I bambini ci guardano, direbbe Vittorio De Sica. E noi guardiamo il mondo, e la sua corruzione, attraverso i loro occhi, innocenti e senza cuore direbbe James Barrie. Nel film “The Florida Project” di Sean Baker questo sguardo neorealistico e insieme fantastico è posato su un’America iperrealistica, finta e verissima insieme… – La recensione

I bambini ci guardano, direbbe Vittorio De Sica. E noi guardiamo il mondo, e la sua corruzione, attraverso i loro occhi, innocenti e senza cuore direbbe James Barrie. In The Florida Project di Sean Baker questo sguardo neorealistico e insieme fantastico è posato su un’America iperrealistica, finta e verissima insieme, isola che purtroppo c’è di cartapesta e spazzatura, precarietà e pubblicità. Una mancanza sovrabbondante, mostrata senza moralismo ma anche senza remore, da un cinema diretto e vivo, fieramente indipendente.

Letteralmente ai margini del sogno disneyano, nel motel Magic Castle colori pastello, dominante lilla (che esiste per davvero, a pochi isolati dal celebre parco dei divertimenti), in bilico fra sopravvivenza e maquillage, vive una comunità atomizzata e persa, e qualche turista finito lì per errore. Un mondo falsamente roseo, che vive di essenze taroccate, cibo spazzatura, chiuso in una frustrazione rabbiosa. In residenze minuscole, soffocanti e instabili, affollate di merci scadenti e insulti riciclati, questi drop out conducono un’esistenza dissipata e super economica, rinnovata di settimana in settimana, sempre in bilico e trascinata in giornate vuote, tv costantemente accesa, vita infestata di insetti e abitata da una tossica promisquità, un’attitudine prostitutiva, priva completamente di padri. Fragili dimore per homeless mascherati, vista eliporto.

A pochi passi un altro residence, The Future, avamposto che suona come ironico orizzonte in questo finto mondo da favola, che ha pure una Seven Warfs Lane, ma che non ospita Biancaneve ma il white trash della periferia di Orlando ed è abitato, al posto dei nanetti, da piccole creature fuori controllo, un’infanzia specchio del mondo adulto, storie votate a una fine molto difficilmente lieta.

La gang di bimbi capeggiata da Moonee (la piccola rivelazione Brooklynn Prince, sei anni, non professionista, come la mamma finzionale, Brian Vinaite, quest’ultima scovata su Instagram) passa infatti le giornate estive a fare dispetti, mimando l’arte adulta di arrangiarsi e aggredirsi fra poveri, fra provocazioni e moti di sabotaggio, espedienti, deviazioni e minime, effimere rivelazioni. E nel moto perpetuo anarchico di queste mini pesti, abbandonate da madri troppo giovani e senza strumenti (a loro volta abbandonate e ridotte a strumenti), appare sintomo vitale e segno di smarrimento insieme, l’unica speranza di avventura (cambiamento?) e insieme il segnale inequivocabile di una sconfitta, di una dead end.

A poco vale un guardiano angelico (che ha il volto post-wendersiano di Willem Dafoe) che prova a riparare, proteggere e mediare, a rammendare il possibile in un tessuto sociale ormai fatto a brandelli.

Come se questi terreni paludosi e pirateschi, infestati di coccodrilli più o meno metaforici, e di conseguenza chi li abita, fossero condannati inesorabilmente a corruzione e immobilismo, e il Regno dei Cieli (la bellezza di quella natura che pure a tratti manifesta la sua paradisiaca possenza in mezzo a un universo invaso da una mercificazione anabolizzata, bigger than life) fosse uno spazio tanto spettacolare e splendente quanto distante e intangibile, solo intuibile in alcuni momenti. Pensate a quei cieli che pure si stagliano, segnati dal fumo di un incendio doloso, attraversati dal lampo di sole negli occhi, dipinti dalla sorpresa magica ed effimera di un arcobaleno, scoppiettanti di fuochi d’artificio di una festa dalla quale si è fatalmente esclusi, rigenerati da una pioggia che pare per un istante innaffiare e redimere.

Ecco che le lacrime, che battezzano un finale aperto e straziante, velando lo sguardo della bambina protagonista sulla soglia dell’abbandono, e la sua fuga insensata con l’amichetta verso la terra promessa dei cartoni animati, seguiti da una macchina da presa finalmente sganciata dalla staticità di questi quadri hopperiani ridisegnati da un Warhol disperato, ci consegnano una prospettiva terminale del sogno americano, incarnato da questi motel convertiti a case popolari (il project del titolo si riferisce a questo tipo di edilizia, ma è anche il nome in codice dell’utopia urbana di Disney, secondo lo slogan, “the Happiest Place on Earth”). Il castello incantato della fantasia rimane sullo sfondo, come il marchio di fabbrica di una paralisi onirica e illusoria in cui l’America pare aver definitivamente barattato il suo progetto più nobile per una mera proiezione.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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