Valeria Tron, dopo l’apprezzato esordio, “L’equilibrio delle lucciole”, è tornata con il romanzo “Pietra dolce”, ambientato in Val Germanasca. Su ilLibraio.it l’autrice propone un toccante racconto autobiografico: “Si può essere ragno e sentire la Via Lattea? Si può addomesticare il vuoto, ricamarlo per tensione verso il cielo?”

Mia madre arrostisce peperoni. Fischietta una melodia casuale, al limite della noia, fissando la piastra rovente nel forno dove stanno disposti a pennellate grasse quarti rossi e gialli ad abbrustolire.

Questa mania del fischio basso ce l’ha da un paio d’anni: lo incalza o lo addolcisce a seconda del contesto, ma non lo molla mai. È diventato il compagno armonico delle sue giornate.

Ogni volta che glielo faccio presente, scrolla le spalle e rilassa le labbra in un sorriso che vale un paio di minuti di apnea.

Poco tempo fa, all’ennesimo “Perché fischi di continuo?”, anziché fare spallucce, aveva replicato un laconico: “Il vuoto non lo so più addomesticare”.

Poi aveva ripreso la cantilena menando lo strofinaccio come una bacchetta da orchestra, lasciandomi in stallo su quella frase tanto asciutta.

E pensare che proprio sull’abilità a ricamare il vuoto, per doloroso che si presenti, avevo costruito l’immagine di mia madre.

Si era confidata, quel giorno, usando le parole a compasso, con l’angolo aperto a una stanchezza profonda, prossima a perderne la misura.

Quando trilla la sveglia del forno, apre appena lo sportello per un quarto e si volta verso di me appagata, inspirando i vapori di peperone esalati dalla ventola. In un attimo la cucina è impregnata.

Ho sempre invidiato ai suoi occhi il verde delle foglie di vite immature, e quel guizzo dorato che rivela il ventre delle trote nelle anse di torrente al sole. Ora, a guardarli per bene, sembrano sbiancati dalla varechina.

Ha ragione lei, non si può addomesticare il vuoto per una vita intera senza spossare il cuore.

Esco a far incetta di correnti d’aria per scrollarmi di dosso il fiato delle verdure.

La osservo dalla vetrata: fischietta allegra sulla montagnola di peperoni che hanno ritrovato il vivido dei colori sotto la buccia carbonizzata. Finita la cernita, esce e si sfila il grembiule.

“Vorrei essere coraggiosa come quel tuo amico ragno” borbotta, indicando il palo della luce pubblica che svetta dal tetto della legnaia come un tronco d’abete.

“Dici Galileo?”

“Eh. Quello che osservi alla sera. Ti sento che gli parli. Come fai a sapere che è sempre lui?”

Poi accende una sigaretta e sputa il fumo verso la conca di fronte a casa.

Perché cerca le stelle più delle falene”.

Pausa. “Come te”, aggiungo,  prendendole lo strofinaccio dalle mani.

“Io non mangio parpalhola e soffro di vertigini”. Ride, vorrebbe fischiare ma si trattiene,

“Che c’entra, vi somigliate per altre cose”.

L’ho buttata all’aria senza pensare, quella risposta, solamente dopo un po’ mi sono chiesta quando, in due giorni appena, mia madre abbia trovato il tempo di badare alle strambe conversazioni che intrattengo con Galileo.

Ho inciampato gli occhi sulla sua ragnatela lo scorso luglio: una vela maestra, sfacciata e generosa, sospesa dalla trave del tetto alla ringhiera del balcone alto. L’aveva cucita in dodici spicchi identici. Lui, grassoccio, stava accucciato nel fulcro, immobile verso il nostro angolo di cielo.

Mi ero seduta a osservarlo.

Nessun’ala svolazza in quel lato di casa: è imboscato e senza punti luminosi per invaghire gli insetti.

“Sicuro che hai scelto il posto giusto, ragnetto? Guarda che quassù fai la fame”, avevo commentato ad alta voce.

Lui, impassibile.

