Come perdersi ad agosto a Edimburgo in migliaia di spettacoli, e trovare lo show perfetto al Fringe? Alcuni suggerimenti per orientarsi al festival di arti performative più famoso al mondo (in cui la proposta è a dir poco ipertrofica), e l’incontro con due artisti giovani, geniali e intraprendenti, Agathe e Adrien del Québec, e con il loro spettacolo, “N.Ormes”, nel quale raccontano e reimmaginano i rapporti di genere con poesia, complessità, arte circense e ironia…

Famolo Fringe

Cosa fare a Edimburgo quando sei (dal) vivo

Di nicchia, marginale, frangia, orlo, ciuffo, estremo, radicale, bordo, periferico, minoritario…

Queste traduzioni provano ad afferrare l’area semantica della parola “fringe“. Dunque il Fringe Festival di Edimburgo, ormai in realtà un’istituzione da un buon quarto di secolo e un brand d’esportazione nel mondo intero, è la kermesse delle arti performative giovane e di proposta per eccellenza, vetrina del nuovo, del piccolo, dell’edgy.

Sì e no. La proposta è infatti ipertrofica, indominabile, oggettivamente dispersiva: su per giù 4000 spettacoli nel corso di meno di quattro settimane (molti in replica quotidiana) si fanno concorrenza nel centro di una città invasa di artisti e spettatori per quasi tutto il mese di agosto (la sua popopolazione raddoppia, per l’occasione).

Biglietti aerei alle stelle (trucco, se avete un po’ di tempo: volate da qualche altra parte in Inghilterra, chessó nella magnifica Manchester, e prendete un Flixbus).

Se uno si fermasse anche tutto il periodo della manifestazione, e viaggiasse alla media di tre spettacoli al giorno, vedrebbe solo il 2% del programma ufficiale (ma calcolate che ci sono una marea di eventi free e per strada, e – in periodo coincidente – va in scena anche un festival ufficiale ufficiale, l’Edinburgh International Festival, una kermesse del libro piuttosto importante – siamo sempre nella città di J.K. Rowling – con più di 500 eventi, e un dignitosissimo e nutrito Film Festival, con prime, premi e ospiti d’eccezione). Insomma, qualsiasi reportage o manuale per l’uso spettatoriale che non partisse dalla considerazione di queste dimensioni e della conseguente parzialità e soggettività dell’esperienza non sarebbe onesto né realistico.

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Inoltre il successo pluriennale dell’iniziativa, in crescita esponenziale, fa sì che qui ci sia davvero di tutto e di più: innovazione e tradizione, teatro amatoriale e professionista, punte di qualità e una certa dose di fuffa. E non è dunque per nulla facile discernere, a priori e a maggior ragione in corsa, il grano dal loglio.

Certo, si possono vedere anteprime e spettacoli altrove carissimi a prezzi accessibili (dove lo vedi, per esempio, Arturo Brachetti per 20 sterline?), conoscere e scoprire artisti nuovi, vedere anche 7 spettacoli in un solo giorno, o decidersi magari – via dalla pazza folla – per un museo o una passeggiata, una gita al mare o una degustazione di Scottish eggs (più difficili da trovare di quanto non si penserebbe in piena estate, che comunque da queste parti è fresca e ventosetta) in una giornata, per una volta, “theatre free”.

Allora come orientarsi da spettatore e come emergere da artista in questa orgia di teatro, musical, stand-up, circo, fra sperimentazione e vetrina, speakers’ corner e festa del palco, publicity e improvvisazione? Le venues sono davvero tantissime, e quasi ogni luogo della città (teatro, scuola, chiesa, pub e garage, piazza e retrobottega) diventa per l’occasione un palcoscenico.

Alcuni poli distributivi fanno la parte del leone (Assembly e Pleasance su tutte, The Space, ma anche Underbelly, con un’attenzione particolare al mondo circense, Summerhall, con taglio più sperimentale), altri offrono una programmazione più verticale (segnalo, per il teatro di prosa più di ricerca, il Cube gestito dal Grotowski Institute e il Traverse Theater, in assoluto la venue che ha l’offerta di teatro contemporaneo inglese mediamente fra le più interessanti).

