“La prima volta che ho letto ‘L’isola riflessa’ è stata sette anni fa. Da poco – anche quella una prima volta – ero stato a Ventotene, per sopralluoghi letterari, prove dal vivo del mio romanzo sul confino. Di recente, in vista del ritorno – l’ennesimo, da allora – sull’isola, ho riletto quel libro di Fabrizia Ramondino, e di nuovo mi sono soffermato su un passaggio, quello in cui l’autrice accosta, anzi, sovrappone Ventotene a Buchenwald…”. Inizia così la riflessione di Wu Ming 1 che proponiamo integralmente su ilLibraio.it, e che è stata scritta durante la 14esima edizione del Festival Letterario di Ventotene Gita al faro

Il testo inedito di Wu Ming 1 qui di seguito è stato scritto durante la quattordicesima edizione del Festival Letterario di Ventotene Gita al faro, diretto da Loredana Lipperini, ideato e organizzato da Francesca Mancini, Laura Pesino e Vania Ribeca, promosso dall’Associazione per Santo Stefano in Ventotene Onlus, in collaborazione con la Libreria Ultima Spiaggia, con il patrocinio del Comune di Ventotene, della Lega Navale Italiana e il supporto della Lega Navale di Ventotene. Partner del festival Intesa Sanpaolo.

SETTIMO: APPUNTI PRELIMINARI

di Wu Ming 1

La prima volta che ho letto Lisola riflessa è stata sette anni fa. Da poco – anche quella una prima volta – ero stato a Ventotene, per sopralluoghi letterari, prove dal vivo del mio romanzo sul confino.

Di recente, in vista del ritorno – l’ennesimo, da allora – sull’isola, ho riletto quel libro di Fabrizia Ramondino, e di nuovo mi sono soffermato su un passaggio, quello in cui l’autrice accosta, anzi, sovrappone Ventotene a Buchenwald. Sovrappone, perché fa combaciare le metrature dei due luoghi, come ponendo due mappe una sopra l’altra.

La superficie del campo di concentramento di Buchenwald, considerando le baracche, le costruzioni delle SS, i luoghi di lavoro, la ferrovia speciale per arrivarvi, è piú o meno simile a quella dell’isola. Il campo fu creato appena qualche anno prima di quello dei confinati di Ventotene.

È vero: Buchenwald nel 1937, la cittadella confinaria a Parata Grande nel 1939. Ramondino non sta equiparando, non dice che stare al confino qui, dove subivi angherie quotidiane e soffrivi ma ti industriavi a tirare innanzi, fosse come stare a Buchenwald, dov’eri disumanizzato e tiravi le cuoia sfibrato, annichilito dal lavoro coatto. No, Ramondino ci indica un comune denominatore nell’essere costretti, isolati e negati al mondo in circa due chilometri quadrati.

Perché quel passaggio continua a colpirmi?

Il nome «Buchenwald» – in tedesco vuol dire «bosco di faggi» – ricorre nelle memorie di famiglia. Per molti anni si è detto che mio nonno Settimo, morto quand’ero piccolo, era stato deportato a Buchenwald.

Ho scoperto che non è proprio così, ma… quasi.

Sto provando a ricostruire quella storia. Sono solo al principio e non è facile. Ogni testimone è morto, e i documenti che ho sono ancora troppo pochi. Nella mia casa natale, al paesello, ho trovato copia autenticata del suo foglio matricolare, spedita nel ‘91 alla vedova, mia nonna, con apposto un timbro: «Da servire esclusivamente per uso pensione».

Grazie alla mia amica Mirna, che sta a Berlino e si muove con agio negli archivi tedeschi, ho ottenuto altri documenti dal Bundesarchiv.

Sehr geehrte Frau Campanella,

in merito alla Sua richiesta, Le comunico che i documenti dell’ex Ufficio informazioni della Wehrmacht sui prigionieri di guerra stranieri in custodia tedesca furono sequestrati nell’aprile del 1945 e presi in carico da una commissione di ufficiali alleati.

Presso lArchivio federale, sezione Informazioni sul personale militare, sono disponibili solo i documenti sui prigionieri di guerra stranieri che, dopo la guerra, furono trasferiti alla Deutsche Dienststelle – Ufficio informazioni della Wehrmacht da altri uffici e ulteriori istituzioni. Si tratta di un milione e mezzo di schede, ordinate alfabeticamente per nazioni e nomi, non per campi o località.

Dopo aver esaminato questi documenti, sono stati identificate le seguenti schede riguardanti Settimo BUI, nato il 21.02.1920 a Dogato.

Le invio le scansioni corrispondenti in allegato.

Settimo, classe 1920, fa il servizio militare nel 1938.

