“La ladra di parole”, struggente romanzo d’esordio di Abi Daré, riesce a denunciare abusi, ingiustizie e illeciti per cui il femminismo intersezionale si batte da anni attraverso la storia (raccontata in prima persona) della giovane nigeriana Adunni, scardinando ogni preconcetto sull’Africa e tratteggiando un mondo ambiguo, nel quale è difficile far sentire la propria voce – L’approfondimento

Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo“.

Lo affermava Gianni Rodari (1920-1980), scrittore di cui l’autrice Abi Daré, nata e cresciuta in Nigeria e ora residente in Inghilterra, sembrerebbe aver abbracciato senza saperlo il pensiero al punto da renderlo il fulcro del suo struggente romanzo d’esordio, La ladra di parole (Nord, traduzione di Elisa Banfi), vincitore del Bath Novel Award 2018 e già protagonista nel Regno Unito e negli Usa, dove è rimasto in classifica per settimane.

Copertina del libro La ladra di parole di Abi Darè

Lo sviluppo della storia parte da questo assunto rodariano basandosi su tre presupposti: prendere alla lettera il concetto di schiavitù, ambientando la vicenda in un Paese africano in cui, di fatto, il fenomeno non è stato ancora sradicato;  declinare quel “tutti” al femminile, trasformandolo in un “tutte” che risuona quantomai potente e necessario; e scegliere per protagonista una ragazzina, proprio come sarebbe piaciuto all’autore piemontese.

Il risultato è una narrazione magnetica, in cui la voce della piccola Adunni (in originale il titolo è proprio The girl with the Louding Voice) spicca forte e autentica nonostante i suoi inciampi linguistici, la sua tenera età e la sua ingenuità rispetto al mondo malsano che la circonda.

Originaria del paesino nigeriano di Ikati, Adunni resta infatti orfana di madre e spera quantomeno di accedere all’istruzione che lei le aveva promesso, sebbene la sua comunità, in cui si va ancora a prendere l’acqua al fiume, si vede raramente una tv funzionante e le donne sono solo sagome sottomesse ai pater familias e genitrici di figli maschi, abbia altro in serbo per lei.

Quando ha a stento 15 anni, pur di pagare l’affitto con la sua dote, il padre non a caso la dà in sposa a Morufu, un tassista grande e grosso con due mogli e varie figlie in casa, che la relega a una vita di silenzio e devozione nonostante le angherie che Adunni subirà dalla sua prima moglie e, nel talamo nuziale, dal marito stesso.

“Ma io non voglio che mi nasce gnente. Come faccio, una come me, a fare figli? Mica voglio riempire il mondo di bambini tristi che non possono andare a scuola. Mica voglio che il mondo diventa un posto brutto e silenzioso perché i bambini non hanno la voce”.

La sua fortuna è proprio questa: che, come una ginestra leopardiana, si piega ma non si spezza. Anzi, si circonda di alleate (tutte donne) e si fida e si affida a loro, canticchiando sottovoce e proteggendo a ogni costo i suoi desideri, fino a quando il suo altruismo non la mette nei guai e la costringe a scappare nella metropoli di Lagos.

L’impatto con la modernità è abbagliante, anche se Adunni capisce presto che certi meccanismi di sfruttamento sono solo vestiti meglio e ospitati in stanze sfavillanti di ipocrisia: lì, infatti, diventa la domestica di una ricca famiglia, da cui anziché uno stipendio percepisce botte e tentativi di stupro.

“Oggi la gente non ha la catena al collo e non la mandano da un’altra parte”, osserva non per niente Adunni, “ma qui la schiavitù è continuata. La legge non la rispettano lo stesso. Io voglio fare qualcosa per farli smettere. Per fare che la gente tratta bene l’altra gente, così smette anche la schiavitù della mente, non solo del corpo“.

Perciò, la giovane non perde il coraggio di leggere e continua a sperare nel suo futuro di maestra, battendosi per la sua dignità e ponendo a chi la circonda domande scomode: “Se per fare un bambino ci vogliono due persone, perché se non nasce solo una deve soffrire, la donna? È perché è lei che ha il seno e la pancia per diventare incinta? O per cos’altro? Voglio chiedere, anzi gridare, perché in Nigeria le donne soffrono per tutto più degli uomini?“.

Nel frattempo, avendo nuovamente individuato qualche persona dal cuore buono, dimentica come può le sue catene invisibili e si sforza, con commovente caparbietà, di ottenere una borsa di studio per tornare a scuola ed emanciparsi senza più sotterfugi, paure o preclusioni legate alla sua condizione di donna povera e poco istruita, senza famiglia né altre risorse alle spalle.

“Mia mamma mi ha detto che l’istruzione mi dava una voce”, afferma infatti, “ma io non voglio una voce come le altre […]. Io voglio una voce forte, una voce che la sentono tutti. Voglio che entro in un posto e le persone mi sentono, anche prima che ho aperto la bocca. Nella vita voglio aiutare tante persone, così quando divento vecchia e muoio, vivo ancora nelle persone che ho aiutato”.

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Raccontare tutto questo dal suo straniante punto di vista avrà richiesto un sforzo non indifferente, dal momento che l‘onestà e la dolcezza dell’eroina di Abi Daré sono schiette e spiazzanti come accade solo a chi non è ancora adulto, e permettono a chi legge di riscoprire a propria volta, come da zero, le disumanità di cui è vittima.

Ecco perché La ladra di parole riesce a denunciare abusi, ingiustizie e illeciti per cui il femminismo intersezionale si batte da anni, scardinando ogni preconcetto sull’Africa e tratteggiando, con uno stile à la Mark Twain e un’atmosfera che ricorda Isabel Allende, un mondo composto da decine di ambigui personaggi tridimensionali, mai ridotti al ruolo di buoni o cattivi d’ufficio.

La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo”, scriveva sempre Gianni Rodari.

E, come in questo caso, può aiutare le donne come Adunni a diventare protagoniste del mondo, oltre che della loro vita, trasformandosi nella promessa di un futuro più dignitoso rivolta a chiunque alle fiabe sappia prestare orecchio.

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