Quindi per scegliere si può fare affidamento sul luogo, ma fino a un certo punto, ché ogni location è un dedalo di sale, salette, scale e porte che conducono in altrove più o meno di qualità, e dentro generi diversissimi. Soltanto le etichette di “genere” (altro criterio apparente di discernimento), facilmente rivedibili sul sito della kermesse (c’è naturalmente l’app), sono di per sé un elenco telefonico di Atlantide, e – mettiamo che vogliate vedere solo spettacoli di magia, solo esibizioni di mimo, solo new writing, solo pezzi in costume, stand up, esibizioni circensi, solo spettacoli di burattini o di manipolatori di bolle di sapone, show LGBTQ+ o monologhi, clownerie o messe in scena vietate ai minori… – beh potreste passare tranquillamente due settimane intere su qualsiasi micro-genere riusciate a concepire o scovare.

Fringe Festival di Edimburgo

C’è poi un tono complessivo, quello che potremmo chiamare uno “stile Fringe” e che potremmo riassumere un po’ grossolanamente nel “famolo strano“, un misto di controcultura molto ben codificata che ama mescolare i generi e affrontare gli argomenti del momento. Avremo allora un wrestling sulla mitologia nordica, un puppet show erotico, un mimo situazionista, un circo kitsch sado-maso colombiano, una ventriloqua stand-up comedian, un’acrobata concettuale palestinese, un burattinaio esistenzialista kafkiano, un’interazione autofiction a base di cipolle e cucina persiana… E vi giuro che nulla di tutto questo è inventato (ma per la maggior parte sperimentato in prima persona): ho visto cose che voi umani…

La ricerca del bizzarro non è immune, si è accennato, all’estremo conformismo dei temi: c’è infatti “un’ideologia Fringe“, o meglio dei filoni prevalenti, così che immergersi nel Fringe è un perfetto sismografo dei tempi e del discorso “gggiovane” prevalente, dell’alternativo dominante, financo stucchevole. E via un susseguirsi di gender issues, climate change, femminismi e cause minoritarie… Intendiamoci, tutto giusto e condivisibile, ma più che urgenze, certi topics pervasivi prendono la forma della moda e della pigrizia discorsiva.

Poi, naturalmente, vi è modo e modo di affrontare le questioni del momento, e alcuni riescono veramente a intercettare l’aria del tempo e a illuminarla, ma – per presentarsi all’insegna dell’alternativo e del minoritario – vi è spesso, in questa focalizzazione a volte ossessiva e ridondante, una preoccupante mancanza di fantasia travestita di anticonformismo.

Non racconterò qui delle numerose cose belle e interessanti e dei notevoli pacchi ricevuti, ché l’esperienza del Fringe è questo rollercoaster da vivere di alto e basso, geniale e patetico, guidati da fortuna, istinto, esperienza dei luoghi e degli artisti, passaparola buono e avariato, consigli disinteressati e assillo dolce dei volantini per le strade, titoli massimamente riconoscibili, scontati, sexy o semplicemente geniali (uno su tutti, che non ho visto ma merita il premio per la formulazione più folle: Tomatoes Tried to Kill Me but Banjos Saved My Life).

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Lo spettacolo più bello di tutti: N.Ormes

Voglio allora qui dire, quasi per paradosso, di uno e un solo spettacolo, fra le decine viste: N.Ormes, del duo quebecchese Agathe (Bisserier) e Adrien (Malette-Chénier).

Guardateli bene questi due. Sono fisicamente asimmetrici come una coppia comica, ma sulla scena fanno un corpo a corpo unico e stupefacente, in un gioco di equilibri ironico, poetico, erotico, che seduce e mette in discussione. Praticano l’hand-to-hand, quel misto di equilibrio, forza ed elevazione che due corpi, di solito una “base” e un “flyer”, esibiscono sulla pista in un crescendo circense di tricks. Ma hanno scoperto che il gioco dei ruoli può essere ribaltato e i rapporti (di forza e di potere) rimessi in gioco.

