“Quello che mi propongo di fare scrivendo di una serie di cui si è tanto parlato, non è aggiungere al coro delle recensioni la mia…”. Su ilLibraio.it l’intervento di Giusi Marchetta, insegnante e autrice, che riflette sulla miniserie Netflix “Adolescence”, con l’intento di “offrire una panoramica dei modi in cui è stata recepita, perché questa babele di voci e di letture di un fenomeno televisivo (e non solo) è particolarmente utile per fare una riflessione sulle paure che attraversano la società e sui modi che ci inventiamo per ignorarle finché non ci vengono addosso armate di coltello…”. Dal racconto che “Adolescence” fa della scuola al background di Jamie, l’adolescente protagonista, bianco e appartenente alla working class (“tutti gli studi sul fenomeno incel riportano percentuali schiaccianti di ragazzi bianchi…”), fino alla mancanza di spazio per le ragazze e per il loro sguardo sulla storia…

Io non ho fatto niente”.

Così dice Jamie, protagonista della miniserie Netflix Adolescence, ultimo grande successo della piattaforma. Lo dice e lo ripete ai poliziotti che lo interrogano, a suo padre Eddie che glielo chiede seriamente (“guardami negli occhi; voglio che tu mi dica la verità”), alla psicologa che deve scrivere una perizia per la difesa. E con quel faccino che non dimostra tredici anni, gli occhi arrossati dal pianto, l’espressione di terrore ancora impresso in volto dal momento dell’arresto, chi non gli crederebbe?

Il fatto è che Katie, sua coetanea e compagna di scuola, è stata uccisa e che il punto della serie non è nella ricerca dell’assassino. L’assassino, infatti, lo abbiamo davanti: ha tredici anni, la faccia d’angelo e dice di non aver fatto niente.

serie tv adolescence

Quello che mi propongo di fare scrivendo di una serie di cui per giorni si è tanto parlato ovunque sui giornali e sui social, non è aggiungere al coro delle recensioni la mia. Di alcuni aspetti riusciti o meno di Adolescence infatti, si è discusso tanto e in modo molto più competente di quanto potrei fare io.

Sappiamo tutto del piano sequenza che in quattro episodi racconta quattro sguardi sulla vicenda: lo sconcerto dei detective, la tenacia della psicologa, il fallimento della scuola, la disperazione dei genitori. Sappiamo che non si tratta di un thriller giocato sui colpi di scena e che i ritmi lenti delle puntate alimentano in chi guarda un senso di oppressione che non va via facilmente. Su tutto questo, sugli aspetti tecnici, sulla recitazione, sulla sceneggiatura, troviamo prospettive e opinioni discordi e interessanti dappertutto. Quello che mi interessa è offrire una panoramica dei modi in cui è stata recepita la serie, perché questa babele di voci e di letture di un fenomeno televisivo (e non solo) mi sembra particolarmente utile per fare una riflessione sulle paure che attraversano la società contemporanea e sui modi che ci inventiamo per ignorarle finché non ci vengono addosso armate di coltello.

Cominciamo con la più ovvia: la rete. Nella serie l’esistenza online di Jamie è quasi ignota ai genitori: come ogni adolescente maschio è il target di contenuti che lo spingono a sentirsi brutto e destinato a essere solo perché altri adolescenti e altri uomini lo hanno convinto che nessuna ragazza vorrà mai uscire con lui. Il nome di Andrew Tate viene pronunciato di sfuggita da una sua insegnante, ma questo fenomeno, la cosiddetta manosfera, è molto più ampio e fa leva su un immaginario sessista in cui vige una stretta gerarchia tra maschi alpha e altri di serie B, accomunati da una serie di comportamenti che li squalificherebbero come offrire la propria amicizia a una donna senza ottenere in cambio nessun favore di tipo sessuale.

“Tuo padre ha delle amiche?”, chiede la psicologa al ragazzo. E intende: tuo padre vede le donne come persone e non solo come oggetti da possedere o da proteggere? È interessante, quindi, che l’esplorazione del mondo di Jamie non sia condotta su quello che vede in rete ma sui modelli maschili in famiglia, padre e nonno. Se la preoccupazione dei genitori che hanno visto la serie è quella che i figli si radicalizzino online (e il tema è serio e degno di studio), questo non esonera nessuno dall’essere partecipe di un sistema patriarcale che, in modo a volte implicito o inconsapevole, da un lato ferisce i ragazzi perché non rispondono a quel modello di virilità tradizionale (che tace il dolore, che si comporta in modo predatorio con le donne, che sarebbe competente e feroce in guerra) e dall’altro avalla l’idea che i futuri uomini dovrebbero sempre prendersi quello che gli spetta.

