Provocatorio e divertente, “Un cazzo ebreo” di Katharina Volckmer non è un romanzo d’esordio che lascia indifferenti. Rompendo un tabù dopo l’altro, la protagonista (una tedesca che vive a Londra, come l’autrice) indaga la propria identità sessuale e nazionale, cercando di liberarsi della vergogna e del senso di colpa: “Volevo capire ciò che accade quando vogliamo lasciarci la nostra identità alle spalle. Quali cose possiamo cambiare e che cosa dobbiamo scoprire per riconciliarci con noi stessi?” – L’intervista de ilLibraio.it

Il titolo è forse l’elemento meno provocatorio dell’esordio di Katharina Volckmer, Un cazzo ebreo (La Nave di Teseo,  traduzione di Chiara Spaziani). In poco più di un centinaio di pagine, la protagonista confessa al dottor Seligman tutti i suoi segreti: traumi, speranze, desideri e atti impuri che rompono i tabù di un’epoca in cui la vera blasfemia è sfidare il politically correct.

Blasfema come una tedesca che sogna di essere Hitler. Volckmer, nata in Germania nel 1987, si è trasferita a Londra, al pari della sua protagonista, e ha deciso di scrivere in lingua inglese, con umorismo e insolenza, un’opera prima nella quale non teme di rimestare la ferita aperta della Germania nei confronti del popolo ebraico: una scelta senza la quale questo titolo non sarebbe nemmeno esistito.

Basta quindi che una tedesca “scopi un cazzo ebreo” per permettere la riconciliazione tra queste due comunità? In un lungo monologo con il suo dottore, che ricorda quello di Lamento di Portnoy di Philip Roth, l’anonima protagonista sviscera la vergogna di essere donna, delle proprie origini culturali e degli impulsi sessuali, facendo cadere, una per una, tutte le menzogne rimaste sulla propria identità. Non resta che seguire la sua sofferta ma necessaria confessione, vivendo insieme a lei ogni colpo di scena, fino all’epilogo di un romanzo che ha il preciso scopo di mettere a disagio il lettore.

ilLibraio.it ha intervistato Volckmer per scoprire i dettagli della sua sconvolgente opera.

Volckmer_UnCazzoEbreo

Il titolo originale, A Jewish cock, riassume bene l’essenza del libro: a differenza dei genitali, che spesso vengono tenuti nascosti, lei espone brutalmente molti temi delicati. Qual è stato il percorso del titolo nelle altre edizioni dell’opera?
“Sono così grata che il titolo sia stato mantenuto nell’edizione italiana! Mi rende felice ogni volta che lo guardo. A oggi, la maggior parte delle edizioni straniere ha adottato il titolo L’appuntamento, sebbene l’edizione americana abbia in realtà il sottotitolo ‘O la storia di un cazzo ebreo’. Penso che alcuni dei miei editori abbiano ritenuto il libro provocatorio a sufficienza così com’è e, dato che l’espressione ‘un cazzo ebreo’ assume connotazioni diverse in lingue diverse, il mio istinto mi porta a fidarmi del loro giudizio. La stessa versione tedesca, per ovvie ragioni, verrà intitolata L’appuntamento. Quella italiana è solo la seconda edizione straniera a essere pubblicata (dopo quella olandese), e non tutti gli editori hanno già deciso quale titolo adottare: io vivo nella speranza. In ogni caso, ovviamente, rispetto il fatto che Paesi diversi abbiano diverse storie e sensibilità: imparare qualcosa su di loro è una delle ragioni per cui venire pubblicata in tante lingue è così interessante”.

Il suo lavoro affronta questioni di scottante attualità: in primo luogo parla di ruoli di genere e di identità, di sesso nella sua forma più grezza e infine dell’identità nazionale tedesca. Gli ultimi due aspetti sono correlati al senso di colpa: potrebbe essere una chiave di lettura del romanzo?
“Mentre scrivevo questo libro ero particolarmente interessata alla connessione tra i nostri corpi e la colpa storica. Alcuni hanno trovato volgare che inserissi Olocausto e corpo nella stessa storia, ma penso sia importante osservarli insieme”.