Se pensate che l’abilità equilibristica sia sol(tanto) forza e agilità ginnica, con un pizzico di rischio – quel tanto che basta per farti trattenerne il respiro ed emettere un sommesso sospiro o un plateale wow – non avete visto cosa possono fare due corpi giovani, ma già intrecciati da anni di allenamento, in sintonia felice e scherzosa, quali storie e ribaltamenti raccontano, facendosi pesi e contrappesi, negazioni e negoziazioni, quali corde emotive estese sanno toccare (dal comico al sentimentale, dal ludico al carnale), e quali voli armonici possano inventare e svelare infine.

Sudore (loro) e lacrime (nostre) traboccano in uno spettacolo disegnato con grazia, inventiva, commozione motoria, in un sofisticato disegno di luci e con una struttura drammaturgica (la capacità di far raccontare una storia ai loro corpi) degna dei migliori esempi di teatro-danza, in un’arte che prende dalla pista e dal palco, dalla recitazione e dalla danza, sconfinando in arte totale e personalissima.

Ho scoperto N.Ormes  per caso ad Avignone OFF (al Espace Roseau Teinturies), e poi rivisto quattro volte lo spettacolo al Fringe: un’ora intensa e potente, commuovente e geniale, che mi balla e respira ancora nella testa a distanza di mesi. Approdato per scommessa, non avevo letto nulla di loro (anche se poi scopro premiatissimi, e giustamente), è valsa davvero la pena seguirne queste loro N.ormes (norme, orme, forme).

Ho subito pensato: m’iscrivo al fan club di Agathe e Adrien. E se non c’è, lo fondo. Ho già una loro maglietta! (vendono quelle usurate dalla pratica quotidiana in un dopospettacolo generoso, attento, informale in cui accolgono il feedback degli spettatori).

La musica perfetta e tagliata sul numero di Simone Leoza e il disegno luci di Claire Seyller, studiato con grazia, esaltano l’espressività complessa che i due artisti mettono in scena, ricca di sfumature, dettagli, momenti rivelatori, e lo spettro delle situazioni che sono in grado di suggerire e proporre con la loro danza narrativa di equilibri va molto oltre alla padronanza tecnica.

E poi c’è il ruolo, ugualmente fondamentale, del disequilibrio, del momento di stanca, in cui la caduta interviene, il corpo morto, quando le cose sembrano non funzionare, i corpi (e lo sguardo dello spettatore con loro) reclamano e ottengono momenti di scacco e di riposo.

In uno spettacolo che respira e non teme il vuoto, l’assenza, il momento non puramente performativo ha pure spazio e luogo, perché l’intensità è determinata proprio dal sapiente alternarsi, dalle varianti, dalla suspense e dalla sorpresa, dal microgesto e dal guardarsi, che fanno di questa poesia della scena, del farsi carico (letteralmente) reciproco, un oggetto vivissimo, presente e unico, uno storytelling che racconta le asimmetrie di genere e i tentativi di ribaltarle, rivoluzionarle, reinventarle. E le imperfezioni che si incontrano nei propri limiti che danzano.

Così la più ricca delle produzioni spettacolari a cui ho assistito non ha un briciolo dell’intensità di questi due equilibristi che si librano in una lama di luce e che sanno farsi pieno carico del nostro sguardo.  La coppia d’artisti non a caso è stata selezionata per la 44esima edizione del Festival Mondial du Cirque de Demain, a Parigi dal 23 al 26 gennaio 2025. Vi consiglio vivamente di andare. Io sarò lì a fare il tifo per loro.

In alternativa, o per farvene una vaga idea, cercatene le loro tracce su Youtube. Anche se il vivo, garantisco, è anni luce meglio: chissà che non siano nuovamente a Edimburgo l’estate prossima… Sarebbe un buon motivo per andare/tornare al Fringe.

Il percorso di Agathe e Adrien: come fare circo d’autore oggi

Entusiasta senza riserve del loro numero, ho incontrato Agathe per un caffè e per sapere qualcosa di più sul loro percorso, che li ha portati a un numero che, secondo me, rivaleggia con la profondità poetica di una performance di Pina Bausch ed è ai livelli del miglior circo di creazione contemporaneo (penso per esempio a certi esiti dei franco-catalani Baro d’evel, artisti totali molto interessanti visti anche al Piccolo di Milano da pochissimo).

