Finché i bianchi non riconosceranno il proprio razzismo interiorizzato e metteranno da parte la propria fragilità di fronte all’argomento, non ci sarà modo di superare l’ineguaglianza. Parte da questo assunto il saggio di Robin DiAngelo, accademica e divulgatrice del concetto di “Fragilità bianca” (che dà il titolo al volume) – L’approfondimento e un capitolo dal libro-bestseller ai tempi delle proteste del Black Lives Matter

Se è vero che nessun bambino bianco nasce razzista, ognuno inevitabilmente lo diventa: il razzismo è l’acqua in cui nuotiamo, per usare una metafora di tipo wallaciano. Siamo immersi in un complesso sistema sociale e politico in cui cresciamo, ci nutriamo e di cui assorbiamo dentro di noi certi meccanismi. Che lo si voglia o no, che ci si creda o meno. E i bianchi, in particolar modo, sono al tempo stesso responsabili e ignari di perpetuare questo sistema pur talvolta condannandolo: risulta così l’inettitudine di fronte al razzismo quotidiano, la fragilità degli individui di razza bianca. Ecco perché, secondo Robin DiAngelo (1956), autrice di Fragilità Bianca. Perché è così difficile per i bianchi parlare di razzismo (Chiarelettere, traduzione di Elena Cantoni), per le persone bianche, tra dirsi antirazzisti ed esserlo veramente, purtroppo esiste un mare incolmabile.

Professoressa specializzata in Whiteness Studies all’Università di Seattle, Robin DiAngelo ha lavorato per oltre 20 anni come consulente ed educatrice alla diversità nelle istituzioni e nelle aziende, portando alla luce le problematiche più concrete di discriminazione razziale all’interno di quei sistemi. Quanto emergeva da quei laboratori era l’enorme difficoltà dei bianchi di riconoscere gli errori, le implicite offese e le discriminazioni nei confronti delle altre persone di colore, risultando in un enorme disagio a scapito delle stesse persone discriminate. Questo, nei termini più stringenti, è la definizione del concetto fragilità bianca, ovvero l’imbarazzo, il disagio e il senso di colpa per il razzismo che risiede in ciascun individuo bianco, a dispetto delle proprie migliori intenzioni. Da questa esperienza DiAngelo ha basato la scrittura di questo saggio, bestseller negli Usa, che risulta come un testo di grande praticità per comprendere i meccanismi di questo sistema razzista, analizzandoli criticamente e facendo emergere le nostre ipocrisie. 

I crimini d’odio esistono da molto prima che gli venisse data questa definizione e le differenze razziali sono sempre state alla base di efferati omicidi e violazioni dei diritti umani come la schiavitù o la segregazione, che macchiano in modo indelebile la storia degli Stati Uniti d’America. Ma la definizione di razzismo di DiAngelo non si limita a questo: per capire cosa davvero sia, bisogna mettere da parte le sue espressioni più brutali per concentrarsi su quegli atti di insidiosa e sottile discriminazione che i bianchi mettono in atto quotidianamente, senza averne vera coscienza, sostenendo questa struttura sociale di cui beneficiano. 

La razza esiste, ma almeno non a livello biologico-genetico: è un concetto sociologico che permette di riconoscere i differenti gruppi in cui si suddivide l’umanità e che permette di individuare le diverse modalità di socializzazione di essi. Per citare Ta-Nehisi Coates, “la razza è figlia del razzismo, non la madre”. Il problema dei bianchi nasce proprio dal fatto che non percepiscono la propria stessa razza, quella bianca. Per quanto difficile da accettare, non essere di colore non significa non avere una razza. Si pensi al fatto che questo concetto è stato rinegoziato nel tempo: gli italiani negli Stati Uniti, prima degli anni ‘30 non erano considerati bianchi. I bianchi hanno una pecca originale: possedere un privilegio sociale inconsapevole, spesso persino negato. Solo partendo da questo assunto, difficile da digerire in prima battuta, è possibile cominciare un discorso in merito alla propria fragilità. 

In particolare, i destinatari scelti da DiAngelo per il suo libro sono proprio quei progressisti bianchi che sentono di fare la cosa giusta dichiarandosi antirazzisti, ripudiando i governi e le loro azioni violente contro i neri, oppure dimostrare varie forme di solidarietà di facciata. Come ha sottolineato anche lo scrittore Antonio Dikele Distefano in un’intervista a ilLibraio.it, queste prese di posizione rivelano a volte una certa ingenuità, se non un’ipocrisia di fondo: si tratta spesso di atti autoreferenziali che servono a mettersi a posto la coscienza, mistificazioni che ci raccontiamo per essere in pace con noi stessi, ma il problema è molto più radicato di così. Un concetto rinforzato anche da Oiza Q. Obasuyi su Internazionale, dove afferma che “il razzismo è approvato e perpetuato anche dai ‘meno sospettabili’, un razzismo ‘inconsapevole’ e ‘bonario’ diffuso tra le persone comuni e accettato perfino da chi pensa di non avere stereotipi o pregiudizi”.

Varrebbe la pena ridiscutere il significato della stessa parola progresso e la sua intrinseca ipocrisia. Nemmeno le nuove generazioni, esposte ai social e ai prodotti culturali che dissezionano il razzismo, come ad esempio le serie Dear White People o When they see us su Netflix, ne sono immuni. Riconoscere il razzismo nelle proprie azioni quotidiane, nelle proprie mancanze e, in particolar modo, nell’interazione diretta con le persone nere o di colore, crea un profondo disagio che trova le proprie radici nel senso di colpa. E, come sottolineato nel libro, non potrà mai esserci una relazione veramente pacifica con un altro individuo se il rapporto si basa su pregiudizi anche se inconsapevoli: emergerà sempre un atteggiamento differente rivolto agli ‘altri’. 