In che modo?
“Secondo me non ci sentiamo colpevoli solo nella mente: proviamo vergogna con tutto il corpo. Siamo delle entità fisiche e uccidiamo le vittime con le nostre mani, perciò non credo sia sufficiente guardare alla colpa storica in modo astratto. Inoltre, la nostra identità è il risultato di caratteristiche presenti fin dalla nostra nascita: una lingua madre, un luogo geografico che si accompagna a una certa storia, la nostra sessualità… Volevo capire ciò che accade quando vogliamo lasciarci la nostra identità alle spalle. Quali cose possiamo cambiare e che cosa dobbiamo scoprire per riconciliarci con noi stessi? Il senso di colpa e la vergogna che circondano l’identità nazionale e i nostri corpi sono chiaramente alcune delle forze dietro questa domanda”.

Non è semplice parlare della sua storia senza anticipare troppo, per quanto le rivelazioni sull’identità della protagonista siano sempre dietro l’angolo. Sarebbe corretto definire il suo un monologo di coming out?
“Si tratta senz’altro della prima volta in cui la protagonista parla così apertamente della sua vita e della sua identità (e certamente è difficile parlare di alcuni aspetti del libro evitando gli spoiler). A interessarmi era l’idea di creare una situazione in cui il suo interlocutore, il dottor Seligman, conoscesse il suo corpo e il segreto che voleva rivelare a chi avrebbe letto la storia, perché di rimando le avrebbe permesso di parlare del suo secondo segreto e di confessare tutto anche ai lettori. C’è una forte connessione tra la colpa storica e il corpo, in questa struttura, e alla fine del monologo la protagonista esce allo scoperto in molti modi. Mi piace pensarla come una moderna confessione, in cui la figura del dottore sostituisce quella del prete.

Esiste un chiaro parallelismo con Lamento di Portnoy di Philip Roth nella forma del monologo, nel linguaggio esplicito e in alcuni temi, come la sessualità e l’identità culturale-nazionale. Che rapporto ha con i suoi libri e con la sua eredità?
“Amo Lamento di Portnoy. Anche se alcune sue parti non sono invecchiate molto bene, penso che la relazione tra Alexander Portnoy e sua madre sia assolutamente geniale. È uno dei pochi libri che mi ha fatto ridere sguaiatamente. Ammiro anche tutti i tabù che aveva rotto ai tempi: a volte sembra facile da fare, invece ci vuole molto coraggio. Ho letto alcune altre sue opere, ma Lamento mi ha sempre parlato di più. È difficile scrivere delle pagine così divertenti”.

Questo libro sarebbe stato lo stesso se fosse stato scritto in tedesco? Perché questa scelta?
“Non avrei mai potuto immaginare di scriverlo in tedesco, sarebbe stato impossibile. Sarà ora tradotto da un fantastico traduttore e sono davvero curiosa di sapere come risuonerà, ma non avrebbe mai potuto essere la lingua originale del testo. Aveva bisogno di un elemento di distanza linguistica per essere così aperto e spudorato. Ed è anche vero che risultare spiritosi in tedesco è difficile, dato che i tedeschi talvolta sono incapaci di ridere e che la loro lingua non si presta molto all’umorismo”.

E per quel che la riguarda, invece?
“Personalmente, è stata anche una forma di coming out, per riconoscere le circostanze di tutti i giorni e ammettere con me stessa che l’inglese è la lingua che uso più di frequente e che mi rispecchia nel momento in cui la uso. Scrivere questo romanzo mi ha fatto riflettere su ciò che costituisce una lingua madre e mi ha aiutato a capire fino a che punto siamo autorizzati a servirci di una lingua”.

Ovvero?
“In generale, trovo liberatorio scrivere in una lingua diversa dalla propria: si passa molto meno tempo a pensare ai dettagli linguistici e questo mi mi ha permesso di trovare il giusto ritmo per la mia storia. È un limite che regala molta libertà, e non penso a me stessa come a una scrittrice di espressione tedesca o inglese. Sono felice di essere a un crocevia tra le due”.

Fotografia header: Un cazzo ebreo - Katharina Volckmer (nella foto di © JF PAGA)

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