“In questo libro i protagonisti sono le persone nere – e di origine straniera in generale – che diventano dei corpi estranei e muti in un contesto che li nomina ma non li interpella, che se ne serve per propaganda ma non li ascolta. Le persone nere sono corpi spersonalizzati, senza identità, pensieri, opinioni”. Esce il primo saggio di Oiza Queens Day Obasuyi, che racconta il razzismo in Italia – Su ilLibraio.it il capitolo “Quindi che fare?”

In Italia, sui media ma non solo, spesso si parla di razzismo in modi discutibili (e/o disinformati). Eppure si tratta di un tema, e un problema, di grande attualità, che necessiterebbe di analisi e commenti attenti e consapevoli.

Studiosa di diritti umani, migrazioni e relazioni internazionali, la 25enne Oiza Queens Day Obasuyi, nata e cresciuta ad Ancona, da tempo è attiva usa i social, dove quotidianamente discute e propone riflessioni legate al razzismo nel nostro Paese. Laureata in Lingue, Culture e Letterature Straniere all’Università degli Studi di Macerata, dove frequenta il corso di laurea magistrale in Global Politics and International Relations, e collaboratrice di testate come The Vision e Internazionale, ora Oiza Queens Day Obasuyi arriva in libreria per People con il saggio Corpi estranei.

Il suo primo libro esce per la stessa casa editrice che l’anno scorso ha proposto un altro esordio, quello di Espérance Hakuzwimana Ripanti (E poi basta – Manifesto di una donna nera in Italia).

Spiega l’autrice di Corpi estranei: “In questo libro i protagonisti sono le persone nere – e di origine straniera in generale – che diventano dei corpi estranei e muti in un contesto che li nomina ma non li interpella, che se ne serve per propaganda ma non li ascolta. Le persone nere sono corpi spersonalizzati, senza identità, pensieri, opinioni. Le persone nere sono a tratti degli invasori, oppure dei cuccioli da salvare. Sono da sfruttare, oppure da nominare per appuntarsi la propria medaglietta di ‘antirazzista perfetto’. Le persone nere sono, per esempio, quello a cui ho dato l’elemosina e che deve essere il protagonista del mio post su Facebook”.

E ancora: “In questo libro si cerca di decostruire il razzismo in Italia. Razzismo che, chiaramente, non comincia con il governo giallo-verde e non si consuma con l’ennesima aggressione – che ne è solo la punta dell’iceberg. Il razzismo è qualcosa di più complesso da decifrare. Chi non fa parte di una minoranza etnica difficilmente lo coglie, e spesso anzi lo perpetua senza rendersene conto”.

Banalizzare il passato coloniale dell’Italia, giustificare il razzismo parlandone come forma di ‘ignoranza’, pensare sia normale affrontare viaggi che mettono a rischio la vita per arrivare in Europa, considerare il caporalato un evento a margine della società: Oiza Queens Day Obasuyi, ripercorrendo la storia politica e culturale d’Italia, con il suo saggio si propone di raccontare l’esperienza di una donna afro-discendente e di smantellare il sistema di esclusione e discriminazione in cui viviamo, per denunciare un Paese culturalmente arretrato nel rapporto con le minoranze etniche e le migrazioni.

corpi estranei

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo:

Quindi che fare?

Il filosofo, storico e scrittore camerunense post-coloniale Achille Mbembe, in un’intervista per la testata giornalistica francese Quartier Général, afferma: «Le racisme n’est pas un accident, c’est un écosystème»1.

Il punto è proprio questo: bisogna iniziare a comprendere che il razzismo non è l’episodio isolato del neonazista che disegna svastiche sui muri di qualche centro di accoglienza, o del giovane fanatico che aggredisce il coetaneo per il colore della sua pelle, o del politico che parla di sostituzioni etniche; il razzismo è parte integrante di un sistema basato sulle disuguaglianze sociali che si intrecciano con la razzializzazione degli individui. Bisogna, sì, protestare contro un sistema che vede dei migranti come braccia da sfruttare e che non permette loro di godere dei benefici dovuti. Bisogna, sì, protestare contro chi non considera i nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri come parte integrante del tessuto sociale, ma è soprattutto necessaria una rivoluzione culturale che porti ad affrontare il razzismo in tutte le sue forme.

