Tra la Liberia della guerra civile e gli Usa (con la scoperta del razzismo): “I draghi, il gigante, le donne” di Wayétu Moore un “coming of age” sia nella forma sia nella sostanza. Per l’autrice raccontare storie è un’attività dalla potenza salvifica. Nel suo romanzo, diviso in tre parti, trovano spazio realismo mimetico e memoir, e si mescolano realtà storica e fervida immaginazione…
Nel suo romanzo d’esordio She Would Be King, Wayétu Moore aveva scelto di raccontare la tumultuosa storia della Liberia col realismo magico, attraverso le vicende di tre supereroi.
Nel suo nuovo memoir, I Draghi, il Gigante, le Donne, – pubblicato da edizioni e/o con la traduzione di Tiziana Lo Porto–, Moore torna a guardare al paese d’origine, ma stavolta con realismo mimetico. Il libro si svolge durante la prima guerra civile liberiana, durante la quale la famiglia dell’autrice è costretta a scappare dal suo villaggio per cercare rifugio dai ribelli.
Il conflitto, durato per 14 anni (dal 1989 al 2003), vide la morte di più di 250mila persone, e trasformò per sempre il volto della nazione africana.
Allo scoppio della guerra Moore vive a Caldwell, Monrovia, col padre (Pa), la nonna (Ma), e le sorelle Wi e K. La madre (Mam) è negli Usa con una borsa Fulbright, studentessa alla Columbia University di New York.
Moore prende la parola per raccontare come sia stato vivere questi eventi in prima persona, offrendoci una prospettiva quanto mai inusuale. Raramente, sono le donne o i bambini vittime di guerra a parlarci della loro esperienza.
Diviso in tre parti – le prime due raccontate rispettivamente da Moore bambina e adulta, e l’ultima dalla madre – il libro copre trent’anni di diaspora liberiana, facendo su e giù dall’Africa all’America.
I draghi, il gigante, le donne è un “coming of age” sia nella forma sia nella sostanza. Nell’avanzare da una prospettiva all’altra, raccogliamo frammenti della storia familiare e di quella nazionale mentre attraversiamo un linguaggio in evoluzione: mimetico e fortemente visivo nella prima parte, più astratto e introspettivo nella seconda, infine quasi “romanzesco” quando Moore, con un ulteriore slancio creativo, prende addirittura la voce di Mam.
Tutu (diminutivo di Wayétu), voce della prima parte del memoir, mescola realtà storica e fervida immaginazione, con un sguardo innocente, speranzoso e talvolta smielato. C’è una dolcezza che gronda dalle immagini che si affollano a dipingere un ritratto della Liberia idilliaco. “Più dolce dei residui di mango maturo che mi ritrovavo tra i denti dopo aver succhiato il succo di ogni pezzetto appiccicoso, più della caramella mou della nonna che mi si scioglieva sulla lingua, più del pan di zucchero, persino più dell’America,” dice Tutu. In quel preciso istante la Liberia è casa, un posto fisico fatto di piaceri e piccole conquiste, come bere l’aranciata in polvere sul portico dopo cena o lavare le verdure. “Quel giorno ho compiuto cinque anni e la verdura era soffice tra le mie mani,” racconta la bambina orgogliosa che le sia stato concesso questo privilegio. Protetta dalla famiglia amorevole, per Tutu non ci sono sporgenze, spigoli, bordi taglienti.
In questa rappresentazione, per certi versi edulcorata, c’è sia la prospettiva infantile di chi nota e gode dei piccoli particolari che agli adulti ormai sfuggono – di chi si nutre di favole ed è ancora convinto che male e bene siano forze distinte—, che lo sguardo nostalgico della donna adulta che scrive, quella che conoscendo il futuro della Liberia, sa che quella terra non sarà mai più così.
In questa parte, quella che forse ricorda di più l’esordio di Moore, gli elementi fantastici ritornano come conforto per Moore bambina. Quando l’arrivo dei ribelli costringe la famiglia Moore alla fuga, Pa e la nonna Ma fanno di tutto per nascondere la violenza alle bambine. Quando Tutu chiede cosa faccia la gente stesa a terra, il padre le dice che stanno dormendo; quando gli spari in lontananza si fanno più forti, le racconta che sono tamburi, quelli di Malawala Bawala, il film preferito di K. Così le bambine non vedono l’ora che gli attori arrivino a danzare nel bosco.
Fra le storie, la leggenda del drago Hawa Undu è una lente con cui leggere l’intera vicenda. Hawa Undu “era un bel principe, imponente e dalle spalle larghe, gli zigomi alti e le mani ruvide segnate dalle vittorie in battaglia” racconta Tutu. Andato nella foresta per uccidere i draghi, finì per diventarne uno lui stesso, raggirando gli animali e uccidendo per procacciarsi il cibo. Il primo drago che incontriamo è il despota Sam Doe, governatore della Liberia. Tutu lo chiama proprio Hawa Undu. Ma i ribelli che lo oppongono diventano draghi a loro volta, spietati giustizieri assetati di potere.
