“Libro dei fulmini”, il primo romanzo di Matteo Trevisani, porta il lettore in una Roma arcaica. Su ilLibraio.it l’autore racconta la sua fascinazione per la storia della magia e per quella della Città Eterna

“Certo che scriverai un libro”, mi aveva detto Gaia evitando di guardarmi negli occhi. Eravamo seduti sul tavolo di legno rovinato dal sole del balcone della prima casa presa in affitto di mio padre dopo il divorzio. Pensavo fosse una bella casa, forse perché per la prima volta avevo un mazzo di chiavi di un appartamento in cui portare una ragazza. Aveva un soppalco che dava sul soggiorno, ed era in collina, e le scale odoravano di sabbia fredda. A un certo punto ho pensato che quell’odore doveva essere una cosa comune di tutti quelli che, per un motivo o per l’altro, sono costretti ad andarsene. Gli occhi di Gaia si rabbuiarono subito dopo, girando la carta successiva.

“Ma lo scriverai da vecchio”, aggiunse, spegnendo la sigaretta. Io annuii, mentre dentro mi disperavo.

Avevo incontrato Gaia qualche settimana prima, non ricordo esattamente quando. “Sono una strega”, mi aveva detto e io non ne avevo dubitato nemmeno un secondo, come mi succedeva spesso con le cose che volevo mi piacessero: la credulità era importantissima per far in modo che le cose esistessero davvero, purché fossi in grado di pensarle, anche se mi ero allenato per tutta l’infanzia a credere all’invisibile, a forza di videogiochi e immaginazioni erotiche non supportate. Avevo diciotto anni e per la prima volta qualcuno mi stava mettendo a parte dell’idea che forse non sarei stato in grado di fare quello che volevo io, nella vita. A qualcuno accade molto prima, si può dire che ero stato fortunato. In ogni caso, era meglio scrivere e pubblicare un libro da molto giovane, o avere quel tipo di potere?

“Insegnami”, la implorai subito dopo. Il sottotesto era: “Anche io voglio saper distruggere i sogni delle persone”.

Secondo tradizione, Gaia mi regalò un mazzo di tarocchi qualche settimana dopo, rubandolo dalla vetrina di un vecchio tabaccaio di provincia. Erano tarocchi di Marsiglia, e l’inchiostro sbiadito della targhetta bianca mostrava ancora un cifra in lire. Me li insegnò una notte, stavolta a casa sua. Imparai ad avere familiarità con quelle figure, con l’intraprendenza del mago, che ha nel suo tavolo i semi del mondo, con il diavolo, che ci tiene incatenati alla passione e con la morte, la carta senza numero che falcia gli intralci ai nuovi inizi.

Quelle carte mi ossessionarono per anni, anche molto dopo che io e Gaia avevamo smesso di vederci. Me le portai dietro per tutta l’università, quasi tutti i giorni. Le facevo sul davanzale polveroso della finestra di un pianerottolo su una scala chiusa, in un’ala abbandonata di Villa Mirafiori.

La sicurezza che mi dava sentire quel peso dentro la borsa è difficile da spiegare: era come se avessi la certezza che in qualsiasi caso avrei potuto sapere tutto quello che mi occorreva. Mi rendo conto ora che tutta la presunzione di quel periodo nascondeva un’incertezza totale, che riguardava ogni cosa del mondo. Sapevo che le carte in nessun modo potevano funzionare così, e che più che il mio futuro erano un gioco che riguardava gli archetipi, e i simboli senza tempo che abitano l’uomo, ma chi poteva dire che non avrebbero funzionato così almeno per me?

Avevo cominciato a scrivere che ero molto giovane, con pochissima disciplina e nessun sacrificio. La profezia di Gaia aveva avuto un effetto bicipite: da una parte mi aveva emancipato dal dover dimostrare subito a tutti chi ero, dall’altra mi aveva gettato nello sconforto, perché i sogni giovani vanno esauditi subito, perché son voraci, e non sanno aspettare.

A poco a poco mi rassegnai: avrei studiato la scrittura come esercizio, tutti i giorni, l’avrei presa come un esercizio sul sé, e avrei studiato anche la magia, ma nel modo più accettabile possibile, quello che riguarda la filosofia. Nella mia testa erano due regni così separati che non possedevano nulla di comunicabile.

