“È la gratitudine a muovere il viaggio. È sempre il proprio turno se l’immaginazione fa valigia”. Su ilLibraio.it Valeria Tron, in libreria con “L’equilibrio delle lucciole”, racconta in modo lirico ed emozionante il suo rapporto con i libri, il viaggio e la fantasia

A queste altitudini c’è un unico ventaglio di tempo per prepararsi all’inverno: la stagione contraria. È preziosa come l’acqua, quella parentesi fremente. Decide la terra quassù, è sua l’ultima voce. Nei mesi estivi, in casa si parlava poco e si chiedeva ancora meno.

Io sognavo il mare, le terre altre e covavo coraggio per una sola domanda: “Pà, noi andiamo in vacanza?”. Succedeva a colazione, quand’era distratto dal telegiornale.

Lui controllava l’orologio, la mia tazza latte-novellini e poi si affacciava alla finestra scostando la tendina per guardare l’abetaia: “Mmmh. Non è il nostro turno” diceva, a metà tono tra un ordine e un tormento.

Dopo di che usciva, lanciando a terra le occhiate amare di chi si è frugato in tasca tante volte senza cavare nemmeno una ginevrina per addolcirsi. Quell’unica domanda arrivava ogni anno, dai cinque ai quattordici. Da lì in poi sembrava tanto inutile quanto mortificante: la voce di mio padre si era incastrata nella trama della tendina, tanto che questa le faceva eco.

Con la risposta, avevo battezzato un gatto ramingo: “Noneilnostroturno”, tutto attaccato e senza pause. Era un hashtag, quel gatto, in anticipo sui neologismi. Aveva la coda mozzata e camminava diagonale come un ubriaco.

In casa, l’unica valigia pronta era la borsa rossa da ospedale con cambi puliti, bicchiere, asciugamani e una saponetta incartata, che “la-së saou zamé” : Nonsisamai.

È sopravvissuto a mio padre intonso, quel bagaglio. Stava nell’armadio dall’87.

Noneilnostroturno e Nonsisamai erano entrati nell’alfabeto di famiglia con la forza di una saggina sulle foglie.

Quando osavo replicare, esprimendo il bisogno di vedere al di là delle creste che circondano la borgata, papà indicava le mensole piene di libri: “Vai lì e sii grata. Buon viaggio”.

Era fatto così, lui. Non aveva voluto addomesticarsi a nulla, tranne alle storie dei libri. Un “Ranulph Fiennes” di miniera, ancorato come un larice, eppure in balia delle pagine scritte.

“Poco male. Faccio da me” pensavo.

La fantasia è una scialuppa, e l’avevo in dotazione come il periscopio al Nautilus. Così mi ero data un ruolo: assistente alle partenze, addetta ai saluti in cambio di conchiglie e cartolina con tramonto.

Era un tempo fermentato: bagagli impilati, sorrisi, attese, cambi d’olio e pulizie d’ordinanza agli abitacoli, dai quali uscivano brandelli di caramelle esplose e oggetti vecchi un anno che si erano fossilizzati nella moquette e toccava estrarre con picconcino e pennello. Ogni tanto compariva qualche piantina cresciuta tra i sedili posteriori e il bagagliaio, cullata dall’umido. Di patata, per lo più.

La vacanza è materia di diritto, la regolamenta la vita timbrando il proprio posto in fila. C’è un turno per tutti, basta aspettare. Il mio biglietto doveva essersi perso sotto la pila di scartoffie, dimenticato da chissà quante generazioni.

L’immaginazione, invece, è l’evasione perfetta di ogni cattività e disobbedisce alle genealogie. Dunque, mi sentivo libera di assecondarla, scegliendomi un turno e zittendo tutte le tendine in una volta sola.

La spiaggia erano le vasche dei lavatoi. Mi ci immergevo in compagnia del cocomero che compariva il venerdì, con tanto di costume da piscina, acqua al tamarindo e cappellino di paglia. L’anguria era di compagnia e faceva da isolotto per Barbie Rockstar.