All’improvviso ecco accendersi tutte le stelle, vivide, e le zampette di Galileo, fino a quel momento contratte, scivolare lente e ritmate sul filo di seta. Di tanto in tanto si arrestava, indugiando in un punto preciso, totalmente assorto in misurazioni che non mi è dato sapere.

Al mattino, di quell’architettura sospesa, rimanevano appena gli ancoraggi.

“Toh, l’ha disfatta. Magari si è accorto che non pesca nulla, da qui”.

Invece.

Ogni sera, a patto che non piovesse, Galileo tesseva una vela identica, se non più grossa, allargando e stringendo le diagonali.

Per un mese almeno, fino ai primi freddi, ha intrecciato trame verso la volta scura per poi riavvolgerle all’alba, tutto interessato a dialogare con i corpi celesti, e per nulla a predare.

Si può essere ragno e sentire la Via Lattea? Si può addomesticare il vuoto, ricamarlo per tensione verso il cielo?

“Galileo è un concentrato di stelle e speranza” ripetevo tra me. “Un sognatore, un poeta”.

Abbiamo guardato insieme le code delle stelle cadenti, la scorsa estate. Forse pure lui ha espresso desideri, a misura di ragno, si capisce.

Mia madre ha la stessa propensione verso le preghiere. E i vuoti li ha riavvolti e tessuti costantemente, ostinata a non perdere fiducia. Perciò sono simili, lei e il piccolo astronomo a otto zampe.

In questi pochi giorni rubati agli incontri per Pietra dolce, ho cercato la vela di Galileo in ogni spigolo di casa, finché una ragnatela gigantesca è comparsa all’imbrunire sul braccio del lampione che sovrasta la legnaia.

Inconfondibile, accurata e aperta verso due poli: la stellata e le poche falene che scarabocchiano sotto la lampadina.

Ha fame di cielo come sempre, il mio amico, e un inverno duro da affrontare, magari spoglio, magari sfiancante.

Ha deciso di vigilare col talento dei ragni, fatto di pazienza, dispense, silenzi prolungati, senza però rinunciare alla poesia degli astri.

Ha deciso di rimanere a testimoniare la parola Coraggio, che ha radice in Cor- cuore- ed è muscolare solo in quel senso.

L’ha inventato il patois quel termine, e Galielo, che è figlio del mio stesso spicchio di terra, certamente lo sa.

Si può mettere il cuore pure nei vuoti, pure fischiettando. Si può mettere il cuore per talento, o perché ci viene insegnato. Si può mettere il cuore per rispondere al disincanto, riscaldare gli inverni.

Moltiplicare coraggio fino a formare un gigantesco corpo luminoso, orbitante, fatto per calamitarci gli uni agli altri, disarmare le paure e intrecciare la pace.

 

 

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L’AUTRICE E IL LIBROValeria Tron è nata in Val Germanasca, uno dei pochi luoghi in Italia dove si parla l’occitano e dove vive tuttora per buona parte dell’anno. Proprio nel suo luogo di nascita ha ambientato il suo primo romanzo, L’equilibrio delle lucciole (Salani).

Pietra dolce, libri da leggere estate 2024

Cantautrice (è stata finalista al Premio Tenco), illustratrice, mediatrice culturale e artigiana del legno, Tron esce ora – sempre per la casa editrice Salani – con Pietra dolce, romanzo che torna nella Val Germanasca, dove la natura detta le proprie volontà: nella miniera di talco, negli orti, nei boschi, nelle borgate che guardano la cascata…

Così accade anche il giorno del crollo: tre boati tanto forti da far tremare la montagna. Due minatori mancano all’appello e nel piazzale si scava tra i detriti. L’ultimo a uscire dal foro nella roccia è un giovane che tutti conoscono. Si chiama Lisse, senza la U, e in quella lettera mancante è già scritta gran parte della sua vita. È ferito, eppure a far sanguinare l’animo di Lisse sono ben altri tagli. Quell’uomo partorito in un prato, accolto e nutrito dalla sua gente, è anche l’invisibile, il senza-storia, esiliato entro i confini della sua Valle.

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