Congedato nell’aprile del ‘39, è richiamato alle armi meno di un anno dopo, il febbraio del ‘40. Assegnato al 26° Reggimento Artiglieria di Corpo d’Armata, apprende che lo manderanno in Albania. Da poco l’Italia fascista ha invaso quel Paese, annettendolo al Regno di Vittorio Emanuele III, soprannominato «Sciaboletta» per via della bassa statura. In capo a pochi anni si guadagnerà un altro appellativo, il «re fellone». Tempo al tempo.

Il 10 febbraio Settimo è imbarcato a Bari, il giorno dopo approda a Durazzo e prosegue verso la frontiera greco-albanese.

Il 10 giugno Mussolini annuncia l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Le ultime frasi del suo discorso diventano subito una martellante canzonetta, Vincere!, testo di Mario Zambrelli, musica del maestro Aristodemo Nuzzi. Vincere! Vincere! Vincere! / E vinceremo in terra, in cielo, in mare! / È la parola d’ordine / d’una suprema volontà!

A ottobre, all’improvviso, Settimo e i suoi commilitoni vengono scagliati nella «campagna di Grecia», attacco proditorio a un Paese che non ha fatto nulla per provocarlo. L’avventura inizia malissimo, con l’Italia che s’impantana in Epiro, subisce una controffensiva e si fa umiliare, tanto che Hitler, per togliere le castagne del duce dal fuoco – o meglio, dal fango – dovrà invadere i Balcani. Solo a quel punto la Grecia verrà presa.

Settimo combatte nella logorante battaglia di Tepeleni, che dura dal gennaio al marzo del ‘41. Nei mesi seguenti risulta più volte ricoverato, in tre diversi ospedali da campo. Il foglio matricolare non indica i motivi.

Dopo, non se ne hanno tracce precise. Di sicuro è ancora in Grecia il 25 luglio del ‘43, quando Mussolini cade e diventa capo del governo il generale Badoglio, che si premura di annunciare: «La guerra continua».

Altrettanto di sicuro, Settimo è ancora in Grecia la sera dell’8 settembre, quando sul groppone di ogni soldato e marinaio italiano, su qualunque fronte stia combattendo, cala repentino l’Armistizio. L’Italia si sfila dall’Asse e firma con gli Alleati una resa senza condizioni.

Il 9 settembre, il sole non è ancora sorto su Roma quando re Vittorio, Badoglio e tutti i ministri tagliano la corda, diretti verso Brindisi, lasciando l’esercito senza ordini, la città sguarnita, la popolazione in grave pericolo, con l’occupazione tedesca che incombe.

In Grecia, poche ore dopo, il generale Vecchiarelli ordina a tutta l’XI Armata di consegnare le armi ai tedeschi.

C’è chi si rifiuta, si oppone, resiste, come a Cefalonia, o a Lero. Qualcuno è trucidato seduta stante, come gli uomini della Divisione Acqui, qualcun altro viene fatto prigioniero e sarà ucciso più tardi, in Italia, dalla giustizia del nuovo stato-fantoccio filo-nazista, la Repubblica sociale, detta «di Salò». È la sorte dell’ammiraglio Mascherpa, processato e fucilato a Parma nel maggio del ‘44.

Secondo il foglio matricolare, mio nonno è fatto prigioniero dai tedeschi il 9 settembre.

Una delle schede giunte dalla Germania dice però: «Gefangennahme: sechzehn Februar neunzehnhundertvierundvierzig», cioè: «Cattura: 16 febbraio 1944».

Strana discrepanza. Se la data giusta è la seconda, cosa fa mio nonno da settembre a febbraio, quattro lunghi mesi, uccel di bosco nella Grecia occupata dai nazi?

Sul frontespizio di un libro che gli è appartenuto – una selezione delle lettere di Gramsci pubblicata dagli Editori Riuniti nel 1956 – Settimo scrisse di suo pugno la frase: «iscritto al P.C.G. il 27 novembre 1943». Dunque mentre era in Grecia. E dopo la data in cui, stando al foglio matricolare, fu catturato.

Per cosa può stare P.C.G, se non per Partito comunista greco? Il KKE, Κομμουνιστικό Κόμμα Ελλάδας era ovviamente in clandestinità, e guidava la Resistenza.

Delle due una: o non l’hanno catturato fino a febbraio, e allora ha fatto il partigiano coi comunisti greci – cosa che però in famiglia non si è mai detta – o l’hanno catturato il 9 settembre, e allora è diventato membro del KKE clandestino mentre era prigioniero, numero di matricola 8037, in un campo di transito vicino al Pireo, il Dulag 135.

