Leonardo Lidi continua il suo viaggio antirealistico, eppure credibilissimo e maieutico, nel teatro classico e contemporaneo di Tennessee Williams, con una potente versione di “La gatta sul tetto che scotta (scritto nel 1955) – La recensione

A distanza di qualche anno, attraversata con intensità, necessità ed estro la trilogia cechoviana (GabbianoVanya e Giardino), continua il viaggio antirealistico, eppure credibilissimo e maieutico, di Leonardo Lidi nel teatro classico e contemporaneo di Tennessee Williams.

In qualche modo erede americano del maestro russo, Williams spesso è stato ridotto e depotenziato da versioni filmiche invecchiate male e cristallizzate dall’immaginario agiografico delle star della Hollywood classica. Il regista/attore dà oggi vita a un’importante e potente versione di La gatta sul tetto che scotta (scritto nel 1955), produzione del Teatro Stabile di Torino debuttata a fine aprile al Carignano, dove sarà fino all’11 maggio, e sicuramente vedremo girare nello prossima stagione.

La gatta sul tetto che scotta nella foto di Luigi De Palma

La gatta sul tetto che scotta nella foto di Luigi De Palma

Se nello Zoo di vetro (testo del 1944, allestito al LAC nel 2019) Lidi travestiva da Pierrot il Tom (Tindaro Granata) imprigionato in una paradossalmente rosea casa di bambole, scossa alle fondamenta da movimenti tellurici interiori – il finale che letteralizza la metafora si riverbera a lungo nella memoria -, qui (scene e luci di Nicolas Bovey) seppellisce la carne inquieta e dolente dei suoi protagonisti in un luogo patibolare, prigione tombale e spazio sacrificale, rinchiudendo i personaggi, con un’eco del Romeo Castellucci di Bruxelles, fra pareti di marmo, senza vie di scampo, sepolcro imbiancato delle loro ipocrisie, altare di un rituale funesto e sterile, come in un circo incanutito, triste e spoglio.

Lidi lascia significativamente “aperto” un cielo nero come soffitto/abisso (Fly me to the moon risuona promessa e proiezione illusoria di un altrove da sogno musical, quando la realtà si rivela in tutta la durezza di un incubo distorto e lacerante), contraltare e aldilà di quel tetto che scotta, illuminato da un “sole atroce” (l’estate scorsa, verrebbe da dire citando il testo del 1958 che esordisce in questi stessi giorni al LAC e poi al Carcano, regia di Stefano Cordella, che opta anch’esso per una chiave interpretativa simbolico-onirica, come a suo modo l’incubo e il musical fanno irruzione violenta nella straordinaria versione inglese del Tram che si chiama desiderio firmata da Rebecca Frecknall). E questa luce dissezionante di un dio crudele riverbera in questo teatro (anatomico?) claustrofobico (“occupiamo la stessa gabbia”, e ancora: “qui nessuno esce” dice il testo della Gatta, tradotto con esattezza ed espressione da Monica Capuani, che ha dato nuova voce anche all’Improvvisamente ora in scena).

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Nell’inferno domestico senza porte, o a porte chiuse (sartrianamente, la dannazione sono gli altri), queste sono sostituite da uno specchio/varco, che duplica e rende labirintico lo spazio, nasconde gli ingressi in scena e inghiotte i personaggi nel nulla, riflettendo in frammenti il pubblico e il nero nella sala. Lo specchio è pietra di paragone ed eterno ritorno, pietra tombale e, borgesianamente, abominevole, e dunque scandalo, pietra d’inciampo, ché, come la copula (atto mancato/perduto/rimosso centrale in questa partitura), moltiplica gli uomini.

A terra si accumulano intanto, come stalagmiti, chiodi/cocci di un letto di tortura, le bottiglie morandianamente uguali e vuote, nature morte incolmabili, scolate da Brick mentre rifiuta di consumare con la moglie e si consuma il senso di colpa per il suicidio dell’amico Skipper (sfuggente a partire dal nome). Il fantasma erotico di questo, e di un’omosessualità vissuta/immaginata con ambivalenza e senso di colpa, si aggira per la scena (assenza/presenza nel corpo trasparente e denudato, fra corsa e soccorso, di Nicolò Tommasini) accompagnando e coadiuvando la sua dissipazione, e nutrendo di vuoto la sua sete di sensi e al tempo un anelito all’amnesia.

Divorato da questo cupio dissolvi, Brick, che è antifrasticamente “mattone” di una casa che sotto la facciata del ben-essere mostra crepe da ogni parte, deve fare i conti, come tutto il nucleo familiare, con “una cosa così nera è arrivata e si è insediata senza invito”, come ricorda il patriarca nell’hybris scatenato dalla falsa diagnosi negatoria, quel Big Daddy che incarna un patriarcato arricchito e impotente.

Il corpo azzoppato del figlio prediletto (ferita mefistofelica) è solo uno dei corpi offesi, malati e mostruosi (i bimbi senza collo fin de race, lo spasmo al colon e poi il tumore fatale paterno, l’obesità vorace della madre…) che abitano questo zoo morente e dannato. Non tardano a emergere le verità su questa gabbia, in una deliziosa tortura del non detto, non a caso anche attraverso la barzelletta greve e rivelatrice raccontata dal patriarca (verrebbe da dire: l’elefante nella stanza, o in un negozio di cristalli. Rotti). E il senso di una grottesca festa in maschera, violata, guastata e svelata nei suoi aspetti falsi, predatori e crudeli, dalla morte che assedia, è reso da Lidi con un vento che spazza via (tempesta di Oz archetipica su una casa del Sud degli Stati Uniti) i palloncini del party e un’uomo nero (il medico metaficizzato) che annuncia, il responso mortifero, sulle note distorte In other words. Il volo (pindarico?) musicale fa eco più volte all’esibizione canora della bimba che apre sul proscenio e attraversa la scena, spirito ludico e dispettoso, promessa mancata di un futuro, riflesso del gioco al massacro dei grandi.

Il finale testuale, quell’apparente spirito vitale della gatta che emerge con la forza sospetta di una bugia per tutti evidente e l’ipotesi di un ricongiungimento pro-creativo, allo scoccare del click della pace etilica del marito smarrito che, con il bicchiere finalmente mezzo pieno, nel gesto ennesimo di rifiuto del bacio, sceglie il cicutesco deglutire, spietata disillusione, attrazione del vuoto, verità amarissima che è guardarsi allo specchio.

Lidi, a partire dalle corde espressive di un cast capace di dare corpo alla complessità dei suoi fantasmi (su tutti svettano, per parte e performance, la gatta vibrante isterica resiliente Valentina Picello, Fausto Cabra in un Brick consumato e perso, e il Big Daddy, trasposto nel nordest produttivo e incolto nostrano da Nicola Pannelli), conserva la forza e riaccende tutta l’incandescenza del testo Williams, illuminandone la prospettiva abissale.

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LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA

di Tennessee Williams
traduzione Monica Capuani
regia Leonardo Lidi
con Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Claudio Tortorici
assistente regia Alba Maria Porto

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale

La gatta sul tetto che scotta viene presentato per gentile concessione de la University of the South, Sewanee, Tennesee.

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