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“La foresta è piena di rocce e pietre, ma nessuna di loro emette suono quando la calpesti. E la foresta è piena di scheletri, ma nessun osso si rompe facendo rumore quando lo calpesti.”
Alla fine di questa prima parte, la voce di Tutu lascia il posto a quella di Wayétu. Nella foresta che viene violata da Charles Taylor e Prince Johnson per catturare il drago Hawa Undu, c’è l’attraversamento di una soglia, la perdita di un’innocenza. Il bosco, prima fonte di storie e leggende, perché sconosciuto, viene rivelato per quello che è, un luogo in cui silenziosamente la gente viene uccisa. E al di là del bosco, finalmente illuminato, vediamo la cattura di Sam Doe, dei cui dettagli scabrosi Moore non ci risparmia molto: “il principe strappò via, una dopo l’altra, le squame di Hawa Undu che implorava perdono […] gli sputarono addosso, lo derisero, lo fecero urlare…[…] i ribelli gli tagliarono le mani, un dito per volta,” le orecchie e le unghie, finché il corpo non fu trascinato per le strade della città “a sanguinare da ogni ferita.” In questa inversione di stile, Moore ci segnala il prematuro passaggio alla vita adulta.
Se in questa prima parte il passaggio da bene a male e viceversa è ancora distinto, più avanti Moore raggiunge una visione più complessa. Il male non è mai “puro”, talvolta sono le condizioni esterne a spingere a decisioni difficili, e anche in mezzo ai detriti, ai corpi fucilati ingiustamente, brillano schegge di luce. Una di queste è Satta, giovane ribelle costretta ad arruolarsi fra i dissidenti per salvare la propria famiglia, ma che infine approfitta della sua posizione per aiutare altre famiglie a passare il confine, inclusa quella di Moore. Satta arriva al villaggio di Lai con un fucile attorno al collo e una caraffa di olio di palma che “portava come fosse un neonato”. I Moore non sanno se avere paura di lei o ringraziarla. Ma è nella descrizione di questa donna-guerriera, che Moore fa in punta di piedi, che vediamo la sua estrema umanità rapprendersi come un grumo.
La seconda parte del romanzo si svolge al giorno d’oggi, a New York, 25 anni dopo lo scoppio della guerra, ed è raccontata da una Wayétu adulta, nel pieno di una crisi esistenziale. Provata dalla fine di un amore e nel mezzo di un blocco letterario che le impedisce di concludere il romanzo a cui sta lavorando da molto tempo, Moore inizia a riflettere sulla sua identità. Si fa domande sull’essere donna, sul cosa significhi essere una persona di colore che vive a New York oggi. Questa circostanza geografica fa di lei una donna liberiana o una donna americana?
Nella prima parte del romanzo era il padre – amato e idealizzato –, il “gigante con mani forti a sufficienza da proteggere le [sue] orecchie quando i tamburi facevano eco rumorosi nella notte,” il guerriero dalla smisurata bontà che avrebbe sconfitto i draghi.
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In America ne incontrerà altri di draghi, più subdoli: come il razzismo, ubiquo, endemico, il trauma della guerra che ritorna sotto forma di incubi, ma anche le pene d’amore, il dramma della separazione.
Nell’affrontare queste battaglie cerca risposte nelle figure femminili fondamentali della sua vita; le celebra, riconoscendone il supporto strumentale alla sua crescita e al superamento di situazioni difficili. È sua madre, in fondo, a salvarli dalla Liberia per portarli in America. È la nonna a tenerla in forze, a porgerle canne da zucchero durante la fuga in Liberia. E sono “le mie amiche” dice Moore “le donne con cui mi nascondevo durante le tempeste, le donne con cui trascorrevo tutte quelle ore allegre a Brooklyn. […] Queste ragazze mi hanno aiutata. Mi hanno curata.” E poi c’è Satta che, come l’ha portata via dal villaggio di Lai, ora la richiama verso la Liberia.
La sezione centrale del libro, che è la più corta (e si ha l’impressione che Moore avrebbe potuto scrivere un romanzo solo su questa parentesi), è anche dove Moore elabora con più complessità alcuni dei nodi tematici.