Nel luglio 1944 lo trasferiscono in Germania. Settimo è uno dei quasi settecentomila IMI, internati militari italiani. Il Reich non li considera normali prigionieri di guerra per cui valga la Convenzione di Ginevra. Sono fedifraghi, combattenti di un Paese che, col voltafaccia dell’8 Settembre, ha tradito la Germania. La loro condizione è ibrida, dunque precaria: a metà tra i prigionieri di guerra e i prigionieri politici. Nei campi subiranno vessazioni di ogni tipo e soprattutto patiranno la fame, una fame nera, sempre più nera.

A meno che non giurino fedeltà a Salò e si arruolino nel suo esercito. Per chi lo fa, si aprono i cancelli del lager e la via del rimpatrio. Ma lo fanno in pochissimi, più o meno in diecimila. Tutti gli altri, ufficiali e truppa, si rifiutano. Ne hanno avuto abbastanza del fascismo e della sciagurata alleanza con la Germania. Manterranno la posizione con fermezza, fino al termine della guerra, accogliendo con derisione e disprezzo i reclutanti fascisti che, sotto scorta tedesca, vanno per i lager facendo propaganda, blandendo, minacciando.

Va detto con chiarezza: gli IMI, rifiutando di aderire a Salò, privano il nazifascismo di oltre mezzo milione di uomini. Il loro rifiuto è in tutto e per tutto parte della Resistenza.

Il 19 luglio 1944 Settimo arriva allo Stalag IX B, a Bad Orb, in Assia.

Il campo è in cima a una collina chiamata Wegscheideküppel, più o meno «cima del crocicchio», e ha una peculiarità: i prigionieri sovietici vi muoiono come mosche, a migliaia. Nemmeno per loro vale la Convenzione di Ginevra, e sono trattati da subumani.

Non che gli altri stiano bene: crepare di inedia è all’ordine del giorno. Il rancio è solo una rada zuppa, forse di rape, che tutti ricorderanno vomitevole, e a volte qualche patata. I prigionieri non hanno piatti né posate, si arrangiano sorbendo la brodaglia nei loro elmetti o in vecchie latte mezze schiacciate. Il campo è sovraffollato e la maggior parte degli uomini dorme per terra. La dissenteria imperversa e le latrine hanno solo quaranta buche per quarantamila prigionieri. Merda, pidocchi, piattole, infezioni, e su tutto ciò regna sovrana la fame.

Per Salò, il fatto che settecentomila famiglie abbiano i loro cari chiusi nei lager è una spina nel fianco: non stimola certo il consenso per i tedeschi. Per questo Mussolini fa pressioni, cerca di rendere la situazione meno imbarazzante.

A fine luglio, gli IMI sono riclassificati come lavoratori civili, Zivilarbeiter.

«Civili» vuol dire che non godranno delle (minime) tutele da parte della Croce rossa; «lavoratori» vuol dire che andranno ai lavori forzati, ma almeno si potrà dire che i nostri ragazzi sono in Germania a lavorare.

In realtà, la maggioranza degli IMI si rifiuta di farlo. Un vero e proprio sciopero di massa, che prosegue anche quando, per costringerli, le autorità dei campi ridurranno i viveri fin quasi a zero. O lavori o muori, ridotto a un sacco di pelle con dentro le tue ossa.

Negli ultimi mesi di guerra, per salvarsi la vita alcuni accetteranno. La posizione è stata difesa, gli Alleati e l’Armata rossa stringono il Reich a tenaglia, il nazismo è ormai allo sbando, a che vale morire? Saranno ricordati come «volontari della fame». La fame, sempre la fame. Ma sto precorrendo i tempi.

Il 16 agosto Settimo è trasferito allo Stalag IX-C, a Bad Sulza, in Turingia, dove i prigionieri, organizzati in Arbeitskommandos, sono costretti a lavorare nell’industria bellica, nell’agricoltura e nelle miniere di potassio a sud di Muehlhausen.

Lo Stalag ha diversi sottocampi, gli internati italiani sono in quello di Molsdorf.

In linea d’aria, Buchenwald è a metà strada tra Bad Sulza e Molsdorf.

Vicinissimo, tanto che a volte quei campi sono descritti come suoi satelliti. Non è corretto dal punto di vista amministrativo, ma è sensato da quello geografico.

Di sicuro è per questo che, in famiglia, ci si ricorda che mio nonno era a Buchenwald. Lo avrà detto lui stesso, per farsi capire. Da noi, a Dogato, chi mai aveva sentito parlare di Molsdorf o di Bad Sulza?

