che aspira a qualcosa di più del “o moglie o donnaccia”, in cui il mondo dei suoi genitori vorrebbe relegarla.

È lei la protagonista del nuovo romanzo, C’era la luna (Einaudi Stile Libero Big) di Serena Dandini, il più vicino – per anagrafe e per quella comune “parlantina spiritosa” – alla sua autobiografia.

Sara è un’adolescente che vuole la libertà come Colette, anche se non sa bene cosa significhi. Vuole uscire dai binari, anche se in maniera goffa e maldestra. Ma, soprattutto, lo vuole fare con Beba Sforza, Violante Rossi e Lola Saint-Just, studentesse più grandi, spavalde portatrici di una femminilità a lei ignota: una femminilità non rassicurante. Dalla sua ha l’ironia e l’ardore di volersi abbeverare alla fonte del cambiamento, pur con le sue mille contraddizioni, pomiciando con un fascista per poi perdere la verginità sotto lo sguardo benevolo del poster dell’anarchico Bakunin. Vive una stagione piena di energia, destinata però a deflagrare con quella bomba in Piazza Fontana.

Eppure Serena Dandini, autrice e conduttrice di programmi come Avanzi, L’ottavo nano, Parla con me, che con La TV delle ragazze nel 1988 ha rivoluzionato i palinsesti televisivi lanciando attrici comiche come Angela Finocchiaro, Francesca Reggiani, Sabina Guzzanti e Iaia Forte, vuole restituire lo slancio di quegli anni, senza indulgere nella nostalgia, ma richiamando il valore dell’amicizia come atto di resistenza. Anche nei periodi più bui. Come racconta in questa intervista per ilLibraio.it.

serena dandini c'era la luna

La protagonista del romanzo è un’adolescente che si considera “mediocre in tutto, un concerto di disarmonie”, ma che vuole uscire a tutti i costi dai binari. Che personaggio è Sara?
“Mi piaceva l’idea di creare un’eroina imperfetta, non troppo impegnata né inaccessibile. Sara è spavalda, ma non coraggiosa. In fondo rappresenta tutte noi: in quel contesto non poteva che ribellarsi”.

Il contesto è quello di fine anni Sessanta, periodo di grandi cambiamenti.
“In quegli anni il percorso concesso alle ragazze era molto limitato: al massimo si poteva aspirare a un buon matrimonio. Ogni desiderio di realizzazione femminile non era considerato e i diritti erano inesistenti. Non c’era il divorzio, esistevano ancora il matrimonio riparatore e il delitto d’onore, l’interruzione di gravidanza non era consentita e parlare di anticoncezionali poteva avere conseguenze penali”.

“Prima di loro pensavo che la vita futura sarebbe stata quella apparecchiata da tempo per me. Poi, per fortuna, quando sono apparse loro il deragliamento mi è subito sembrata la cosa più desiderabile”. Chi sono “loro”?
“Sara cerca la sua strada in maniera maldestra in quel bosco da attraversare che è l’adolescenza. È incerta, ma vede in Beba, Violante e Viola, ragazze più grandi che diverranno sue amiche, un’occasione di libertà. Scopre con loro la forza della sorellanza e quindi dell’amicizia, che la aiutano a definirsi”.

Eppure si paragona al mito di Medusa, in perenne conflitto tra il desiderio di mutamento e l’incapacità di agire.
“Sara si sente spesso inadeguata. È una sensazione quasi inevitabile per le donne, un peso da scrollarsi di dosso. Prova un po’ di tutto, senza voler essere una cosa sola. Non sa se desidera davvero impegnarsi politicamente, ma esplora, osserva e conosce, grazie alle amiche, per costruire la propria identità”.

“L’amicizia è più potente dell’amore. L’amicizia guarisce e salva e ti assegna un posto nel mondo” afferma Sara. E per Serena?
“Anche se l’adolescenza è passata da un bel po’, credo ancora fermamente in questo mantra. L’amicizia e la sorellanza sono state e continuano a essere per me una forma di conservazione e di stimolo per affrontare la vita, che è sempre turbolenta. Credo che la scoperta del ‘noi’ sia imprescindibile, in particolare per le ragazze”.

