Violetta Bellocchio racconta su ilLibraio.it “Non qui, non altrove” del 37enne Tommy Orange, tra gli esordi più acclamati degli ultimi tempi. La dote migliore dell’autore, “la sua fame e la sua scintilla, è una furia che contagia, uno stato di rabbia trattenuta che riesce a tenere su per tutto il libro grazie all’intelligenza del disegno narrativo, ma soprattutto al polso saldissimo sulla parola intrecciata all’immagine, ed è una rabbia che sta ovunque, rifiuta di rimanere confinata agli episodi dove la violenza e la sopraffazione si manifestano davvero…” – L’approfondimento

La fame è uno strumento molto utile per un artista, se prima non lo ammazza. La fame – il desiderio di affermarsi, conquistare un posto, maturare l’autorevolezza oltre alla forma –  è il motore capace di tenere sveglio e presente a se stesso un autore durante gli anni in cui rimugina su quello che diventerà il suo primo romanzo, alla faccia di chi gli dice che scrivere non serve e/o che la narrativa è superata. Tommy Orange, dalla sua parte, aveva la fame, la rabbia, la voglia di raccontare il mondo intero subito prima di dargli fuoco.

Non qui, non altrove (Frassinelli, traduzione di Stefano Bortolussi) parte col botto: le prime dieci pagine sono una tirata che mira a inquadrare “l’esperienza indiana” come un susseguirsi di vivere e di morire sempre eredi di una storia di sangue finita che peggio non poteva, con in più il costante venire branditi come allegri trofei dalla cultura che ti ha annientato: la testa dell’indiano, immagine statica con cui si interrompevano le trasmissioni TV, la storia narrata a uso e consumo degli invasori bianchi, i costumi di Halloween, la religione ridotta a cartolina per turisti tonti, la frammentazione nelle grandi città. La dispersione.

Tutto diventa un campo minato in cui le parole e le immagini assumono carica distruttiva. E da qui, un capitolo alla volta, attacca la trama, affidata a decine di personaggi, alcuni che dicono “io” e altri seguiti in terza persona, alcuni legati tra di loro, altri spettatori di vicende estranee. Ci sta, che nello stesso corpo di testo convivano decine di “esperienze native” radicalmente diverse, se l’identità fantasma può soltanto esprimersi a spezzoni, punti di vista frammentari, scene prive di un filo rosso collettivo che prescinda da un grande raduno (tranquilli che arriviamo pure a quello; è un romanzo). Allora ci sta il teenager che smanetta su YouTube per farsi un’idea di cosa siano i suoi balli tribali, le tradizioni che gli appartengono ma di cui nessuno l’ha mai informato, lasciandolo libero di cucirsi una pelle culturale raccogliticcia ma volonterosa, come ci sta il ragazzo devastato dall’alcolismo materno che lo ha fatto nascere già segnato nel corpo, l’assistente sociale che si trascina all’ennesimo convegno mentre il suo rapporto con sorella e nipoti esiste solo grazie ai messaggi sul telefono, il giovane uomo che a quattro anni dalla laurea non ha mai avuto un lavoro perché è stato risucchiato dalla vita online, con una famiglia ormai stanca di mantenerlo (qui spunta perfino Urban Dictionary grazie alla voce pretendian, riservata a chi simula un’eredità nativa inesistente).

Tommy Orange

Nessuno ha un posto, ma c’è posto per tutti.

Orange ha ribadito, in tante occasioni, di aver avuto lui per primo enormi pregiudizi negativi nei confronti della narrativa che definisce rez Indian writing”, scrittura della riserva, quella dove i personaggi abitano in piccoli luoghi falsamente protetti – del resto il colonialismo e la ghettizzazione sanno assumere forme presentabili, per cui, come accade anche in Europa, una fetta microscopica di una popolazione diventa protagonista assoluta di un pugno di storie sempre uguali, a patto di incarnare alcuni stereotipi (storia di indiani nelle riserve = storia triste destinata a bianchi dal benestante in su con i saggi Nativi addidati quali nobili esempi di resilienza). Scegliendo di saltare “le riserve”, di inseguire la vita per come l’ha conosciuta lui, Tommy, razza mista, l’ex sportivo cresciuto a Oakland. Non lo si può chiamare “indiano metropolitano” perché la formula in italiano ha tutt’altro significato, ma stiamo da quelle parti, lo stesso.