La mentalità patriarcale è nata prima dei podcast che speculano sull’esistenza e la proliferazione degli incel (celibi involontari), ma questa sottocultura trova un terreno fertile proprio perché persiste quella mentalità negli USA e in Inghilterra come in Italia.

Account e canali YouTube che condividono gli stessi contenuti sono diffusi anche da noi e i modi per essere fruitori anche solo passivi di questo materiale sono infiniti, basti pensare alle chat di Telegram a cui uomini e ragazzi si iscrivono per scambiarsi meme razzisti e foto pornografiche. E se l’interesse per il sesso e la pornografia rientrano in una naturale curiosità adolescenziale, il fatto che la risposta a questo bisogno sia demandata a qualcuno che associa immagini di donne a fantasie violente o degradanti deve farci riflettere su quanto nel nostro paese la sessuofobia di una parte della società impedisca una vera educazione all’affettività nelle nostre scuole, cosa che pagano in primis le ragazze e le persone che non si allineano all’idea di virilità del cosiddetto movimento per i diritti degli uomini. Se uno degli autori della serie ipotizza che sarebbe bene togliere i cellulari agli adolescenti, direi che invece con questa prima paura ogni genitore ci si dovrebbe confrontare da vicino informandosi certo su cosa dice l’Andrew Tate che parla al proprio figlio, ma interrogandosi sul perché quella voce alle proprie orecchie suoni tanto familiare.

La paura di essere genitori non in grado di proteggere i propri figli mi sembra comunque la reazione più diffusa rispetto a una serie che riesce a innestare bene il dubbio che il mondo adolescente abbia delle zone d’ombra quasi irraggiungibili. Meno comprensibile mi appare la sicurezza con cui alcuni commenti hanno ribadito che si tratta di una generalizzazione allarmista e che tutto quello che riguarda i figli dipende dal rapporto che si ha con loro.

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Da docente penso che questa posizione non dia abbastanza spazio alla possibilità che il mondo degli adolescenti preveda uno slittamento delle figure di riferimento e che tenere qualcosa per noi al momento della crescita senza condividerlo con genitori e tutori è forse anche un modo utile per uscire dal loro controllo e cominciare a sentirci padroni di noi stessi. Allo stesso tempo, sentimenti come la vergogna, la paura del presente (oltre che quella del futuro), la rabbia, la frustrazione, l’insoddisfazione per la propria condizione e l’invidia per quella altrui, sono connaturate all’età e statisticamente la violenza che ne scaturisce trova due canali: le persone socializzate come maschi la rivolgono all’esterno, mentre è più facile che le altre si facciano del male. Le zone d’ombra sono molte e sono tutte difficilmente gestibili. Se aiuta sempre i figli trovare nei genitori comprensione e supporto, non è altrettanto vero che la loro voce possa attraversare le porte chiuse delle stanze o che parli la loro stessa lingua.

Che scuola ci mostra Adolescence, e cosa manca alla serie del momento

Altra nota dolente della serie è la scuola: nel secondo episodio ci vengono mostrati docenti frustrati e incapaci di gestire classi di bulli sconnessi dal mondo adulto e privi di empatia. Così da un lato sono pronti a far girare foto in cui le compagne sono nude, dall’altro bersagliano di like i post che prendono in giro i ragazzi come Jamie, condividendo in massa la stessa mentalità predatoria e maschilista.

In rete molti docenti hanno sottolineato che le scuole italiane non sono come quelle inglesi, e in generale quelle di stampo anglosassone, la cui crisi è da tempo discussa anche in relazione al ruolo degli insegnanti sottopagati e maltrattati dalle istituzioni prima di tutto. (e in questa cornice lo smantellamento del Dipartimento dell’istruzione da parte del presidente degli USA non fa che evidenziare quanto sia centrale il diritto all’istruzione e quanto la mancanza di considerazione e fondi per il pubblico non sia questione di trascuratezza ma abbia una precisa intenzione politica).