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L’intervista a Agathe (Bisserier)

Quanto tempo vi ci è voluto a mettere in piedi il vostro spettacolo N.Ormes?
“Sono stati necessari tre anni. È stato un lavoro a fasi alterne, naturalmente, perché volevamo essere noi a dirigerlo in prima persona, e quindi sapevamo che dovevamo essere in grado di acquisire una certa distanza. Così ci lavoravamo per due o tre mesi, poi ci fermavamo per sei mesi e poi tornavamo, guardavamo i video, e allora era evidente quello che funzionava e quello che non andava. Abbiamo avuto anche occhi esterni che ci hanno aiutato molto, soprattutto con la drammaturgia (Agathe Foucault) e la coreografia dei movimenti (Stacey Désilier). Abbiamo creato noi tutte le coreografie, ma è stato utile una consulenza, per perfezionarle, fare anche solo dei laboratori per trovare una qualità migliore del movimento, perché ogni dettaglio fosse sempre puntuale e giusto. Ci ha aiutato molto uno sguardo esterno, credo sia necessario soprattutto perché entrambi siamo in scena quasi tutto il tempo. Eravamo molto giovani quando abbiamo iniziato la creazione, avevamo 23 e 24 anni, non avevamo mai costruito un atto lungo. All’inizio eravamo solo noi, ma poi, a poco a poco, è stato molto bello sviluppare delle collaborazioni”.

Volevate da subito andare al Fringe?
“No, l’obiettivo inizialmente era quello di creare uno spettacolo originale, non quello di andare al Fringe di Edimburgo. Allora ci siamo chiesti: ‘Come facciamo a vendere uno spettacolo? Come possiamo fare tutte le cose necessarie per la produzione e la distribuzione di questo lavoro?’. Abbiamo imparato tutto poco a poco, e abbiamo fatto le valigie”.

E com’è andata?
“Abbiamo partecipato a Montreal a un grande festival di circo che si tiene a luglio, dove c’è anche uno spazio per il mercato internazionale, un momento di networking per programmatori, agenti e artisti. C’è anche una lunga sessione di pitch di fronte a 200 responsabili di programmazione. Tantissimi artisti, ciascuno ha solo cinque minuti, presentano il proprio progetto. Questo accadeva un anno prima che lo spettacolo fosse finito, avevamo costruito l’80% dell’atto. Sapevamo che nessuno ci conosceva, siamo un po’ timidi, ma volevamo essere così bravi da far sì che la gente venisse da noi, e non essere noi a pietire attenzione e cercare scritture giurando di avere un ottimo show”.

È andata bene…
“Tutti preparano sofisticate presentazioni in PowerPoint, noi abbiamo semplicemente descritto con parole semplici il nostro spettacolo e, mentre ci passavamo un microfono, con un effetto un po’ straniante che ha colpito l’uditorio, abbiamo dato loro un saggio del numero, con Adrien che finisce in piedi sulla mia testa. Avevamo preparato anche un ottimo trailer. Lì abbiamo incontrato Jody di Assembly (che gestisce una delle dei maggiori poli distributivi del Fringe) e lei si è interessata a N.ormes. Questo avveniva nel 2022. Abbiamo avuto un anno per ultimare lo spettacolo, e l’anno scorso, l’edizione del 2023 del Fringe, è stato un successo oltre ogni aspettativa a Edimburgo. Perciò siamo tornati quest’anno. E siamo stati anche, con grande riscontro, nella sezione OFF del festival di Avignone. Abbiamo vissuto un’esperienza molto bella, ed è una fortuna immensa essere circondati da altri artisti per un mese intero, e vedere altri spettacoli, ispirarsi ed esibirsi. Perciò siamo tornati. Anche se, ed è esperienza generale (ci sono più spettacoli, meno pubblico, la vita è più costosa), non è affatto scontato riempire la sala a ogni data. Ad Avignone abbiamo fatto 20 spettacoli in 23 giorni, e al Fringe 23 spettacoli in 26 giorni”.