In più di un’occasione, complici pala e rastrello, avevo dirottato ai piedi delle vasche un bagnasciuga di sabbia da betoniera, sotto gli occhi stizziti di mio zio e quelli divertiti degli anziani. Un vecchio lenzuolo era scenografia: la palma in primo piano e due toni d’azzurro davano tutto il senso di un altrove marino. Lo appendevo alla bisogna sul filo di ferro dietro le vasche. Era una bella finestra per i desideri.

Da quel lido scrivevo biglietti per mia nonna come vere cartoline, affrancandoli con un quadratino di pelle d’anguria. Lei assecondava, chiedendomi resoconto di questo e quello.

Di viaggi così sono stata padrona sempre, finché un rivolo di vento ha sollevato la fila di fogli polverosi, svolazzando il mio in bella vista. La vita l’ha timbrato che avevo vent’anni, e non sapevo come si preparasse una valigia. Non sapevo, il sentimento del proprio turno.

Mio padre e le tendine, piuttosto increduli, mi hanno vista ammonticchiare bagagli e disporli in file come carovane. Avvertivo la pressione dei vuoti, dell’incertezza, impacciata e ignorante come quelle processioni nelle steppe del West alla ricerca di un pezzo di terra in regalo.

“Ehi, Magellano, guarda che stai una settimana in Calabria, mica due anni per mare. Basta uno zaino” mi aveva detto lui. “Ma come faccio a farci stare tutto ciò che serve in uno zaino? Eh?”, gli avevo risposto.

A quel punto, impetuoso, si era diretto alle mensole dei libri: “Ma come? Non ti hanno addestrata forse ai Poli, alle foreste del Nord, alla jungla, ai fondali, ai deserti, alle traversate, alle stelle, agli uomini, alle contraddizioni? E noi, non ti abbiamo forse consegnato altre storie? Sei tutto il bagaglio che serve! ” Nel dirlo ingrossava la voce di tutti i venti che sono letteratura, alzando libri come bandiere e sventolandoli per aria. Le tendine applaudivano.

Sei in viaggio da sempre, lo capisci? Il sentimento che gli dedichi ogni giorno è bussola”.

Poi era uscito lasciandomi sola a guardare il paese di borse che avevo sparso sul pavimento.

Avevo imparato una lezione salvifica, pure per i tempi magri: è la gratitudine a muovere il viaggio. È sempre il proprio turno se l’immaginazione fa valigia”.

Valeria Tron foto di Claudio Bonifazio

IL LIBRO E L’AUTRICE – Valeria Tron è nata in Val Germanasca, uno dei pochi luoghi in Italia dove si parla l’occitano e dove vive tuttora per buona parte dell’anno. Proprio a Val Germanasca ha ambientato il suo primo romanzo, L’equilibrio delle lucciole (Salani).

Cantautrice, Tron è stata finalista al Premio Tenco. È illustratrice, mediatrice culturale e artigiana del legno, cosa che emerge sempre nel suo libro.

La sua prima opera narrativa è incentrata sul ritorno come voglia di ricominciare, racconta di Adelaide che, dopo una delusione d’amore, torna nel paese in cui è nata, Val Germanasca, forse perché, come diceva Cesare Pavese:”Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Infatti Adelaide ritroverà proprio la gente, le, piante, la terra: un pugno di case in pietra tra le montagne aspre, un luogo resistente dove si parla una lingua antica e poetica. Il suo è un nostos per ritrovare attraverso gli odori del bosco e il rumore della legna che arde se stessa.

Scrive al figlio di voler “fare la muta al cuore“. Si circonderà così di storie e di memorie, quelle di Nanà, una custode novantenne, ma anche quelle di Levì, un altro anziano che è rimasto a Val Germanasca. La memoria e la storia degli altri sarà un grimaldello attraverso il quale Adelaide indagherà dentro se stessa e la scrittura ipnotica di Valeria Tron dentro i lettori…

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