Un altro dettaglio tramandato in famiglia: in lager con mio nonno c’era un attore americano. Mia nonna diceva «Tyrone Power» – proprio lui, il padre di Romina – ma non quadra: è vero che Power combatté in guerra, ma sul fronte del Pacifico, a Iwo Jima e Okinawa, e non fu mai fatto prigioniero.

E poi, in quale lager? Probabilmente al IX-B, visto che al IX-C angloamericani e italiani erano in due strutture diverse, distanti chilometri l’una dall’altra.

In lager con Settimo, si rammenta, c’era anche un tenore italiano di nome Florio, che spesso cantava per i compagni. La sua hit era Mamma, di Bixio e Cherubini. Per tutta la sua breve vita – è morto a soli 59 anni – Settimo, ogni volta che sentiva quel pezzo, si commuoveva.

Mamma son tanto felice, perché ritorno da te.

Una mamma da cui tornare non l’aveva: mia bisnonna Antonietta era morta quando lui era piccolo, a soli 44 anni, dopo (almeno) undici parti.

Ho cercato tracce di questo Florio, finora invano.

Il 29 marzo 1945 lo Stalag IX-C è evacuato dai tedeschi e i prigionieri sono costretti a marciare verso ovest, incalzati dall’avanzata sovietica. Una delle cosiddette «marce della morte». Dura settimane, una vera e propria falcidia, finché i superstiti non vengono liberati da unità Alleate.

Si legge però che qualcuno rimase a Bad Sulza, dove fu liberato dalla 3a Armata USA.

Ovunque si trovasse, nel foglio matricolare si legge che Settimo fu liberato l’8 maggio 1945.

Trattenuto per due mesi dagli Alleati, fu rimpatriato il 19 luglio, dopo cinque anni e mezzo da quand’era partito.

Non è stato a Buchenwald, dunque, ma quasi.

Del suo periodo da internato ha sempre raccontato poco.

Il più delle volte, parlava della fame.

La fame tornava sempre.

E a quelli come mio nonno andò meglio che ad altri.

Come hanno fatto notare altri ex-IMI, stare in un campo di prigionia, pur con tutti i patimenti e i soprusi, non era come stare in un campo di sterminio. Lo Stalag IX-C non era Auschwitz-Birkenau o Bergen-Belsen. Molti italiani morirono nei campi, ma non fu un genocidio.

Se arriviamo all’oggi, a molte popolazioni civili va peggio che ai nostri IMI. In primis a quella palestinese, soprattutto quella di Gaza, affamata per calcolo, per precisa strategia, per volontà di cancellare un popolo.

Un conto è patire la fame tra commilitoni, stringere la cintura o quel che ne fa le veci, sperando di tornare a casa, dalla famiglia, mamma, son tanto felice, viver lontano perché?

Un altro conto è che con te la patiscano i tuoi cari, i tuoi bambini, la tua vecchia madre, e la patiscano senza una casa a cui tornare, perché la tua città è stata rasa al suolo. Vedere la tua bimba deperire, sapendo di non poterci fare niente. Il sovrappiù di afflizione e disperazione è indicibile, spezza le parole prima ancora che possano formarsi.

Quando negli Stalag distribuivano la zuppa, i tedeschi non piazzavano cecchini a fare il tiro a segno su chi stava in fila, come è invece accaduto più volte, anche pochi giorni fa. Le autorità degli Stalag, come altri poteri prima e dopo di loro, usavano il cibo come ricatto. A Gaza si è un passo oltre: la distribuzione di cibo come trappola crudele e beffarda, schifoso accanimento su chi è già allo stremo.

Mio nonno ricordò la fame sofferta in Germania per tutta la vita, come le ex confinate e gli ex confinati ricordarono quella sofferta a Ventotene, quando le vicende della guerra interruppero i rifornimenti, la nave smise di arrivare, i sensi cominciarono ad attutirsi, i corpi a rattrappirsi…

Abbiamo questi precedenti, e sono utili, eppure non possiamo figurarci, perché è oltre l’immaginabile, come le persone che riusciranno a salvarsi ricorderanno, un giorno, la fame sofferta a Gaza.

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L’AUTORE – Wu Ming 1 fa parte del collettivo Wu Ming, con cui ha scritto svariati romanzi, tra i quali Q, 54, Manituana, Altai, L’Armata dei Sonnambuli, L’invisibile ovunque, Proletkult e Ufo 78. Come singolo autore ha scritto per Einaudi New Thing (2004), Point Lenana (con Roberto Santachiara, 2013), Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav (2016), La macchina del vento (2019) e Gli uomini pesce (2024). La sua penultima opera solista è La Q di Qomplotto (Alegre, 2021). È cittadino onorario di Mompantero, Val di Susa. Il sito di Wu Ming si chiama Giap.

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