Non tutti gli artisti, alla fine della loro esibizione, suggeriscono altri spettacoli che sono loro piaciuti. Voi lo fate con molta generosità ed entusiasmo. Sarebbe bello avvenisse più spesso, anche a teatro…
“Sì, penso che vedere altre cose e parlare di altri spettacoli non sminuisca mai ciò che si ottiene, anzi funzioni da moltiplicatore esponenziale. Del resto, ad Avignone e al Fringe, il passaparola è un elemento fondamentale, un punto di riferimento, perché è impossibile scegliere altrimenti: a Edimburgo ci sono quattromila spettacoli”.

E io vi ringrazio: grazie al vostro sguardo ho scoperto artisti e spettacoli notevoli, oltre al vostro. Parliamo un po’ del titolo dello spettacolo. Perché N.Ormes?
“Ci stavamo chiedendo come chiamare lo spettacolo e volevamo un titolo che fosse bilingue, perché sapevamo di volerlo portare in tour, qualcosa che funzionasse sia in francese che in inglese. Volevamo un titolo con una sola parola e con un gioco di parole. Così abbiamo ragionato, con la nostra compagnia, che ha prodotto lo spettacolo, ed è formata da noi due e da altre due persone e si chiama Acting for Climate Montreal, e crea spettacoli che parlano di questioni ambientali e sociali. Abbiamo un altro spettacolo, più centrato su questi temi, che si chiama Branching e si svolge sugli alberi (noi amiamo molto gli alberi). È una specie di acrobazia di gruppo. ‘Branching’ significa appendersi, ma anche connettersi. Ovviamente N.Ormes fa riferimento alle norme e a ciò che è normale, a ciò che è standard e da cui vogliamo uscire, ma al contempo ci definisce. Non possiamo far finta di esserne fuori, come se non parlassimo da un punto di vista privilegiato: siamo bianchi, siamo normodotati, abbiamo un fisico scolpito, non apparteniamo in alcun modo a minoranze, e siamo comunque influenzati da queste norme. Noi vogliamo espandere, ampliare queste norme, quindi abbiamo messo in maiuscolo le lettere N e O, quasi a indicare un rifiuto, stemperato dal punto nel mezzo. Qualcuno, sbagliando, ci legge anche ‘enorme’, ma non era l’intenzione. Spero resti solo un’eco ironica. Relativa alla nostra differenza di altezza, che è evidente”.

Quanto tempo quotidiano di esercizio vi ci vuole per questa ora in scena?
“Dipende davvero dalla fase in cui siamo. Se facciamo il numero, come a Edimburgo, una volta al giorno, ci basta un riscaldamento a margine, perché il corpo lo rifà in meno di 24 ore. Cerchiamo sempre di fare stretching e massaggi dopo lo spettacolo, perché l’atto è piuttosto pesante e il gran numero di ripetizioni che facciamo lo rende necessario. Ma se non dovessimo volare qui e tutto il resto, sarebbe necessaria un’ora di riscaldamento, di esercizi fisioterapici, di cura del corpo, di piccolo riscaldamento tecnico e poi grandi esercizi, e poi saremmo pronti. Quando siamo a Montreal e ci stiamo allenando, e non stiamo eseguendo lo spettacolo, dobbiamo continuare ad allenarci, imparare cose nuove: possono esserci due o tre ore al giorno, quattro o cinque giorni alla settimana. Poi c’è un sacco di lavoro amministrativo al computer, che dobbiamo fare ogni giorno. Abbiamo tre o quattro ore di lavoro al computer, perché ci stiamo autoproducendo. Ci sono un sacco di cose organizzative e burocratiche, abbiamo la nostra compagnia e facciamo tutto da soli, quindi, in realtà, ora l’allenamento e lo spettacolo sembrano quasi vacanze: questa è la parte divertente! Quando stiamo creando/concependo lo spettacolo potrebbe essere una settimana piena di tempo di creazione ogni giorno dalle nove alle cinque, con pausa pranzo”.