Ciò che a un lettore italiano potrebbe sembrare strano è proprio il fatto di dover sentire parlare di razzismo da una professoressa bianca come DiAngelo, e la motivazione è da cercare proprio nel fatto che non è responsabilità degli oggetti del razzismo di educarci come essere antirazzisti. Il fardello emotivo che questi individui portano su di sé è già sufficientemente pesante perché si debbano incaricare di fare questo al posto dei bianchi. Già intellettuali come W.E.B. Du Bois e James Baldwin, si occupano della whiteness da decenni, sollecitando i bianchi a volgere l’attenzione su sé stessi, per indagare che cosa significhi essere bianchi in una società così profondamente divisa sul piano razziale.

Il danzatore dell’acqua

Lo stesso Ta-Nehisi Coates ha da poco esordito nella narrativa con Il danzatore dell’acqua (Einaudi) un romanzo ambientato ai tempi della Sotterranea, l’organizzazione di supporto della liberazione degli schiavi afroamericani. Ne risulta che quando un bianco parla agli altri bianchi ottiene un effetto diverso: viene ascoltato senza che il suo punto di vista venga delegittimato o messo in dubbio e incontra la ricettività altrui. Ecco perché è una donna bianca a doversi rivolgere a un “noi” bianco, puntando il dito sugli atteggiamenti che non siamo nemmeno in grado di vedere da soli. Certo, va anche aggiunto che per fornire un contesto sociologico al fenomeno razzista ancora più ampio, non bisogna dimenticare di allargare il discorso ad altri tipi di oppressione intersezionale, come il sessismo e il classismo.

La sfida finale sarebbe trovare un testo analogo – che diventi un bestseller – di riferimento per l’Europa, non solo per ricostruire la storia coloniale, ma in particolar modo per gestire ed interiorizzare il peso dei fenomeni migratori e la fatica della cosiddetta “integrazione”. Pochi Paesi come l’Italia fanno fatica a definirsi multiculturali e ad ammettere il proprio sostrato razzista. È quindi tempo che una coscienza antirazzista entri in profondità nel nostro tessuto sociale, così come sta avvenendo oltreoceano. Non è razzista solo chi picchia una persona di colore, non è razzista solo un esponente politico che impedisce a una nave di migranti di sbarcare. È razzista la società che lo permette senza dire nulla, normalizzando tali atti.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo dal saggio di DiAngelo:

Come afferma lo studioso e cineasta afroamericano Omowale Akintunde: «Il razzismo è un fenomeno sistematico, sociale, istituzionale, onnipresente e capillare, epistemologicamente insito in ogni aspetto della nostra realtà. Eppure, per gran parte dei bianchi il razzismo è come l’omicidio: esiste come concetto astratto, ma qualcuno lo deve commettere perché si traduca in realtà. Questa visione ristretta di una sindrome così complessa non fa che aggravarne la perniciosità e, di fatto, diffondere il contagio anziché sradicarlo».

Lo schema buono/cattivo è una falsa dicotomia. Tutti gli individui hanno pregiudizi, specie rispetto all’altro da sé in una società come quella americana profondamente divisa in base alla razza. I miei genitori possono insegnarmi che siamo tutti uguali, io posso avere amici di colore e non raccontare mai una barzelletta razzista, ma resto comunque condizionata dal razzismo in quanto membro di una società che trova in esso il suo fondamento. Sarò comunque vista e trattata come bianca, e vivrò la mia vita in base alle esperienze dei bianchi. Coltiverò un’identità, una personalità, interessi e progetti secondo una prospettiva bianca. Avrò una visione del mondo e uno schema di riferimento bianchi.

In una società in cui la razza conta moltissimo, la nostra appartenenza razziale non può che incidere profondamente sul nostro modo di essere. Per sovvertire questo costrutto dobbiamo prendere coscienza con onestà di come esso si manifesta nelle nostre vite e nella società che ci circonda.

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Ogni atto razzista non è un fenomeno isolato, ma parte di un sistema più vasto di dinamiche interconnesse. Concentrarsi sui singoli episodi impedisce di effettuare una disamina personale, interpersonale, culturale, storica e strutturale necessaria a smantellare il sistema. L’idea semplicistica che circoscrive il razzismo ai soli comportamenti intenzionali commessi da individui malvagi è alla radice di pressoché tutte le reazioni autoassolutorie dei bianchi nei riguardi del fenomeno. Soltanto superando questo luogo comune potremo superare lo scoglio dell’autoindulgenza.

La logica binaria buono/cattivo occulta la natura strutturale del razzismo, ci impedisce di vederla e capirla a fondo. Altrettanto problematico è l’impatto di questa visione del mondo sulla nostra condotta. Se come bianco concettualizzo il razzismo in base a una contrapposizione binaria e mi colloco sul lato «non razzista», mi considero già a posto: non serve che faccia altro. Non sono razzista, dunque il razzismo non è un mio problema; non mi riguarda e non sono tenuto ad agire oltre. La dicotomia garantisce che io non mi senta in dovere di costruire una capacità di pensiero critico sulla disuguaglianza razziale o di usare la mia posizione privilegiata per contestarla.

(continua in libreria…)

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