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Sviluppare un pensiero antirazzista significa mettere in dubbio le proprie convinzioni e accettare il fatto che, anche se hai letto qualcosa su Malcolm X o Martin Luther King o Nelson Mandela, puoi comunque vivere in un contesto che influenza una narrazione tossica e stereotipata sulle persone afro-discendenti o di altre etnie. Anche perché spesso è più frequente l’atteggiamento di voler “insegnare il razzismo” o di “spiegare il razzismo” a chi il razzismo lo subisce. Questo è un approccio completamente errato, perché è un atteggiamento che mette a tacere proprio coloro che hanno voce in capitolo sul razzismo, e a causa del quale si stabiliscono i criteri per definire se un certo comportamento, una legge o un’espressione siano razziste o meno; chi stabilisce questi criteri – non fa parte di gruppi sociali razzializzati – ha anche il controllo della definizione del razzismo stesso e di conseguenza spodesta il pensiero critico della minoranza che, a quel punto, è messa all’angolo in un dibattito che invece la riguarda in prima persona. Ai neri si deve solo spiegare come prenderla, come reagire, come ridere di certe gaffe o goliardate – altro modo per sminuire il razzismo – che si leggono spesso sui giornali. «Bisogna combattere il vero razzismo» dice spesso la maggioranza, ma c’è da chiedersi che strumenti abbia per analizzarlo se non riesce a coglierne le sfumature. A quel punto, la maggioranza si sente legittimata a non ammettere i propri sbagli, a dire di non essere come quello che picchia il ragazzo nero – perché è solo quello l’unico e vero razzismo – a snocciolare una lunga lista di amici, compagni o parenti neri, a raccontare di viaggi in Africa per dimostrare il proprio antirazzismo, senza rendersi conto che il meccanismo che silenzia i soggetti coinvolti rafforza il razzismo sistemico.

Si potrebbe pensare: «E allora ogni comportamento è razzismo». Ovviamente no, ma quello che per la maggioranza non è razzismo può esserlo per una minoranza. Rivolgersi a una persona nera con un «come parli bene l’italiano» di certo non è paragonabile a un’aggressione a sfondo razziale, può essere considerata una micro-aggressione dettata dal fatto che una persona nera italiana che parla italiano viene ancora percepita come inusuale. Rendersi conto di essere stati assuefatti per anni da una cultura che ha disumanizzato completamente le persone nere e che non le vede come parte integrante di questo Paese è il primo passo per decostruire le micro-aggressioni che fanno parte di un razzismo invisibile.

È chiaro a questo punto che la definizione di razzismo non può essere monolitica e non può essere letta solo sui dizionari perché la realtà è più complessa e in divenire. Il razzismo non è un blocco unitario e immediatamente riconoscibile, assume diverse forme a seconda dei contesti in cui la maggioranza entra in contatto con la minoranza. Una persona nera in un contesto a maggioranza bianca cresce con la consapevolezza che l’aspetto esteriore – il colore della sua pelle – sarà cruciale nel rapporto con gli altri, nei colloqui di lavoro, negli incontri per l’acquisto o l’affitto di un appartamento, sull’autobus, nei rapporti con le forze dell’ordine e perfino in ciò che riguarda la burocrazia – perché avere origini diverse comporta difficoltà immense nell’ottenimento dei documenti. Il razzismo è strutturale e gerarchico, è una piaga sociale che ha alle spalle la storia che ho provato a raccontarvi, una storia di colonialismo e segregazione. Successivamente il razzismo si è evoluto con la gentrificazione dei quartieri, la creazione di marginalità, l’emanazione di leggi liberticide che colpiscono le classi sociali più svantaggiate e razzializzate della società, la mobilità internazionale per pochi e la creazione delle frontiere. Infatti: «La frontierizzazione del pianeta è […] un’espressione paradigmatica delle politiche dell’inimicizia che governano il mondo, tracciando abissi di separazione tra coloro che godono dell’esercizio di diritti – proprietà, circolazione, sovranità […] – e coloro che non hanno diritto di avere diritti.»2

L’Italia è parte integrante di una realtà strutturalmente razzista: bisogna avere il coraggio di ammetterlo e benché sarebbe auspicabile che questa ammissione arrivasse anche dalla classe dirigente, la verità è che quest’ultima risulta essere noncurante, sorda e inattiva rispetto alle richieste che puntualmente vengono fatte da chi subisce le conseguenze di un sistema sbagliato e ingiusto. L’agenda politica, e questo vale per ogni Paese dell’Unione Europea, viene prima di qualsiasi diritto umano.

