“Storia di mia vita” è l’esordio letterario di Janek Gorczyca. L’autore polacco vive a Roma da più di trent’anni e nella sua vita ha vissuto spesso per strada, in case occupate o in case di amici. Il suo racconto, nato nell’unica lingua possibile (quella ruvida della strada, di chi ha dovuto apprenderla per sopravvivere), è un pezzo del suo viaggio per ricordare il suo passato e le persone che ne hanno fatto parte…

Qui lo dico chiaro, non sono un eroe, ma la vita per strada è piena di sorprese. Alla fine arriva il giorno del giudizio.

Janek Gorczyca ha sessantadue anni, è arrivato in Italia trentadue anni fa, nel 1992. Si è lasciato alle spalle un matrimonio e un figlio in Polonia, perché si era ripromesso di non ritornare mai più a casa sua. Ha un lavoro, degli amici e delle storie da raccontare.

La sua lingua è ruvida, imperfetta ma è anche diretta, pulita, onesta. 

Storia di mia vita (Sellerio) è il flusso di coscienza che trascrive su carta, in stampatello, nell’italiano che ha imparato da quando abita a Roma.

Storia di mia vita copertina Janek Gorczyca

Gorczyca vive per strada e la strada la conosce.

Storia di mia vita è un atlante geografico delle vie di Roma, degli ospedali, dei marciapiedi fuori dai negozi, delle case occupate e di quelle degli amici. Ogni luogo ha la sua precisa collocazione, ogni spazio si raggiunge a piedi o con un passaggio, al massimo in ambulanza. La sua voce appunta i luoghi, li aggiorna con le parentesi e li attraversa.

Ogni edificio, però, è una prigione, gli ospedali tra tutti, quando costringono Janek a letto, per una terapia o per un’altra. O quando gli tengono Marta lontana per la sua malattia. Marta è la compagna di un quarto di secolo, la donna che condivide con Janek le piccole gioie, le difficoltà, la sofferenza e l’alcolismo. La storia della vita di Gorczyca è anche la storia della donna, la storia di chi se ne va e di chi resta.

Storia di mia vita è una delle tante dimensioni della realtà, è una faccia oscura, a volte violenta, con cui quasi sempre non si vuole fare i conti. Una comparsa ai margini della visione periferica, che è più semplice ignorare. La vita di Gorczyca è la vita di molti invisibili che però invisibili non sono. Sono fatti di pelle e di ossa, di sangue e di muscoli e camminano per le città, le percorrono, vivendole più delle case, rendendole case.

Il protagonista tiene insieme il mondo ordinandolo nello spazio, ma è nelle relazioni con gli altri che costruisce i suoi legami. Janek protegge e si prende cura delle persone che capitano nella sua vita, a costo di sacrificare se stesso. La violenza è una parte della storia, quella che riserva a se stesso, ai sentimenti che chiude sottochiave e che poi esplodono, e quella con cui si difende, con cui a volte offende.

Per se stesso non ha mai una parola pietosa, non commisera la sua sofferenza, né la usa per articolare la sua narrazione. Non si perde in spiegazioni, non risponde a tutte le domande, se non parlando di ciò che ha fatto e di ciò che non ha fatto.

È una scrittura di privazione la sua, che non si concede lettere inutili, né virgole, né a capo. Ma è anche una lingua potente, che in una singola parola riesce a descrivere un’emozione inconfessabile, un dolore profondo, una vergogna o una mancanza reale. A parlare sono le sue esperienze, la vita vera che a fatica, ogni giorno, cerca di mantenere in sesto. È in un certo modo, la strada stessa a parlare con la sua voce.

Storia di mia vita non è un diario, ma è un racconto, scritto nella lingua più giusta per dare senso al dolore, alla sofferenza, ma anche alla memoria della separazione, dalle case, dagli animali e dalle persone.

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