“Raccontare la storia dei corpi, o attraverso di essi, è diventata una possibilità percorribile per la letteratura e per l’arte in generale…”. Alessandra Sarchi è tornata in libreria con “La notte ha la mia voce”, e su ilLibraio.it riflette sul ruolo del corpo nei romanzi, citando autori come Philip Roth e Primo Levi
Ho scritto un romanzo, La notte ha la mia voce, che vuole essere la storia di un corpo e molte volte, durante la sua stesura, mi sono domandata cosa legittimasse la mia esperienza soggettiva a iscriversi in un orizzonte più ampio, che fosse significativo per tutti, non solo per chi ha attraversato situazioni estreme e dalle conseguenze irreversibili sulla propria condizione fisica.
Ho spostato il punto di vista da scrittrice a lettrice e mi sono allora chiesta per quale motivo mi fossi appassionata a libri come L’animale morente di Philip Roth, Nel condominio di carne di Valerio Magrelli, La passione secondo G. H di Clarice Lispector, Il silenzio del corpo di Guido Ceronetti, Riparare i viventi di Maylis de Kerangal, per citarne solo alcuni.
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La risposta che mi sono data è che il mio interesse, come quello di moltissimi altri lettori, risiede nel fatto che in quei testi il corpo è una sonda conoscitiva verso il mondo, che comprende ma al tempo stesso trascende le singolarità individuali. Da questa prospettiva di conoscenza è possibile raccontare cose che, in passato, non avevano trovato spazio e dignità letteraria.
Nel 2014 uscì il romanzo della scrittrice francese Maylis de Kerengal, Réparerles vivants (Ripare i viventi, trad. it. di M. Baiocchi e A. Piovanello, Feltrinelli 2014) e divenne un caso letterario, quasi a sorpresa, non perché fosse in dubbio la qualità della scrittura di Kérengal, quanto per il tema trattato: la storia analiticamente descritta di un trapianto di organi, in particolare dell’espianto del cuore del diciottenne Simon a quello di una signora di mezza età. La morte cerebrale di Simon, avvenuta subito dopo un incidente automobilistico, consente che il suo corpo venga mantenuto tramite macchine e i suoi organi possano restituire ad altre persone funzioni e vita.
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La grande competenza medica con cui de Kérengal descrive le varie fasi del percorso, che va dall’espianto al trapianto, ricorda di continuo al lettore il luogo in cui si trova: dentro un ospedale, prima in una sala di rianimazione, poi in una sala operatoria. Da una vita che è finita, ed è solo involucro biologico, a una che è sospesa e dipende dalla possibilità di avere un nuovo cuore.
Mi riesce difficile immaginare il successo, di pubblico e di critica, di questo potente romanzo anche solo vent’anni fa, prima delle numerosissime serie televisive con ambientazione ospedaliera, prima della consuetudine col corpo medicalizzato, esplorato dall’interno tramite ecografie e risonanze che ce lo hanno reso visibile in maniera inedita. È esperienza comune, oggi, aver osservato un proprio organo o una parte di sé tramite un’immagine ecografica o una lastra ai raggi X.
La considerazione del corpo umano al microscopio e dall’interno si è installata nel nostro immaginario e nei nostri discorsi quotidiani. Certo, non è una storia iniziata ieri. Almeno dalla fine dell’Ottocento il pensiero occidentale è impegnato a decostruire la dicotomia anima/corpo, mente/materia, che lo ha dominato da Platone in poi e che è stata rafforzata nel ‘600 con Cartesio. Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, dichiara: “Colui che è desto e cosciente dice: sono tutto corpo e nulla fuori di esso”.
Il corpo, che per secoli è stato secondario e accessorio, è diventato dunque il fulcro di qualsiasi presa di parola, una grande ininterrotta e mutevole narrazione che produce di continuo significati. Si è affievolita, invece, la distinzione fra mente e corpo, proprio perché quanto più si studia e ci si avvicina a quest’ultimo si vedono le connessioni strettissime che lo legano alla psiche e risulta impossibile tracciare un confine fra i due poli.
Raccontare la storia dei corpi, o attraverso di essi, è diventata una possibilità percorribile per la letteratura e per l’arte in generale.
Un libro fondamentale in tale senso credo sia stato Se questo è un uomo di Primo Levi, perché l’esperienza di spossessamento fisico e psichico del lager passa in primis dal vissuto del corpo: fame, freddo, ferite, debolezza e perdita di controllo delle proprie funzioni che Levi vincendo la vergogna l’incredulità e il senso di colpa del sopravvissuto ha descritto, aprendo la strada a ogni successivo racconto sul corpo offeso, ammalato, e manipolato, come luogo in cui vive l’individuo e in cui si riflette l’intera società, e dunque come luogo politico per eccellenza.
L’AUTRICE E IL SUO ULTIMO LIBRO – Una giovane donna ha perso l’uso delle gambe in seguito a un incidente. Abita un corpo che non le appartiene più e si sente in esilio dal territorio dei sani. Poi incontra la Donnagatto, e il suo modo di guardare se stessa, e gli altri, cambia. La prima cosa che arriva di Giovanna è la voce: argentina, decisa, sensuale. Fa pensare a qualcuno che avanzi sulle miserie quotidiane come un felino. Ecco perché, fi n da subito, l’io narrante la battezza Donnagatto, sebbene Giovanna sia paralizzata, proprio come lei. Al contrario di lei, però, rivendica il diritto a desiderare ancora, sfi dando l’imperfezione del mondo. La Donnagatto nasconde un segreto, e forse ha trovato una persona cui confessarlo, consegnandole la propria storia. Una storia dove è solo apparente il confi ne tra la condanna e la grazia.
Alessandra Sarchi, nata a Reggio Emilia nel 1971, vive a Bologna. Ha pubblicato Segni sottili e clandestini (Diabasis 2008). Per Einaudi Stile Libero è uscito nel 2012 il romanzo Violazione, vincitore del premio Paolo Volponi opera prima, nel 2014 L’amore normale. L’autrice è tornata in libreria con La notte ha la mia voce, romanzo che racconta un nodo della propria esistenza, affondando nella sua stessa carne.