Non è normale dover affrontare viaggi che mettono a rischio la vita per arrivare in Europa, non è normale essere soggetti a leggi che non salvaguardano dallo sfruttamento, eppure il tutto viene banalizzato e accettato da un sistema in cui si aspetta solo la prossima notizia di un bracciante che muore carbonizzato in un ghetto perché le leggi italiane – e le “sanatorie” che non funzionano – non gli permettono di regolarizzarsi e condurre una vita decente. Accettare questo significa non solo essere consapevoli della presenza di una evidente piramide razzializzata, ma anche che non la si vuole distruggere. Si fa finta di niente, di razzismo si parla solo quando si crea il caso mediatico, e poi lo si ripone velocemente nel cassetto, senza farne un’analisi, senza capire quanto questi tragici episodi siano la conseguenza di un contesto che è una bomba a orologeria. Ciò accade perché prima di tutto il razzismo viene negato, trattato come una goliardata:

L’atto stesso di nominare il razzismo come elemento strutturale e sistemico della società italiana può essere inteso come un atto antirazzista, poiché il razzismo funziona anche attraverso il meccanismo della negazione: non è razzismo, è solo una battuta, uno scherzo, una ragazzata, un errore, frutto di ignoranza e così via. In questo modo chi denuncia è delegittimato/a, il suo vissuto non riconosciuto, e così si possono continuare a riprodurre comportamenti razzisti, senza che siano qualificati come tali.3

Questa negazione si concretizza anche, come abbiamo visto, nella banalizzazione del passato coloniale e nella deresponsabilizzazione completa sui retaggi e i rigurgiti coloniali che continuano a dominare il modo in cui viene percepita la storia dei corpi neri. Per questo motivo non ha senso parlare di “ignoranza” quando si parla di razzismo: troppo spesso si giustifica il razzismo parlando di semplice ignoranza. In realtà esso è continuamente alimentato, banalizzato e, infine, autoassolto dal sistema stesso.

Il razzismo è stato verità scientifica e sociale per secoli, è stato – e continua a essere – un metodo sistemico di esclusione e discriminazione. Il razzista non è ignorante del proprio razzismo, il razzista sa e compie attivamente determinate azioni che, a livelli estremi, si concretizzano nell’aggressione o nell’uccisione a sfondo razziale. Esiste solo un tipo di “razzista inconsapevole”, ed è l’indifferente che non vuole mettere in discussione il sistema in cui vive, o per comodità o per paura che cadano molte delle sue certezze.

Ad oggi possiamo dire solo che la decostruzione, unita a una lotta per i diritti sociali che contrasti le diseguaglianze, è necessaria perché è l’unico modo per riuscire a smantellare questo sistema. Solo con una ferrea presa di coscienza si riuscirà – chissà quando però – a cambiare un Paese culturalmente arretrato nel rapporto con le minoranze etniche e le migrazioni. L’Italia è poco aderente a una realtà sociale che – piaccia o no – sta cambiando: donne e uomini, ragazzi e ragazze di diverse origini hanno già riempito le piazze per protestare contro le ingiustizie subite; molti e molte stanno reclamando lo spazio che gli spetta, sia attraverso la cultura – proliferano articoli e libri che puntano alla decostruzione del razzismo – sia attraverso l’attivismo vero e proprio.

È necessario dare alla luce nuove narrazioni, cercando di comprendere un punto di vista differente e una diversa chiave di lettura della società in cui viviamo. Forse è il caso di concedersi qualche momento di silenzio, ascoltare e dare voce, spazio e visibilità alle persone che ci sono sempre state, ma che per troppo tempo sono state ignorate. Affinché non siano più dei corpi estranei.

1. A. Mbembe «Le racisme n’est pas un accident, c’est un écosystème», Quartier Général, 25 giugno 2020.
2. J. Mascat, «Achille Mbembe, frontiere e politiche dell’inimicizia», Il Manifesto, 3 dicembre 2019.
3. V. R. Corossacz e T. P. Njegosh, «Razzismo in Italia: oltre l’emergenza», Lavoro Culturale, 19 aprile 2019.

(continua in libreria…)

 

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