Mi piacerebbe concordare e sostenere una diversità di fondo per le nostre scuole, ma non mi sembra che una maggiore (apparente) disciplina nelle aule corrisponda necessariamente a una scuola senza problemi. Soprattutto negli ultimi anni, infatti, la mia sensazione è che la lezione contenga sempre un’altra lezione fatta dal modo in cui recepiscono quello che diciamo o leggiamo dando un altro significato ad argomenti che noi docenti crediamo di conoscere a memoria, dalle conversazioni sulle chat in cui si scambiano gli sticker degli insegnanti, dall’apatia con cui a volte si rapportano a un percorso di cui poco capiscono il senso generale.

Il mondo è da un’altra parte e troppo spesso sembriamo non incrociarlo davvero. La nostra idea di attualità non è la loro, la lingua per raccontarla nemmeno: la nostra è quella giusta, o almeno così pensiamo perché se non la usano siamo noi a correggerli. La loro resta incomprensibile, buona per essere ridicolizzata o ignorata. Questo sia nei casi più importanti (la richiesta di chiamarli col nome o il pronome che scelgono rimane in molti casi affidata alla sensibilità del docente e le ultime circolari del ministero vanno in direzione opposta al riconoscimento delle soggettività non binarie) sia in quelli relativi a uno slang che fa molta strada per arrivare a noi.

Ho letto alcuni commenti sconcertati sul fatto che la generazione più giovane di redpillati (gli incel complottisti) usa la definizione, ma non ne conosce la provenienza perché non ha mai visto Matrix e non sa niente della pillola rossa che il protagonista deve assumere se vuole vedere la verità. Di meno però ci soffermiamo sulle espressioni che nascono oggi in un angolo della rete e diventano mainstream se non forse quando nei temi Petrarca viene definito un simp o dopo un bel voto qualcuno dichiara di aver cucinato.

E invece, dietro le parole, come dietro i silenzi, si muovono concetti, significati, interpretazioni della realtà, convinzioni che si sedimentano e crescono senza contraddittorio. Ancora più importante mi sembra quindi che la scuola non venga concepita come un luogo di un sapere trasmissivo che viene costantemente risignificato, ma un’occasione di confronto tra culture in cui le discipline servono per offrire strumenti di lettura della propria storia. L’esatto contrario di quanto prescrivano le nuove Indicazioni nazionali che danno forma a una scuola di discipline e di disciplina e in cui le povertà educative sono trattate come un nemico da temere e da tenere a bada a colpi di voti e di condotta.

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Tra le opinioni espresse sulla serie, soprattutto all’estero, due ultimi aspetti emergono, che mi sembra interessante segnalare e che riguardano il background di Jamie. In primo luogo la bianchezza: la lenta e accurata trafila di procedure per arrestarlo, il trattamento in carcere, il riconoscimento dei suoi diritti di minore, tutto ci dice che Jamie è bianco e che non andrà incontro a un pregiudizio razzista che lo vuole necessariamente colpevole, né al pericolo di violenze razziste nel centro psichiatrico di detenzione in cui lo hanno rinchiuso. Gli stessi dubbi sulla sua colpevolezza sono frutto del suo privilegio bianco.

Al tempo stesso, per raccontare questa storia, Jamie non poteva che essere bianco: tutti gli studi sul fenomeno incel riportano percentuali schiaccianti di ragazzi bianchi che più facilmente cadono nella rete della vittimizzazione e del senso di insoddisfazione legato all’idea che non stiano ricevendo dalla vita quello che dovrebbero avere. Molti si sentono più capaci e intelligenti dei coetanei che hanno successo negli sport e che vedono più attrattivi nei confronti dell’altro sesso. La mancanza di successo con le ragazze, un successo che “dovrebbe spettare” al geek (un’evoluzione cool del nerd) o al nice guy (il ragazzo percepito come sfigato ma gentile), si traduce in violenza in primo luogo nei confronti delle donne che non capiscono il loro valore e dimostrano rifiutandoli una superiorità inaccettabile.