Come funziona il contesto canadese in cui vi siete formati?
“In Nord America un artista di circo, a scuola e per quello che poi fa la maggior parte delle persone per anni e anni, viene formato come interprete. Quindi hai solo un set di abilità, hai il tuo numero e sei in attesa di grandi contratti, di grandi compagnie che ti dicano: ‘Ho bisogno di te per due mesi qui, vuoi fare sei mesi qui, vuoi fare una creazione, un tour di due anni con questa cosa…’, e non ti devi occupare di nessuna delle cose amministrative. Sei solo lì per interpretare un ruolo che qualcun altro ha immaginato per te. Al massimo puoi avere più o meno una piccola parte nella creatività, ma non fai molto altro. Ti alleni molto, e basta. Così funziona il sistema, e non c’è l’intermittenza, come in Francia, perché non c’è una rete sociale dello spettacolo: devi lavorare tutto il tempo, quindi sei sempre impegnato a interpretare il lavoro creativo di altri. Noi non ci adattavamo a quello che la gente voleva come duo circense, perché non facevamo la cosa stereotipica sexy (tipo: io nuda e lui mi manipola, il classico canovaccio). Noi volevamo dire qualcos’altro, e fare un circo d’autore. Così abbiamo creato una compagnia nostra”.

Quali sono stati i primi passi?
“Abbiamo iniziato un po’ prima del Covid e poi è arrivata la pandemia, e ci siamo detti: ok, tanto vale usare questo tempo, come se lo facessimo solo per il gusto di farlo, ed è stata la chiave per cercare una nostra voce. La nuova generazione di Montreal ama questa sorta di seconda ondata di artisti che cercano di cambiare le cose e di proporre più cose, e non si limitano a interpretare per le compagnie più grandi. Al contempo non è facile esibirsi in Canada, anche se ci sono tanti artisti di circo a Montreal. Quasi nessuno si esibisce in Canada. Il Cirque du Soleil, Eloise, Seven Fingers, tutte le grandi compagnie si esibiscono per due settimane in Canada, e poi vanno in giro per il mondo. Quindi, come interprete, devi essere sempre pronto a vivere sradicato, e prendere molti aerei. E questo non era in linea con i nostri valori ambientali. Ecco perché, senza sapere quanto fosse grande il compito, abbiamo creato la nostra azienda e il nostro show, e ora stiamo producendo così tante cose, ed è davvero bello perché le cose stanno cambiando. E il sistema canadese sta davvero assecondando questo cambiamento. Non siamo soli, e questo è fantastico, ma è ancora come se a volte si nuotasse controcorrente”.

Quindi avete deciso di lavorare a una drammaturgia, mettendo nel numero una vera e propria narrazione: come è avvenuto questo processo di raccontare una storia invece di fare solo una sequenza magari in crescendo di tricks?
“Penso che sia nato dal desiderio molto profondo, che soprattutto io avevo, di passare dei messaggi e di avere un impatto sulle persone. Voglio davvero che i miei spettacoli siano, come si dice in francese, engagés, impegnati per qualcosa. Adrien inizialmente era meno di questa idea. Ma la dialettica fra noi due e le domanda che ci siamo posti lentamente hanno trovato  una sintesi. Ci interessava mettere in dubbio un modello di relazione fra i generi di stampo maschile e patriarcale, sperimentando e trovando nuovi rapporti possibili o immaginabili. Non volevamo, però, passare un’ora dello spettacolo a criticare qualcosa e a mostrare un sistema che non funziona, come la tossicità maschile, la mancanza di consenso, la manipolazione o le relazioni tossiche. Abbiamo pensato che fosse molto piatto, e che dopo un po’ tutti sarebbero stati d’accordo”.