Il problema è che forse oggi si sta perdendo la dimensione del “noi”.
“Infatti, uno dei motivi per cui avevo tanta voglia di parlare di quella manciata di anni, il ’68 e il ’69, era proprio di mettere in luce lo spirito positivo di partecipazione che li caratterizzava. Non a caso, l’epilogo del libro coincide con la strage di Piazza Fontana che è considerata la fine dell’innocenza, non solo per un’intera generazione, ma per tutto il Paese”.

“La bella stagione era finita lì dentro e non era rimasto che fumo. Ancora non lo sapevamo, ma quella cortina impenetrabile avrebbe oscurato per sempre l’orizzonte del nostro futuro”.
“Con quella carneficina si apre un decennio di nubi nere, gli anni Settanta, di cui si è molto parlato, ma adombrando la narrazione del periodo antecedente, che è stato un laboratorio straordinario di idee, sogni e ideali. Un’epoca in cui i giovani – fino ad allora quasi invisibili – hanno preso coscienza di poter contare, gettando i semi di molte trasformazioni positive. In un presente in cui è forse più difficile ritrovare un senso di comunità, raccontare quegli anni mi sembrava un atto doveroso per cercare di rimettere in circolo quell’energia”.

Ma senza effetto nostalgia?
“Assolutamente. Il mio è uno slancio esortativo, non nostalgico”.

Uno slancio in cui non manca l’ironia, tratto distintivo non solo della protagonista…
“Quando mi chiedono se il libro è autobiografico rispondo che lo è e non lo è, come tutti i romanzi. Però questo tratto sicuramente non lo posso nascondere”.

Come per Sara, anche per lei l’ironia è “un’arma di sopravvivenza”?
“È la sua Excalibur. Parlando dei Beatles dice che Paul era bello e se la calava così. George era spirituale. Ringo Starr apparteneva a un’altra categoria, non pervenuta. Invece John Lennon faceva lo spiritoso e con quello combatteva. L’ironia e l’autoironia, per me e per Sara Mei, sono un’arma di sopravvivenza, nella vita e nella scrittura”.

“Quando si smette di ridere si smette di capire”: parole di Chiara Valerio nella recensione al suo libro.
“Anche nelle cose più drammatiche che ho scritto, come i monologhi di Ferite a morte contro il femminicidio, l’ironia è presente. È una lente per guardare la realtà che ti fa scorgere aspetti che le cose prese troppo sul serio non ti fanno comprendere. Prenditi in giro da sola, prima che lo facciano gli altri, e già parti da un punto di forza non indifferente”.

Sara è attratta dal Piper, dalle minigonne e dal simbolo di emancipazione rappresentato allora da Barbarella, eppure di chiede: si può essere sexy senza rinunciare all’impegno?
“È buffa questa cosa di Barbarella perché nel film era un’eroina intergalattica super sexy, eppure l’attrice che la interpretava, Jane Fonda, era una delle voci più forti nelle manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Ancora oggi, alla veneranda età di 87 anni, continua instancabilmente a parlare, protestare e a sollevare questioni cruciali sul nostro mondo malato. Lei dimostra che si può fare: si può essere come ci pare, profonde quando serve, leggere se ci va, senza dover sottostare a indicazioni — spesso maschili — su come sia ‘giusto’ comportarsi”.

Al cineforum Sara vede anche Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene.
“È un’opera che in un primo momento sfugge alla sua comprensione, le appare un universo assurdo e lo descrive con sarcasmo. Eppure non smette di farsi coinvolgere. Anche se all’inizio le sembra di non capire, poi qualcosa arriva: il senso di libertà, la possibilità di rompere gli schemi. Attraverso quella pellicola, così caotica e piena di messaggi contraddittori, coglie l’essenza della zia siciliana che aveva saputo ribellarsi alle regole”.

Nel libro abbondano i riferimenti letterari: dalla mitologia greca e latina fino a Siddharta e Cent’anni di solitudine. “A questo servono i libri: a darsi coraggio”, scrive.
“I libri, insieme alla musica e ai film, sono stati le mie stelle comete, le mie guide. Il rapporto con la lettura è un momento intimo, di confronto con sé stessi, in cui ci si mette a nudo per entrare in altri mondi che ti aiutano a capire chi sei. E continuano a farlo, sempre”.

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Anche la musica dei Beatles è onnipresente, ma non solo. Quali brani l’hanno accompagnata durante la scrittura?
“Ho riascoltato quella musica per immergermi nell’atmosfera giusta. C’è poi Caterina Caselli, che è stata una vera ragazza Beat e una grande icona che ha dovuto infrangere un sacco di regole per affermarsi. E ancora l’immenso David Bowie. C’era un fermento incredibile in quegli anni che ha dato vita a dischi straordinari come Sgt. Pepper’s e il White Album. Non è nostalgia, ma un viaggio sonoro necessario per ricreare quell’epoca”.