Dopo una prima parte estremamente dinamica che si legge come un “page turner” e dove l’azione guida la narrazione, questa parentesi newyorkese è un momento per riprendere fiato. Sappiamo infatti che in quei mesi l’autrice, preoccupata dalle questioni esistenziali, non uscì di casa, costringendosi a una sorta di lockdown personale ancora in tempi non sospetti. Meno presa dall’urgenza di testimoniare, di raccontare le vicende al di fuori di lei, di far giustizia alla storia, Moore si prende una pausa riflessiva, regalandoci anche qualche respiro comico in virate dal tono decisamente più millennial, come la ricerca dell’uomo perfetto su Tinder.
Affrontato con ironia e tenerezza, l’amore e la sua perdita, i ricongiungimenti e le separazioni, sono al centro delle riflessioni di Moore. Moore che non è mai riuscita a sbronzarsi – “anche durante la mia autoproclamata ribellione tardo-adolescenziale, restava l’ombra fondamentalista delle domeniche mattine in Texas” – ma che è “dipendente dalle storie d’amore”.
“Monumentali, esasperanti, al limite dell’idiozia, elettrizzanti, rubate alle commedie romantiche o al vecchio Testamento. Mi ero innamorata in quella città e poi altrove troppe volte per riuscire a contarle. E così mi sentivo a casa, nel modo in cui i vagabondi come me si sentono a casa nelle città eleganti, dove la maggior parte della gente indossa l’amore come abiti laschi.”
A New York è l’amore di cui è cosparsa la città a cui si aggrappa, ma lei rimane a vagare come una vagabonda, perenne in-betweener. Anche in Texas c’era la stessa “irrequietezza”, “la consapevolezza che la vita tranquilla, al di fuori della nostra porta d’ingresso, al di là di quel vialetto, non corrispondeva alla mia melodia interiore. Non le aveva mai corrisposto.” Sono le relazioni, questi fili dorati che uniscono anche a migliaia di chilometri, a far di un posto casa. Ed è attraverso le relazioni (anche se a volte “riman[gono] su di noi come cicatrici annerite”) che Moore mette a nudo la fragilità e la forza degli uomini.
Wayetu finisce per frequentare un giovane americano bianco di sinistra, Johnny Boy, che apparentemente la ama, la sostiene, la accompagna alle marce contro il razzismo e contro la police brutality, e che sembra quasi capirla davvero finché un giorno, mentre lei sta uscendo dalla doccia, le chiede “ma non ti piacerebbe avere i capelli come i miei?” Impossibile non pensare a Ifemelu, protagonista del potente romanzo Americanah e al suo Curt – bianco, bello, ricco, e carismatico – ma col quale trovava impossibile avere una conversazione vera sulle questioni di razza. E’ sempre Chimamanda Ngozi Adichie, a dire, in un’intervista con The Cut, che “i capelli sono la metafora perfetta per la razza in America”.
Entrambe le scrittrici sono “diventate nere in America” (per dirla con le parole di Adichie). Quando vivevano in Africa, nessuna di loro si era posta il problema che il colore nero fosse “l’altro”. Quando Tutu e le sue sorelle spacchettano i regali di Mam e trovano i dvd de Il Mago di Oz e Tutti insieme appassionatamente, Tutu sconvolta si chiede “perché [le bambine] hanno quest’aspetto? […] Così, da malate. Bianche…”
Moore, come Adichie, si rifiuta di parlare di razzismo “in modo lirico e sottile” così che il lettore nemmeno si accorga che è di razzismo che sta parlando. Lo fa in maniera diretta, personale, ma mai vittimistica. Moore, che ci racconta la gioia e il disagio delle sue relazioni in America, o che ci parla dell’infanzia in Texas, dove le differenze tra bianchi e neri sono ancora più visibili, lo fa con forza e autodeterminazione. Non è succube del luccicante sogno americano, né degli stereotipi di bellezza di Johnny. “Cercavo questa casa sulle spalle dell’amore” dice dopo aver chiuso la storia con Johnny Boy, ma in realtà si stava cercando riflessa negli uomini. E’ guidata da un altro tipo d’amore, quello che si esprime col battito dei tamburi, che capisce che per trovare casa deve tornare in Liberia.
La struttura dinamica di questo testo consente a Moore di presentare il paese di provenienza e quello d’arrivo in un dialogo costante attraverso l’esperienza del migrante, analizzandone criticità e idiosincrasie. Nel farlo, Moore scardina alcuni degli stereotipi legati alla migrazione: per esempio, che emigrare sia una scelta, e che il paese d’origine sia peggiore di quello in cui si arriva.