E quindi per cosa avete optato?
“Ci siamo chiesti: come facciamo a mostrare che un altro mondo/modo delle relazioni è possibile? E così, tre anni sono serviti a trovare l’equilibrio tra la denuncia di qualcosa e l’annuncio di qualcosa di nuovo. All’inizio, l’80% dello spettacolo era una denuncia, perché avevamo bisogno che fosse così, ma dopo un po’ ci siamo detti: ‘Ok, abbiamo capito! Rendiamo il tutto più sottile, più raffinato, più stratificato’. All’inizio volevamo rappresentare il patriarcato, Adrien era il grande squalo e io la piccola vittima, ma poi ci siamo detti che anche guardando alla nostra relazione, lui è il ragazzo più tenero del mondo e ha i suoi problemi e tutto il resto come uomo, ma anche io posso essere molto più ‘uomo’ e posso avere un impatto molto più forte di lui. Quindi ci siamo detti che ci sono degli strati  e delle sfumature, e dei paradossi, in tutta questa discussione sulla tossicità, e volevamo portarli nello show. Così, lentamente, è stato davvero incredibile lavorare sul concetto della diversa mascolinità e femminilità che c’è in ciascuno di noi. E quindi, con l’idea che volevamo dare speranza, ci siamo chiesti: qual è il viaggio emotivo drammaturgico che chiediamo di fare al pubblico? Questa è sempre stata una domanda, tipo dove stiamo passando, e quindi cosa sono queste cose, e possiamo creare qualcosa che sia un po’ interessante e non solo una sequenza di fallimenti e successi”.

Agathe e Adrien nella foto di Thibault Carron

Agathe e Adrien nella foto di Thibault Carron

La cosa potente del vostro teatro è che questa dimensione impegnata (diciamo del “messaggio”) non risulta didascalica, ideologica, telefonata, ma fortemente aperta, organica al movimento, sottile, e forse per questo più potente e credibile…
“Abbiamo lavorato a lungo per trovare un equilibrio, perché credo di avere la tendenza a essere meno sottile, e Adrien ha la tendenza a essere troppo sottile, e quindi volevamo trovare il modo di avere questa ricchezza, e il punto giusto… Ed è divertente perché in Canada, in Nord America, in generale, il circo non ha mai ‘un messaggio’, che non sia al massimo: lavoriamo tutti insieme, teniamoci per mano, collaboriamo. Noi non volevamo fare solo intrattenimento, e quindi desideravamo che il pubblico corresse dei rischi e dicesse: ‘In realtà, voglio qualcosa che ci faccia un po’ rabbrividire, qualcosa che ci faccia sentire qualcosa, e non solo: wow, sono così forti! Wow, fanno le capriole!’.  Perché crediamo che il circo abbia un potere seduttivo incredibile – con i rischi che corriamo, i salti mortali, le spaccate e tutto quello che facciamo – e possa dunque aprire questa piccola porta incredibile dentro le persone, lo stupore. Una volta aperta questa porta, possiamo dire: ‘Pensiamo…’. Pensiamo, insomma, di usare questo momento per cambiare qualcosa di interessante attraverso le emozioni. Mentre un discorso politico o un’ottima recensione, o un articolo scientifico, contano ma sono principalmente intellettuali, quando possiamo passare questo messaggio attraverso il corpo e le emozioni, colpisce un’altra corda, che penso sia complementare”.

Fare hand-to-hand in questo modo significa in qualche modo reinventare una disciplina, riscriverla?
“Questo è ciò che abbiamo cercato per tre anni: cosa potevamo fare e quali movimenti potevano eseguire per raccontare ciò in maniera personale? La maggior parte dei movimenti che sapevamo fare non parlavano di nessuna delle cose che volevamo dire. Quindi abbiamo dovuto creare nuovi movimenti. Dei movimenti che poi potevamo in qualche modo scambiarci. E, giocando su questo rimpallo, volendo che questa ‘danza’ restasse leggera, abbiamo scoperto un sacco di significati che non ci aspettavamo in ogni scambio di ruoli. Trovare un nuovo movimento ci ha spesso ispirato a fare una scena, ma, viceversa, a volte partendo da una scena specifica ci siamo ispirati per creare movimenti diversi, unici e solo nostri.  Poi, anche con l’aiuto di consulenti, abbiamo lavorato sui tempi, sul ritmo per trovare la giusta armonia del tutto”.