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Questo complesso di valori distorti è paradossalmente innestato in una dimensione di privilegio che pertiene soprattutto ai bianchi, alla rabbia di chi non si sente riconosciuto nel ruolo che pensa di dover ricoprire. Più interessante è l’appartenenza del personaggio di Jamie alla working class che emerge soprattutto dal dialogo con la psicologa che il ragazzo definisce posh, borghese. Il padre del ragazzo fa un lavoro manuale, sta molto fuori casa e nonostante riesca a mantenere la famiglia non ha abbastanza soldi per riverniciare il suo furgone quando viene vandalizzato. Anche lui prova lo stesso senso di frustrazione del figlio: affrontare la vita con le sue difficoltà è una sfida diversa quando i soldi ci possono schermare dagli aspetti più umilianti e dolorosi di una tragedia. Il fatto che la manosfera abbia gioco più facile con i ragazzi di contesti meno abbienti è molto interessante perché ribadisce che il formarsi della nostra mentalità viaggia di pari passo con i desideri di una società consumistica e tutto quello che non abbiamo assume un significato centrale nelle nostre vite e ci rende più vulnerabili agli schemi di interpretazione della realtà.

Questo non significa che le classi sociali più abbienti non siano interessate dal fenomeno: solo, la ricchezza garantisce loro almeno in parte il successo che di solito gli incel (come i ragazzi con svantaggio socioeconomico) sentono precluso. Contro questo senso di abbandono e sconfitta può solo un forte supporto affettivo e psicologico, un’educazione che impedisca che anche le persone vengano pensate come oggetti. E opportunità ovviamente. Non solo di emergere e trovare quel successo che si desidera, ma anche di ripensare il concetto stesso di successo se ci lega sempre a una logica di competizione e prevaricazione. Sarebbe bello, tanto per cominciare, che sulla strada di ogni Jamie ci fosse almeno un esempio maschile di gentilezza, rispetto ed emancipazione che non educa soltanto ma incoraggia e libera dall’ansia di non essere adeguati, dall’odio e dalla paura di essere giudicati.

Ma chi è che ferisce, limita e opprime i ragazzi maschi di oggi che soffrono in silenzio nelle loro stanze? Studi e dati alla mano, verrebbe da dire che i colpevoli sono patriarcato e capitalismo; un paio di notti su qualunque community o canale YouTube dedicato alla discriminazione dei maschi e non avremo dubbi: è colpa delle donne.

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Colpa di Katie, quindi. Lei che è stata vista nuda da tutti i compagni di scuola per una brutta storia di cyberbullismo, e che quindi doveva accettare la corte di un bravo ragazzo come Jamie. Lei che l’ha chiamato pubblicamente incel trascinandolo in basso con lei in questa feroce piramide sociale. Lei che è stata punita.

Katie non ha spazio nella serie: è solo un nome e un dolore per la sua migliore amica. Diverse recensioni hanno giustamente segnalato la gravità di questa assenza, dato il tema del femminicidio e anche a me lo show è sembrato un discorso di maschi ben intenzionati diretto ad altri maschi, i padri in particolare. Da un lato lo capisco e non mi dispiace che temi trattati finora in larga parte dal femminismo arrivino in altro modo e che lo sguardo sia incentrato sul protagonista e sul suo mondo; mi chiedo solo perché non si sia trovato nemmeno uno spazio per le ragazze e per il loro sguardo sulla storia, se non per quello di un’amica dolorante e arrabbiata.

L’effetto più duro da mandare giù di questa scelta di scrittura sono le voci in rete di chi ha considerato Katie quasi complice della sua uccisione, come se i due ragazzi fossero due facce della stessa adolescenza feroce e imprendibile.

Se è vero, infatti, che tutti gli aspetti che ho lungamente elencato in questo articolo sono per me cruciali per inquadrare il fenomeno alla base di questa storia, è altrettanto vero che al centro di tutto c’è una ragazza uccisa proprio da una mentalità che la vuole colpevole e che poi la legge colpevole. Liberarsi da questa mentalità è fondamentale ed è un lavoro personale, collettivo e urgente. Ce lo ricorderà penso bene il coro dei ragazzi della scuola di Jamie che, alla fine del secondo episodio, durante una ripresa dall’alto che li vede riversarsi nel cortile, cantano della loro fragilità, ma si zittiscono e lasciano sola la voce di Katie quando la telecamera dall’alto raggiunge il padre di Jamie, affranto, sul luogo in cui suo figlio le ha tolto la vita.

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