D’altra parte Roma era perfetta per vivere questa contraddizione interna, per avere una doppia cittadinanza nel mondo della letteratura e in quello della magia. Studiai la filosofia del Rinascimento, la caccia alle streghe, le antiche idee greche ed egizie che ancora ribollivano sotto le parole di Bruno, di Campanella, di Agrippa. Ma mi rendevo conto che, cercando di scrivere qualcosa che fosse pubblicabile, non facevo altro che dare di me l’idea che pensavo che gli altri volessero. Senza dirmelo scrivevo aspettandomi un riconoscimento dalla persona che avevo di fronte, per fare in modo di fare contento lui, e non me. Così, ogni volta che facevo leggere qualche pagina e per qualche maniera non andavano bene mi ricordavo le parole di Gaia: “Lo scriverai un libro, ma quando sarai vecchio”.

E poi mi resi conto che quello che sapevo di Roma non era abbastanza, e che quello che vivevo non mi bastava più. Non avevo mai amato quella città. Eppure si rivelò a me davvero, e per la prima volta, solo quando ormai erano dieci anni che ci vivevo.

Una sera, mentre passeggiavo per le sale vuote del museo dei Capitolini, mi affacciai sulla terrazza del Tabularium pensando a quello che avevo di fronte, al foro antico, al tempio di Saturno, alla Via Sacra. Ho sempre avuto la sensazione di ignorare tutto ciò che mi riguardasse profondamente: tutto quello che so di me l’ho appreso tramite intuizioni ed epifanie, mai attraverso ragionamenti lineari e consecutivi.

Quella sera nacque il mio amore per Roma, e da quella sera iniziai ad andarmene in giro e a scrivere dei posti che vedevo. Scrissi dei suoi musei vuoti, delle grandi biblioteche monumentali, visitai una per una le chiese di culti straniere e i templi esotici che si nascondono nei capannoni abbandonati fuori il raccordo. Non c’era niente a Roma che non avesse una qualche attrattiva: letteralmente ogni cosa poteva essere indagata. Naturalmente continuavo a scrivere narrativa. L’ultima cosa che avevo scritto mi aveva portato solo molta delusione e mi girava da un po’ per la testa una storia che aveva a che fare con la magia, che assomigliava di più a quello che ero diventato negli anni.

Ho scritto Libro dei fulmini in tre mesi, velocemente, quasi come se mi venisse dettato. Sapevo di stare raccontando qualcosa di molto diverso da tutto quello che avevo fatto prima, ma mentre andavo avanti, nel vedere le diverse trame che magicamente si mettevano al loro posto, con naturalezza, pensai che fosse la scelta giusta.

I due mondi si stavano riunendo.

Avevo cambiato il mio amato Carver per Giorgio de Santillana, Philiph Roth per Ernesto de Martino, David Foster Wallace per Giorgio Vigolo. Dopotutto, si parlava di coraggio. Mi chiedevano di mettere all’esterno quello che avevo nascosto, soprattutto a me stesso, per tanto tempo. Per fare una cosa del genere ci sarebbe voluto tempo. Quello che non sapevo è che avrebbe significato anche invecchiare.

Di sicuro Gaia non se lo ricorda, ma se la chiamassi ora, e le dicessi qualcosa come “Visto, l’ho pubblicato un libro, non è passato mica così tanto tempo”, lei mi guarderebbe di nuovo come quando avevamo diciotto anni e guardando il mare adriatico da una collina direbbe: “Ne sei sicuro? Le carte non sbagliano mai”.

Matteo Trevisani

L’AUTORE E IL ROMANZO – Matteo Trevisani, classe ’86, è nato a San Benedetto del Tronto. Redattore di Nuovi Argomenti, ha scritto racconti e reportage. Il suo primo romanzo, Libro dei fulmini (Atlantide), porta il lettore in una Roma arcaica. L’autore, che come ci ha raccontato è interessato alla storia della magia, racconta infatti un culto che si tramanda, quello dei fulmini…

Matteo Trevisani

Quella descritta nel romanzo è una storia di morte e di rinascita, che si snoda tra due dimensioni e due mondi. Trevisani sceglie un personaggio che porta il proprio nome e, insieme a lui, conduce il lettore in una immersione attraverso i tempi e i segreti di Roma, in un viaggio che lungo le tracce di un antichissimo culto dei fulmini e dei luoghi segnati dalle saette cadute sull’Urbe arriva al regno dell’oltretomba e di nuovo qui, nella terra dei vivi, o almeno di chi si crede tale.

 

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