“Mi è capitato diverse volte nel corso della mia vita di essere considerata sì nera ‘ma diversa’ dagli altri neri, più italiana che ghanese. Anzi, forse durante il periodo pre-adolescenziale io stessa prendevo le distanze dalla comunità nera quando ero in mezzo ai miei amici italiani bianchi. Questo perché non ero particolarmente fiera di essere riconosciuta come africana…”. In occasione dell’uscita del suo romanzo d’esordio, “Sotto lo stesso sole”, su ilLibraio.it la riflessione di Anna Osei: “Sono convinta che a monte di tutto ciò ci sia la versione unilaterale della storia del continente africano. Proprio da lì bisognerebbe ricominciare, dai libri di scuola, dalle nozioni di storia, geografia e letteratura che vengono impartite a scuola”

“Entra in una lotta per amore verso la tua comunità e non per frustrazione verso chi ti opprime”. È una frase di Kemi Seba, un attivista del Benin, che, ora più che mai, sta diventando il mio mantra.
Può sembrare un po’ strano, ma non ho scritto Sotto lo stesso sole con l’intento di aprire un dibattito in materia d’adozione. Questo perché io non sono stata adottata e penso che lo spazio per parlare in modo approfondito di questa tematica vada lasciato a chi vive tale realtà in prima persona. Il mio scopo era un altro.

L’idea di raccontare di una protagonista nera adottata da una coppia bianca mi serviva per creare una situazione in cui due neri, identici agli occhi della società, fossero però molto diversi se non quasi opposti per tipo di vita. Steven difatti è nato e cresciuto in Africa. Marlene, invece, dell’Africa non ricorda quasi nulla ma anche quei rari sprazzi di memoria vengono costantemente svalutati dalla madre adottiva che, per protezione o paura, preferisce “vederla” più bianca che nera. E questo non fa altro che creare confusione nella testa di Marlene che, da una parte, vorrebbe riscoprire le proprie origini ma, dall’altra, ha difficoltà ad andare oltre ai pregiudizi che lei stessa ha verso gli immigrati di colore.

Mi è capitato diverse volte nel corso della mia vita di essere considerata sì nera “ma diversa” dagli altri neri, più italiana che ghanese. Anzi, forse durante il periodo pre-adolescenziale io stessa prendevo le distanze dalla comunità nera quando ero in mezzo ai miei amici italiani bianchi. Questo perché nonostante avessi avuto il privilegio di rimanere in contatto con le mie origini africane grazie alla chiesa in lingua twi e agli amici della comunità ghanese mantovana, al di fuori dei nostri momenti di incontro settimanale, non ero particolarmente fiera di essere riconosciuta come africana.

Noi neri di Mantova infatti (soprattutto noi cresciuti in città) eravamo soliti fare una cosa stranissima: al di fuori dei luoghi o delle occasioni in cui ci frequentavamo, ci salutavamo a stento fra di noi. Un cenno con la testa, mezzo sorriso, mezza occhiata. Quasi come se avessimo paura che le nostre frequentazioni “nere” potessero renderci meno italiani. Questa problematica io l’ho vissuta da figlia della “diaspora africana”.

Scrivendo il mio romanzo ho voluto perciò prendere la mia situazione personale ed elevarla all’ennesima potenza immaginandomi come avrei potuto affrontarla se fossi stata adottata. Per farlo, è stato utile ripensare alle volte in cui da animatrice o compagna di scuola ho avuto modo di condividere un’esperienza con qualche ragazzino mulatto o nero adottato da italiani. Ciò che ho osservato è che spesso e volentieri non cercavano un contatto con me (unica nera), bensì preferivano stare con gli italiani autoctoni. Anzi, in alcune occasioni ho assistito, e talvolta subito, a scene discriminatorie da parte di mulatti nei confronti di persone nere.

Credo che alla base di questo atteggiamento ci sia un grande problema di dispercezione del proprio sé. Lo spiega bene l’esperimento sociale chiamato “Doll test” realizzato per la prima volta negli Stati Uniti negli anni Quaranta dagli psicologi Kenneth e Maime Clark per comprendere il grado di integrazione sociale dei bambini neri nelle scuole. È stato poi riproposto nel 2016 in Italia in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale”.

