L’educazione sentimentale di un tifoso di calcio (in questo caso della Roma) è una cosa semplice, eppure sterminata. “La gioia fa parecchio rumore” di Sandro Bonvissuto racconta questa passione straripante: è la storia dei legami indissolubili, il tributo all’amore che può essere assoluto, allegro e disperato quando prende la forma del tifo

L’educazione sentimentale di un tifoso di calcio è una cosa semplice, eppure sterminata. Un’esperienza quotidiana, intima e irripetibile per ognuno quanto incredibilmente simile, comune a tutti. Fate una prova, pensate o meglio provate a raccontare ad alta voce la vostra storia di tifosi, se lo siete, o chiedetela a un amico o amica se avete scelto la via dell’agnosticismo (e forse vi siete persi irrimediabilmente qualcosa, ma pazienza). Si entra in uno spazio domestico e intenso, che trasfigura i gesti, i luoghi, le cose e gli affetti. Ed ecco che al centro non c’è più solo una squadra – ma può essere mai, la nostra squadra, solo una squadra? – ma un intreccio di ricordi, slanci, volti amici, insegnamenti e cadute. Una comunità. E la prima bandiera che abbiamo sventolato, il divano dove guardare le partite, i bar o la strada per lo stadio, e soprattutto le parole e le figure di chi ci ha aperto la strada a una passione così assurda e incontrovertibile diventano una costellazione di piccole memorie che disegnano, semplicemente, un’incarnazione dell’amore.

La gioia fa parecchio rumore di Sandro Bonvissuto, pubblicato da Einaudi, è questo. Una storia d’amore, la storia di una famiglia, il racconto in prima persona di un bambino che impara la grammatica dell’affetto senza misura legandosi alla squadra che, per la sua famiglia, è dogma, fede, fonte di infinita sofferenza e perenne allegria: l’A.S. Roma.

È difficile dire cosa sia sullo sfondo e cosa in primo piano, proprio perché l’amore trabocca e si riversa in ogni pagina, abbracciando ogni cosa. La Roma, nel romanzo, è tutto. È la creazione di un lessico famigliare, con un padre taciturno e “grande produttore di silenzi”, ma che riesce lo stesso a infettare il figlio con la sua passione “per via delle spiccate capacità di contagio che ha l’amore”, un nonno saggia autorità di fede romanista (‘a Roma bisogna amalla popo quanno perde, a ‘malla quanno vince sò bboni tutti), una mamma che è la vera comandante della casa “presero a chiamarla anche Eri Kissinger, Eri, non Henry, perché da noi Enrico si dice Erico”, uno Zio che non è davvero lo zio ma è come se lo fosse, legato al padre da un’amicizia che affonda le sue radici nella povertà delle borgate romane del dopoguerra “in pratica la loro parentela si era costituita per via del fatto che da ragazzini avevano cacato nello stesso posto. Erano fratelli di cesso“.

La gioia fa parecchio rumore Sandro Bonvissuto

Ma parlare dell’A.S. Roma significa anche raccontare in tono leggero e profondo una famiglia proletaria nella Roma a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, sempre attraverso i luoghi e gli oggetti di ogni giorno che lasciano le loro impronte sui ricordi. L’enorme e sacrale radio Grundig, da guardare più che da ascoltare la domenica pomeriggio. Un divano marrone comprato nel negozio sotto casa dalla famiglia vestita a festa, come si fa per gli eventi importanti, da festeggiare offrendo da bere a tutti. I bar dove spendono le loro giornate i ciavattari, sfaccendati di quartiere dalla vita mitologica e inverosimile. Una bandiera da costruire in casa a testimonianza imperitura di una passione sconfinata.

Il quotidiano diventa straordinario, e viceversa. Ogni tifoso ne ha un’esperienza diretta. In tutto il romanzo luccica questa magia familiare che attraversa la condivisione del dolore nelle sconfitte e la felicità cristallina della festa collettiva, e gli occhi del bambino che racconta non sono mai più ingenui di quelli degli adulti che gli stanno intorno: ciò che apprende da loro è una vita d’amore a senso unico, che non si pone domande ed è privo di rimpianti e di vergogna.

L’A.S. Roma è tutto, ma nel romanzo non ci sono nomi. Nessun nome, di nessun giocatore. Forse perché davvero le squadre di calcio appartengono solo e soltanto a chi vive e respira con loro, e quelli che giocano con la maglia della Roma “ce l’hanno solo in prestito, perché la maglia della Roma è la mia. Potrebbero anche averla rubata. E l’amore forse è questo: correre appresso a un ladro che ci ha rubato qualcosa”.

Niente nomi, dunque, ma tutti gli splendori e le miserie della squadra: gli anni bui in cui sfiora la retrocessione, la vittoria in Coppa Italia, la morte che irrompe tragicamente a sconvolgere tutto con l’uccisione di Vincenzo Paparelli nel derby del ’79. E quel pensiero a qualcosa di innominabile e segreto, una parola che non bisogna in alcun modo pronunciare e inizia per s. Lo scudetto, il sogno letteralmente proibito che sembra poter diventare realtà quando nel 1980 a Roma sbarca il giocatore venuto dal Brasile, semplicemente Lui. Una figura quasi ultraterrena dove riversare tutta la speranza accumulata in anni di sconfitte. E per sviscerare i segreti del suo numero di maglia, il 5, il bambino avrà bisogno dell’aiuto di Barabba, un enigmatico straccione che vive ai margini della ferrovia, che pian piano disegnerà una numerologia misteriosa in cui tutto si tiene e si intreccia, Eratostene, i Pitagorici, Aristotele, il moto dei pianeti, e soprattutto la Roma. Perché tutte le strade portano alla Roma.

La gioia fa parecchio rumore è un romanzo che, senza darlo a vedere, trova le parole per raccontare un’iniziazione personale e un rito collettivo: rievocare tutto il tempo che passa e affermare tutto l’amore che resta. Sembra asciutto, minimale, ma si spalanca su un microcosmo infinito.

Se avete fatto quell’esperimento di cui si parlava all’inizio, rievocando la vostra storia di tifosi, la vostra storia di amore incarnato, in queste pagine la potete specchiare.

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