Alcune scelte mi hanno ricordato molto la lezione, e l’ironia, del teatro danza di Pina Bausch…
“Non sono una persona che ha visto così tanti spettacoli e, pur avendo presente Bausch non credo vi sia un’influenza diretta e consapevole. Ma quello che mi piace vedere in scena è una certa vulnerabilità sul palco, vedere le persone in qualche modo spogliate, non so, sentire una presenza che è vera e che non cerca di rappresentare qualcosa che non è. Che riesce a mostrare qualcosa che ci fa tremare un po’ dentro. Gli artisti che mi piacciono sono persone che fanno qualcosa per cui sono uniche; trovo che gli spettacoli siano incredibili quando le persone fanno ciò in cui sono eccellenti, o anche terribili, ma qualcosa che è solo loro.
Una volta creato N.Ormes mi sono detta: ‘Ora mi piace davvero questo aspetto di me stessa’, ed è per questo che ora la gente vuole che lavori per loro, perché abbiamo scoperto che la nostra differenza è in realtà la nostra forza”.

Voi siete molto diversi fra voi, innanzitutto…
“Perché Adrien è così alto e io così bassa, sembra che lui sia un ragazzo molto grande e io una ragazza piccola, anche se lui è molto magro e io sono piuttosto robusta, e quando abbiamo scoperto che avevamo le stesse misure nelle circonferenze toraciche e di vita, ci siamo detti: ecco perché non sono come la minuscola e magra flyer che la gente si aspetta, e così ci siamo chiesti per cosa fossero fatti i nostri corpi. Perché Adrien, sapete, è più magro delle bases classiche, e io sono più pesante dei flyer canonici”.

Cosa definisce i ruoli in un duo dunque? È il genere? È il peso? È la personalità? E cosa succede quando ci si scambia le parti?
“Credo che il nostro percorso in questi tre anni sia anche quello che si vede nello spettacolo, ovvero che inizialmente siamo abbastanza normativi. Adrien era la mia base; io il flyer, e funzionava. Ma non era perfetto, come dire, non eravamo il duo incredibile con cui tutti volevano lavorare, e c’è voluto tanto lavoro per riuscire a fare cose basilari che altri coppie imparavano molto velocemente. Allora abbiamo scoperto che io potevo provare a portare lui. Quindi ci siamo detti: ‘Scambiamoci tutto’, ed è stato molto faticoso, perché in termini di proporzioni, comunque, non possiamo fare le stesse cose, quindi è stato un gioco di adattamento e invenzione molto divertente.  In questo modo si trova più fluidità. E alla fine della creazione, è stato allora che abbiamo trovato i movimenti che chiamiamo reciproci, quelli in cui ‘si galleggia’ e ci si scambia base e flyer tutto il tempo, senza soluzione di continuità, e si ha la sensazione di volare. Quel movimento è ispirato da un movimento di una compagnia di danza statunitense che si chiama Pilobolus. Un nostro amico, che ha lavorato con loro per molti anni, ci ha mostrato dei movimenti simili. Ci siamo detti: ‘Questo è il pezzo mancante’. Quindi, dobbiamo crearne di nostri in questa direzione: e tutti quelli che sono nello spettacolo sono elementi che abbiamo trovato pian piano. Non so se siano nuovi o altro, perché non credo che ci sia nulla di veramente nuovo, ma sono cose che non avevamo mai visto prima. Ci siamo chiesti: ‘Cosa possiamo fare con le nostre altezze e le nostre dimensioni? E come possiamo costruire forme nuove di relazione?’. E abbiamo scoperto che nello spettacolo c’è lo stesso viaggio che abbiamo fatto noi: esistiamo, ci rendiamo conto che c’è un problema, vogliamo risolverlo essendo uguali. Ma cos’è l’uguaglianza? Oh, l’uguaglianza è diversa, è fatta di differenze, e poi troviamo la fluidità, una danza insieme, e alla fine diciamo che in realtà non ci interessa forse l’uguaglianza, ma del viaggio insieme, e non di chi fa cosa in quale momento. E il fatto che ci siamo scambiati i ruoli è ciò che ci ha reso empatici e più sani nel rapporto con l’altro. Questo ha dato forma e senso alla nostra narrazione”.

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