Il test era molto semplice: due bambole, una bianca e una nera vennero poste dinnanzi a dei bimbi neri. Questi erano chiamati a indicare semplicemente le bambole alle quali attribuivano qualità positive e negative. I risultati parlavano chiaro: tutte le qualità positive vennero attribuite alla bambola bianca riservando così alla bambola nera quelle negative. Nell’esperimento non venne specificata la nazionalità dei bimbi, ma erano neri o mulatti. Questo dimostra che esiste un bias nella mente di chi vive in un Paese a prevalenza bianca ed è nato da genitori africani, o è figlio di coppie miste, oppure è stato adottato. Il comune denominatore di queste persone solitamente è l’astio nei confronti dell’Africa o, meglio, della propria identità afro-discendente.

Per questo mi preme ripetere che non ho pensato la mamma di Marlene così come la descrivo per puntare il dito contro chi adotta ma per enfatizzare quanto sia importante aiutare ogni bambino nato con l’Italia nel cuore e l’Africa sulla pelle a conoscere e ad amare anche il proprio lato afro-discendente. A mio avviso, però, questa responsabilità non spetta solo ai genitori. Molti genitori africani, infatti, fanno il possibile per impartire ai figli valori culturali africani e mi piace pensare che anche chi adotta o prende in affido (salvo eccezioni) un bambino afro-discendente non abbia come obiettivo primario quello di allontanare il proprio bimbo dalla propria comunità di appartenenza.

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Il problema spesso e volentieri dipende da come l’Africa viene dipinta comunemente nel nostro Paese. La mia impressione e la mia esperienza in prima persona mi suggeriscono che spesso se ne ha una visione distorta. L’Africa viene citata nei libri di storia principalmente per il periodo preistorico, per la schiavitù e per il colonialismo, mentre nei libri di geografia si parla di Africa nei termini di un continente per lo più “sottosviluppato” oppure si mostrano immagini di tribù particolari che non rispecchiano nella maniera più assoluta lo stile di vita della maggior parte dei cittadini degli stati africani. La conseguenza inevitabile è che i neri che vivono nel nostro Paese vengano percepiti come incivili e poveri.

Pensate dunque a come possa sentirsi un bimbo nero che cresca in Italia nei confronti delle sue origini apparentemente “miserabili”. Immagino si senta in modo del tutto analogo anche chi è stato adottato e magari ha vissuto circondato esclusivamente, come nel caso di Marlene, da una realtà fatta di persone dalla pelle bianca. Sono sicura che quello che accade a Marlene – l’insistenza con cui chi le è accanto le ricorda, in modo più o meno velato, quanto sia stata fortunata e quanto dovrebbe essere grata per essere stata “salvata” – accada a tanti ragazzi. Ragazzi che “dovrebbero” essere grati di essere in Italia, di far parte di una famiglia italiana e non una africana, composta da individui senza vestiti e con le mosche sul naso, così come prevede il nostro immaginario falsato.

Lo stesso discorso vale per chi, come la sottoscritta, fa parte della diaspora africana. Più o meno esplicitamente ci è stato ripetuto più volte che dovremmo ringraziare di essere in Europa e di avere un tetto sotto il quale vivere. E questo non fa altro che sottoporci alla pressione di dover sempre essere “perfetti” per non correre il rischio di essere considerati alla stregua di immigrati sovversivi dalle origini miserabili e, dunque, non degni dell’accoglienza occidentale.

Sono convinta che a monte di tutto ciò ci sia la versione unilaterale della storia del continente africano. Proprio da lì bisognerebbe ricominciare, dai libri di scuola, dalle nozioni di storia, geografia e letteratura che vengono impartite a scuola.

Di certo in questo modo si salvaguarderebbe maggiormente la salute mentale dei neri italiani. Se, per esempio, avessi avuto modo di imparare, a scuola, che, durante le epoche dello schiavismo e del colonialismo ci furono movimenti di uomini e donne africani che vi si opponevano, che resistettero, sicuramente non mi sarei sentita male tutte le volte che venivo sminuita in quanto nera poiché sarei stata consapevole che i miei antenati non avevano subito passivamente le atrocità alle quali vennero sottoposti. Al contrario, esiste ancora una narrazione “romanticizzata” del colonialismo, e per romanticizzata mi riferisco a frasi tipo: “Peccato, l’Italia non è riuscita a sottomettere nemmeno l’Etiopia. Gli inglesi invece si sono dati da fare, hanno colonizzato un sacco di Paesi”. Frasi del genere dovrebbero essere sostituite da altre che esprimano concetti diversi, come ad esempio che il colonialismo e lo schiavismo furono un’atrocità, perpetrata dai popoli occidentali e che, mentre si verificava questa atrocità, uomini e donne africane fecero di tutto per opporvisi e resistere.

