Le buone intenzioni che muovono The Post di Steven Spielberg e un messaggio valido e condivisibile non bastano a fare un buon film – La recensione

Esercizio retorico nobile di sublime architettura e di grande efficacia, The Post di Steven Spielberg è un film al servizio di un’ottima causa, anzi due. La libertà di parola sancita dal Primo emendamento, principio come non mai attuale e decisamente a rischio nell’era Trump, è qui infatti declinata come potere di controllo di una stampa indipendente, fondamentale nel suo ruolo di watchdog della politica e di strumento di conoscenza/decisione per lettori/elettori, e insieme costituisce l’elemento preliminare ed essenziale di un percorso di emancipazione, in primis femminile, che passa anche attraverso la presa di parola e la conquista della possibilità di scelta.

Questo principio incarnato è raccontato ed esaltato attraverso una storia esemplare del secolo scorso: la vicenda del Washington Post e della decisione combattuta, determinata principalmente dal coraggio della proprietaria di quel giornale, di pubblicare, attraverso le rivelazione dei Pentagon Papers, le verità sul Vietnam che smascherano il discorso pubblico manipolatorio di Nixon e delle presidenze americane di quel decennio.

Prodromo ammonitore e antidoto necessario per il nostro presente, precursore e prequel del più noto caso Watergate (che chiude il film, citando l’inizio di Tutti gli uomini del presidente), questo episodio decisivo della storia Usa emerge attraverso il racconto epico delle azioni eroiche e avventurose di una libera stampa, al servizio dei governati e non dei governanti, della verità e non del potere, dei lettori e non di interessi di parte, e nel dispiegarsi garbato, elegante e fermo di una voce di donna, che con stile abissalmente differente dal mondo maschile che pare volerla ignorare, ostacolare e interdire, produce una scelta coraggiosa e virtuosa, capace di scoperchiare un processo decisionale viziato, mendace e meschino, meccanismo di difesa e giustificazione di un potere per soli uomini.

Ma le buone intenzioni che muovono la pellicola e un messaggio valido e condivisibile non bastano a fare un buon film, anzi talvolta rischiano persino di rovinarlo, riducendolo a un raccontino a tesi, relegando l’autore a ruolo di postino o predicatore (mero portatore di messaggio: pensate solo a certo cinema di Ken Loach).

Steven Spielberg invece costruisce da par suo uno storytelling perfettamente congeniato che ti aggancia dall’inizio alla fine con grandissima sapienza narrativa e pathos penetrante, sfrutta al massimo una (scuola di) recitazione eccellente fatta di misura e maestria, con un cast perfetto di caratteri che ruota intorno alla coppia istrionica Streep/Hanks (lei centro assoluto, lui spalla da encomio: obbligo di visione in lingua originale), e mette ogni cosa al suo posto, dalle luci alla musica, dalle inquadrature al ritmo, con una regia magistrale capace di legare il tutto, e insieme (proprio perciò) sempre un passo indietro, secondo un tocco invisibile, che rappresenta una perfetta versione aggiornata dell’eleganza del cinema hollywoodiano (il regista americano pare non sbagliare un colpo, con una costanza e una coerenza autoriale che ne fanno una voce unica e inconfondibile, e al contempo il vertice e la quintessenza di un cinema-spettacolo memore di una classicità oggi quasi smarrita).

Ne risulta un film d’impegno e di entertainment, di grande attualità eppure portatore di uno stile quasi fuori moda, e attraversato da una nostalgia viva, fortissima e contagiosa, per una modalità concreta, per quanto idealizzata e idealistica, di fare giornalismo (e di fare cinema?), un’attenzione amorevole per il dato tangibile delle vicende che racconta e illumina. Questo fa sì che la retorica spielberghiana non sia mai disgiunta un’etica (il dire è sempre un fare, e viceversa), passando per la capacità strabiliante di caricare di senso e valore proprio le cose:  gli ambienti ricostruiti con cura (dalle redazioni alle rotative, dalle ville alle giungle), le maschere della narrazione (i volti, i vestiti, i caratteristi, i ruoli), gli oggetti (dai fucili alle macchine da scrivere, dai telefoni alle palloni, dagli occhiali ai caratteri mobili, dalle fotocopie alle monetine), l’incredibile teoria di MacGuffin (scatole, buste, schedari, plichi, contenitori-significanti carichi di domande e di mistero che, secondo la lezione hitchcockiana, portano avanti la trama, magnetizzando le nostre attese e la nostra attenzione…). Come se la cronaca attenta e appassionata di un mondo perduto (di un’America che non c’è più o non c’è mai stata del tutto, come un’utopia da dover ogni volta ripercorrere con la visione) fosse l’unica possibilità di rinvenirne il suo senso e il lascito più vero. Proprio l’enfasi per la concretezza oggettuale delle cose (scusate il pleonasmo, ma l’enfasi prova a compensare la sparizione del mondo di un’epoca sempre più digitalizzata, smaterializzata e in cloud), per l’impronta tangibile (la prova, l’evidence) di una verità, ne ricordasse e sottolineasse il valore, in un frangente in cui questa verità, come mai prima, rischia di essere sempre e comunque post(iccia). Ecco, oltre alla testata di cui si racconta e di cui si ricostruisce la presenza e la forza simbolica,  l’orizzonte postumo e rivolto ai posteri al quale il titolo sembra alludere, e il film pare opporsi con voce fiera, affabulatrice e potente.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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