Oggi cosa le piace ascoltare?
“Sono onnivora, come nei libri. Passo dai saggi ai romanzi e con la musica faccio lo stesso. Ultimamente ascolto Lucio Corsi, ma anche gli Eurythmics. Non mi pongo limiti”.

La protagonista ha un rapporto conflittuale con i genitori. Da un lato la madre, inizialmente giudicata per la sua arrendevolezza, ma poi riscoperta e compresa; dall’altro, la figura patriarcale del padre. È ancora attuale questa dinamica?
“Molto. Nel libro la protagonista chiama il padre ‘il patriarca’, e quando l’ho scritto non c’erano ancora state le dichiarazioni del ministro Valditara, per cui il patriarcato è figlio di una visione ideologica. Non lo è affatto. Fino al 1975, con la riforma del diritto di famiglia, il padre stabiliva ogni aspetto della vita familiare. Poteva decidere di costringere la moglie a fare l’amore contro voglia, le apriva la corrispondenza. Se la donna voleva lavorare, ci voleva il permesso del marito. Queste sono le nostre radici. Quindi benvenuta la legge nel ‘75, ma purtroppo la mentalità ha bisogno di molto più tempo per evolversi”.

Non è un caso che dopo l’elezione di Donald Trump nel 2016 e nel 2024, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood abbia visto un’impennata nelle vendite. Come lo commenta?
“Dobbiamo stare molto attenti. Soffermarsi sulla fine degli anni Sessanta aiuta a capire chi eravamo, chi siamo oggi, ma anche chi non vogliamo tornare ad essere. Perché i diritti, quando ce li hai, per uno strano effetto ottico non li vedi. Ma quando li perdi, te ne accorgi. Per questo è fondamentale che le nuove generazioni li difendano con le unghie e con i denti”.

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Vede dei rischi concreti di regressione?
“Sì, sia a livello globale che nel nostro Paese. Pensiamo alla legge sull’interruzione di gravidanza: una grande conquista, ma mal applicata. Negli anni ’90 c’erano più consultori di quanti ce ne siano oggi, e in alcune regioni è difficile accedere a questo diritto con tranquillità. Bisogna restare vigili. E in America la situazione è ancora più preoccupante”.

In questo contesto la satira ha ancora spazio o prevale l’autocensura?
“Quello dell’autocensura è un fenomeno sempre esistito: chi deve lavorare cerca di non esporsi troppo. Ma per fortuna internet e i social offrono spazi di libertà. Certo, sono anche un terreno in cui circolano un sacco di stupidaggini, ma consentono di fare satira senza filtri e con una vitalità che altrove fatica ad esprimersi. Bisogna sempre saper cogliere il buono di ogni epoca”.

Scovare talenti è una delle cose che la rende più orgogliosa, ha dichiarato. Ci sono artisti che avrebbe voluto scoprire?
“Ho avuto il privilegio di lavorare con tantissimi talenti, quindi non saprei dire. Ma continuo ad amare la scoperta. Quando hai ricevuto tanto dalla vita, dare luce è secondo me una delle cose più belle che ti possa capitare”.

Come giudica la televisione di oggi?
“A parte eccezioni come Splendida Cornice di Geppi Cucciari, che adoro, la tv generalista è un po’ ripiegata su sé stessa, un usato sicuro, a volte neanche tanto sicuro. Manca il guizzo, la voglia di sperimentare. La trovo ripetitiva”.

Il romanzo si chiude nel solco della strage di Piazza Fontana. Ogni generazione ha i suoi traumi: per la mia l’11 settembre, per i giovani di oggi la pandemia. Come si supera il buio?
“Non c’è un metodo comprovato, altrimenti saremmo qui a fare i guru”.

Che continuano ad andare di moda, tra l’altro.
“Ma io resto fedele al mio santone di riferimento Quelo (il personaggio creato da Corrado Guzzanti, ndr) che diceva: ‘La risposta è dentro di te, ma purtroppo è sbagliata’. A differenza sua, non ho grandi verità, ma una cosa la so: si esce dal buio insieme. Il ‘noi’ resta ancora la chiave, oggi più che mai”.

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