Anna Osei, autrice del romanzo "Sotto lo stesso sole" (Mondadori)

Anna Osei, autrice del romanzo Sotto lo stesso sole (Mondadori)

Bisogna inoltre iniziare a prestare più attenzione alle parole. Troppo spesso per raccontare coloro che furono vittima di questi eventi drammatici si parla di “schiavi” mentre in realtà si dovrebbe usare il termine “schiavizzati”. Nei libri di geografia, parlando dell’Africa, la si definisce sottosviluppata. Si dovrebbe piuttosto dire che è in una fase di recupero e guarigione da ciò che ha subito non troppo tempo fa. Il tutto ricordandosi di celebrare anche i successi degli Stati africani. Steven, nel romanzo, ha un po’ la funzione di mostrare a Marlene tutto ciò che, di positivo, non si racconta mai dell’Africa e del mondo afro-discendente. Sicuramente, se ne avrò l’opportunità, cercherò di approfondire queste tematiche, rielaborandole in modo creativo, anche nei miei prossimi libri.

Dovremmo dunque tutti tornare a scuola o nelle biblioteche per “decolonizzare” le nostre menti. Solo in questo modo, i genitori (adottivi e non) di bambini neri o mulatti potranno dirsi pienamente equipaggiati per far fronte a chi, all’esterno del nucleo famigliare, cercherà di sminuire i loro bambini.

Il razzismo e l’ignoranza sono problematiche reali ma oggi non sono piύ sicura che certe persone possano cambiare. Per questo motivo ho deciso di concentrare la mia lotta su qualcosa che posso controllare, ovvero una narrazione più realistica e completa dell’Africa e delle realtà afro-discendenti. Se puntassimo di più ai fatti “realmente” accaduti, il bigotto potrebbe anche non cambiare idea ma avrebbe sicuramente meno basi per screditare l’Africa. Dall’altra parte, l’afro-discendente avrebbe meno difficoltà ad abbracciare orgogliosamente il proprio lato africano.

Questo, ripeto, potrà essere possibile solo a partire dal momento in cui riusciremo finalmente a raccontare l’Africa e il mondo afro-discendente in modo piύ completo e fedele alla realtà.
Sono grata a Mondadori Editore di avermi dato la possibilità di iniziare a farlo tramite il mio romanzo Sotto lo stesso sole. Spero che i ragazzi e le ragazze neri di oggi e di domani possano ritrovarsi sotto mano sempre più libri con protagonisti nei quali rispecchiarsi con fierezza, e che questo possa aiutarli a superare una volta per tutte crisi identitarie e carenza di autostima.

Copertina del libro Sotto lo stesso sole

IL LIBRO E L’AUTRICE Sotto lo stesso sole (Mondadori), il romanzo di esordio di Anna Osei, racconta la storia di Marlene, una ragazza di vent’anni, intelligente, bella, amata da due genitori adottivi che possono darle tutto ciò che potrebbe mai desiderare. Eppure quel “tutto” col tempo è diventato un peso. Perché la fa sentire in dovere di dimostrare costantemente al mondo che il suo arrivo ha portato valore alla sua famiglia.

Lei che per chi guarda dall’esterno resterà sempre e comunque la bimba dalla pelle nera proveniente da chissà quale villaggio sperduto dell’Africa salvata da una coppia facoltosa, una creatura disagiata che avrà sempre bisogno di una mano bianca per potersi far valere.

Quando per un progetto universitario inizia a frequentare la Caritas della sua città, incappa in Steven, un giovane nigeriano dagli occhi azzurri approdato in Italia con il sogno di un futuro a misura delle sue ambizioni. Per lui, che ha alle spalle un passato difficile e un presente tutto in salita, Marlene è una boccata d’aria fresca. Per lei, Steven è l’occasione per prendere finalmente contatto con le sue radici. Per entrambi, poi, conoscersi rappresenta una sfida e un’opportunità.

Frequentandosi scopriranno quanto, anche per loro, è difficile andare oltre le facili etichette e i pregiudizi, che, quando trovi la persona giusta, vale la pena mettere a nudo le proprie fragilità, e soprattutto che non devono mai smettere di lottare per costruirsi una vita il più fedele possibile alla loro anima, scaldati da uno stesso sole che li accompagna passo dopo passo, incurante delle distanze e delle differenze.

“Mi fermo ancora un attimo a specchiarmi e vedo una giovane donna nera. Sono afrodiscendente. Così dicono i miei occhi, i miei tratti. Sono afrodiscendente ma di africano ho solo… i discendenti. L’Africa c’entra poco con me, ce l’ho soltanto impressa sulla pelle. L’Africa la ricordo lontanamente, qualche suono, odore…”

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