Nel suo memoir, la giornalista Nadeesha Dilshani Uyangoda spiega le implicazioni dello status di trovarsi a essere “L’unica persona nera nella stanza”, coinvolgendo i lettori in una riflessione sull’identità e la rappresentazione nella politica e nel linguaggio di tutti i giorni – L’approfondimento

«È incredibile,» mi aveva detto Giovanni a uno dei nostri primi appuntamenti «se ti ascoltassi a occhi chiusi, penserei che tu sia bianca». Avevo fatto spallucce, ma mi aveva fatto piacere.

Molti cittadini, italiani, di nuova generazione vivono la contraddizione di sentirsi spaccati tra due identità. Non solo perché è qualcosa che sentono dentro, ma perché la loro autodeterminazione identitaria non coincide col riscontro ottenuto dall’esterno, dalla legittimazione degli altri e della società. Banalizzando il problema dell’integrazione culturale, pensiamo agli scenari dell’assimilazione (l’interiorizzazione della cultura del Paese adottivo) e al suo opposto, la negazione, ma esistono così tante sfumature in mezzo a questi due estremi, che sono influenzate da concetti come, per esempio, la rappresentazione e la narrazione mediale.

L’unica persona nera nella stanza

In un longform dal titolo L’unica persona nera nella stanza pubblicato sulla rivista Not, la giornalista Nadeesha Dilshani Uyangoda tematizza lo status degli italiani “non bianchi” esordendo con una domanda spiazzante: “esistono?”, perché, spiega, nero spesso è sinonimo di straniero.

Lei è una giornalista italosrilankese che scrive di identità, migrazioni e nuove generazioni, e inizia l’articolo con un aneddoto personale: racconta di quella volta in uno studio televisivo in cui un truccatore si trova di fronte la sua pelle e, sorpreso, non sa quali pennelli utilizzare, perché “le pelli come la mia non passano mai sulla tv nazionale”.

L’unica persona nera nella stanza ora è diventato un memoir. Pubblicato da 66thand2nd, il libro raccoglie riflessioni a metà tra la forma saggistica e romanzesca sul trovarsi a essere, appunto, l’unica persona nera nella stanza.

Saggistica perché Uyangoda, con spirito giornalistico, sviscera articoli accademici, di cronaca e TEDtalks sullo stato dell’arte dell’identità delle minoranze, intersecandoli con interviste che ha condotto lei stessa in una riflessione consapevole e che aggiunge qualcosa di prezioso alla conversazione; forma romanzesca, invece, perché la sua prosa ha uno stile fortemente evocativo, sincero e audace.

C’è un capitolo in cui l’autrice descrive i concorsi di bellezza per le seconde generazioni – Miss Italia Sri Lanka, e Miss Italia Africa – che ricorda le atmosfere spesso evocate da Joyce Carol Oates.

La differenza è che Uyangoda non si ferma lì: compie un passo ulteriore e lo fa con un intento ben preciso, quello di rivendicare l’italianità nei corpi che nell’immaginario comune non sono ritenuti canonici: “al centro, su tacchi incerti, giovanissime ragazze provano la camminata: hanno tratti estetici diversissimi tra loro – l’altezza, il colore della pelle, la forma del corpo, le linee del naso e delle labbra che variano in base al punto del continente nero a cui sono legate”. La sua è una lingua consapevole delle asimmetrie di potere e limpida.

Essere l’unica persona nera nella stanza significa, secondo Nadeesha Dilshani Uyangoda, rappresentare con una metonimia tutto ciò che è in minoranza; si definisce così: “sono la riforma della cittadinanza, l’immigrazione fuori controllo, i barconi, l’integrazione”.

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Troppo spesso nero vuol dire straniero, in una falsa dicotomia tra l’etnia e la nazionalità che Uyangoda smantella. È una situazione che si interseca tra il rischio di tokenism, ovvero un feticcio di rappresentazione minoritaria forzata, e di sentirsi un “coconut: nera fuori, bianca dentro”, un termine diffamatorio inglese.

Significa crescere senza punti di riferimento, non riconoscendo la propria narrativa da nessuna parte. Fa l’esempio della rappresentazione nelle serie tv come Una Mamma Per Amica, citando Lane, o di New Girl con il personaggio di Winston, The Big Bang Theory con Raj: tre personaggi che mostrano l’alterità etnica, ma che sono rilegati a essere “macchiette”, personaggi secondari che servono a fare luce sul protagonista e con le quali nessuno riesce a identificarsi per davvero.

Come spiega l’autrice, è partita dalle riflessioni nate in quel longform e le ha poi sviluppate declinandole attorno ad alcuni macrotemi che regolano i capitoli, che vanno dal “dating a brown girl”, alla rappresentazione mediale delle persone BME (Black and Minority Ethnic), fino all’intersezionalità.

Scrive sempre a partire dalla sua esperienza personale, alternandola a episodi di cronaca: per esempio, alcuni capitoli vedono la figura di Giovanni, il ragazzo, usato come espediente per dare voce a certe domande e commenti che esemplificano il rapportarsi immediato di una persona bianca con una di colore. Giovanni rappresenta, sostanzialmente, quello che in Americanah Chimamanda Ngozi Adichie definiva “l’Amico Bianco Speciale”.

Quando il fidanzato dice alla madre che sta uscendo con una ragazza nera, la domanda che questa pone al figlio riguarda quanto sia scura, e la risposta della narratrice è: “dovremmo comprare una di quelle cartelle colori, per darle una risposta precisa. Sai, di quelle che si usano per decidere di che colore imbiancare la casa”.

L’autrice non dà mai risposte scontate, e smantella il razzismo sistemico insito nella cultura e nella lingua una parola alla volta. Il suo ragionamento è in divenire, inizia riflessioni che non devono per forza essere seguite da un punto. L’importante è intavolare la conversazione. In un capitolo analizza l’aggettivo da affibbiare alla sua pelle, poiché, ci ricorda, ci si trova sempre a doversi definire come qualcosa: passa in scrutinio “nera”, “marrone”, “di colore” e infine parla del più largo e significativo “visible minorities”, minoranze visibili, per individuare i gruppi etnici che risentono maggiormente della razzializzazione della società. Ci rende partecipi dei suoi ragionamenti in maniera trasparente: è come se ci trovassimo tutti a una grande tavola rotonda.

Nel suo libro non ha paura a fare nomi: decostruisce lo pseudofemminismo degli ultimi anni, parla dei rischi dell’attivismo digitale che si ferma a condividere un quadratino nero per supportare la causa antirazzista americana.

Chiama le cose con il loro nome: spiega la necessità di iniziare a pronunciare la parola “razzismo” e di problematizzarlo. In un’intervista di Uyangoda a Espérance Hakuzwimana Ripanti apparsa su Rivista Studio la scorsa estate, le due attiviste sottolineano l’assenza dal dibattito pubblico di un tema importante come quello del colonialismo italiano e parlano della necessità di un “attivismo culturale” (usando i termini di Igiaba Scego) che sfoci a partire da quello digitale.

Grazie a queste autrici, in Italia possiamo ritenerci nelle mani giuste: L’unica persona nera nella stanza si inserisce nel solco e ha intenzione di dare avvio a una grande conversazione, posticipata troppo a lungo.

Fotografia header: Nadeesha Dilshani Uyangoda (foto di Eleuterio Ruiz)

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