Ora: ha senso porsi davanti a un romanzo con tutto questo bagaglio di informazioni sull’autore e sul contesto che lo partorisce? Ha senso sì, quando il romanzo a casa sua è stato pompato per mesi prima dell’uscita, se, come altre opere prime destinate sulla carta a spaccare tutto (ciao Emma Cline, ciao City on Fire), la stessa asta per i diritti di pubblicazione si è conclusa con un assegno milionario a sigillo dell’eccezionalità, e se l’autore si trova caricato sulle spalle l’alone messianico di quello che ce l’ha fatta, la voce ferma e forte che si stacca da una minoranza pochissimo presente sulla scena.

Forse i lettori italiani non lo sanno, perché i casi di cronaca capaci di non terminare in un massacro raramente vengono affrontati dalle riviste nella nostra lingua, ma gli Stati Uniti del passato recentissimo sono stati attraversati da una potente quantità di flame riservati alla vera o percepita appropriazione culturale da parte dei bianchi superficiali, avidi, oppure volonterosi ma che proprio non ci arrivano. Ecco un esempio con tante figure: la smania di indossare headdress – copricapi piumati – durante i festival musicali, in modo da risultare più colorati e più belli, decisione paragonabile al tingersi il viso di nero con il lucido da scarpe e poi pretendere di avere ragione o archiviare la faccenda con un piccato “io non mi interesso di politica”.

La dote migliore di Orange, la sua fame e la sua scintilla, è una furia che contagia, uno stato di rabbia trattenuta che l’autore riesce a tenere su per tutto il libro grazie all’intelligenza del disegno narrativo, ma soprattutto al polso saldissimo sulla parola intrecciata all’immagine, ed è una rabbia che sta ovunque, rifiuta di rimanere confinata agli episodi dove la violenza e la sopraffazione si manifestano davvero. Quelli sono la versione amplificata del nervosismo provato dai personaggi minori nelle situazioni che sembrano innocue, come il documentarista che tenta di accedere ai fondi pubblici per il suo primo lavoro, in sala d’attesa si trova accanto un tipo ciarliero che gli cita Gertrude Stein a macchinetta (il “non qui, non altrove” del titolo) e nello stesso momento è consapevole che quel tipetto riciclerà la stessa frase in mille occasioni mondane per sentirsi intelligente, e per giunta i fondi rischia di averli lui, perché sembra più disinvolto.

Per potenza di fuoco, l’unico precedente di Tommy Orange ben pubblicato e ben tradotto anche da noi, a suo tempo, è stato Junot Diaz con La breve meravigliosa vita di Oscar Wao, che però era una vicenda di integrazione mancata, di allontanamento rispetto a un singolo modo giusto di comportarsi secondo una determinata cultura in un periodo preciso – gli scampati al regime di Trujillo che arrivavano in America da Santo Domingo. Il quadro, qui, è molto più mobile, sfuggente, materia viva. L’unica pagina di cronaca con sopra il bollino della grande storia – l’occupazione dell’isola di Alcatraz – sopravvive nei ricordi di una donna che ci era finita da bambina durante l’ennesima tappa di una fuga interminabile da uomini picchiatori e mezzi parenti loschi. Va bene così.

nota: la foto dell’autore è di Elena Seibert 

 

L’AUTRICE – Scrittrice, traduttrice e giornalista, Violetta Bellocchio (nella foto di Valentina Vasi) è l’autrice del memoir Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014). Ha fatto parte di L’età della febbre (minimum fax, 2015) e di un’altra antologia, Ma il mondo, non era di tutti? (Marcos y Marcos, 2016), curata da Paolo Nori. A sua volta ha curato l’antologia di nonfiction Quello che hai amato. (Utet, 2015). Ha pubblicato Mi chiamo Sara, vuol dire principessa (Marsilio) e il suo ultimo romanzo, uscito per Chiarelettere, nella collana Altrove, è La festa nera.
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

Fotografia header: Tommy Orange_ Elena Seibert

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