La seconda parte si chiude con una domanda: “[Mam] perché te ne sei andata?” le chiede Wayetu in lacrime. E la terza ed ultima sezione si apre con la voce di Mam, una virata romanzesca che forse farebbe storcere il naso ai puristi del genere. Eppure questa parte, che come un cerchio ci riporta esattamente dove abbiamo iniziato – siamo di nuovo nel 1990 –, allo scoppio della guerra liberiana, è un felice tentativo di risanare la diaspora familiare dei Moore. “E non c’era modo di capire dove cominciava lei. E non c’era modo di capire dove finiva lui,” dice Mam dell’abbraccio che finalmente la ricongiunge al marito Gus (Pa) in Liberia, al termine del romanzo.
Alla maniera in cui molti immigrati vedono l’America come un El Dorado, un’opportunità che hanno il privilegio di sfruttare, così la vedevano i Moore. Sarebbe stato impensabile per Mam rifiutare la borsa di studio Fulbright, anche se accettarla significava lasciare la sua famiglia in Liberia. Eppure, racconta Wayetu in un’intervista, “da persona nera in America ti accorgi presto o tardi che la tua esistenza in questo posto ha implicazioni diverse da quelle che ti immaginavi avrebbe avuto”. In una seduta di psicoterapia, Moore confessa all’analista di aver avuto esperienze più traumatiche della guerra quando viveva in Texas.
Moore, che è cresciuta assaporando una Liberia “persino più dolce dell’America” in quest’opera contrasta fortemente le rappresentazioni dell’Africa – estremamente povera o estremamente violenta – che troviamo sui media. C’è un episodio, verso la fine del romanzo, in cui Mam si reca presso la Calvary Baptist Church per sentire la storia di un missionario che parla dei suoi viaggi in Liberia. Mentre questi mostra foto di bambini soli e denutriti, fogne a cielo aperto e racconta della povertà, della mancanza d’igiene e dell’ignoranza che imperano nel paese, Mam inizia a sentirsi sudare, la assale un malore improvviso provocato dallo scollamento di realtà che quelle immagini le offrono. A fine sermone, mentre il missionario passa col cestino a raccogliere le offerte, riesce solo a dire “sono offesissima” prima di correre in bagno a vomitare.
I Moore non emigrano per scelta, stavano bene in Liberia, amavano quel paese. E la vita in un paese più ricco, non equivale per loro necessariamente a una vita migliore. Non è un caso che finita la guerra, sceglieranno di tornare a vivere in Liberia.
Raramente si parla, quando si parla di migrazioni, del fatto che non sempre sono permanenti. Adichie scrive che vivere all’estero senza sapere quando sarebbe tornata a casa, “era come guardare l’amore che diventava ansia.” Mam, che è costretta a vivere la guerra lontana dal marito e dalle figlie, assalita da mille preoccupazioni perché incapace di entrare in contatto con loro, dirà che “il pericolo di un grande amore è questo […] la morte ti sta addosso.” Ifemelu, Mam, Wayetu, fanno parte di quelle donne che hanno scelto di farlo.
Ci sono dei segni premonitori che si possono leggere già da quando il bambino è nella pancia della mamma. “Se i bambini nascono podalici, se in qualche modo riescono a stare in piedi dentro le loro madri, allora c’è una battaglia in arrivo, e a vincere saranno le madri,” spiega Mam poco dopo aver scoperto di essere incinta. Le donne in questa storia sono forti, combattono, sanguinano, provano gioia. Poco dopo questa premonizione, Mam deciderà di partire per la Liberia, in pieno stato di guerra civile, per provare a portare la famiglia fuori dai confini e poi con sé in America.
Alcune storie hanno semplicemente bisogno di essere raccontate due volte. Nella ricombinazione ibrida che Moore fa con l’aggiunta di una seconda voce, potente controcanto alla sua, vediamo il racconto di un trauma intergenerazionale e il suo tentativo di guarigione.
“Perché tutte queste chiacchiere su un drago che si nasconde?” si chiede la piccola Tutu, “Perché non si erano limitati a chiedere a una donna, a una come Mam, a una di quelle donne che sapevano fare tutto e andare dappertutto, di entrare semplicemente nella foresta e parlare con Hawa Undu con voce gentile? […] lei non lo avrebbe combattuto. Avrebbe solo preso Hawa Undu per mano e lo avrebbe accompagnato fuori.”
Il raccontare storie è, già dalle prime righe di questo memoir, un’attività dalla potenza salvifica, e la riflessione che Tutu fa sul drago prefigura ciò che l’autrice capirà del tutto solo una volta raggiunta la fine della sua storia, condotto il suo drago fuori dalla foresta per mano.
È con le storie che il padre e la nonna riconciliano la violenza visibile della guerra. Ed è grazie alla duttilità delle storie, mobili come le identità che impariamo a costruirci, che è possibile ritrovare la gioia in ciò che ci è successo o ci sta accadendo, qualsiasi cosa sia, ci dice Moore. Anche se alcune “devono curvarsi molte volte come il filo del pescatore” prima di arrivare a casa.