L’autrice Yaa Gyasi, nata in Ghana e cresciuta negli Stati Uniti, in libreria con il suo secondo romanzo, intitolato “Protezione”: la storia feroce, bruciante e onesta di una donna americana di origini africane alle prese con le macerie di un passato personale e collettivo, la cui sofferenza può essere alleviata forse solo dall’affetto, solo dalla protezione, per l’appunto, che si dà e che si riceve

Ha esordito nel 2016 con Non dimenticare chi sei (portato in Italia l’anno successivo da Garzanti, nella traduzione di Valeria Bastia), e nel giro di poco tempo è diventata un’autrice pluripremiata negli Stati Uniti e pubblicata in tutto il mondo a soli 26 anni.

Parliamo di Yaa Gyasi, nata nel Ghana e cresciuta nello Stato americano dell’Alabama, che ora torna nelle librerie italiane con il suo secondo romanzo, intitolato Trascendent Kingdom in inglese e Protezione in italiano (Garzanti, traduzione di Valeria Bastia): un viaggio nel cuore oscuro dell’America moderna, che racconta la storia di una giovane donna contemporanea alle prese con le macerie di un passato personale e collettivo.

Copertina del libro Protezione di Yaa Gyasi

Protagonista è Gifty, brillante dottoranda in neuroscienze all’Università di Stanford, che trascorre le sue giornate facendo esperimenti su dei topolini in grado di riportare subito alla mente certe atmosfere dello Steinbeck di Uomini e topi, e che è convinta di poter trovare nell’origine biologica di ogni stato d’animo la soluzione a malesseri, ricordi negativi e difficoltà interiori, nonostante la morte per tossicodipendenza di suo fratello e l’allontanamento di un padre affettuoso ma fragile suggeriscano il contrario.

“Perlopiù nel mio lavoro parto dalle risposte, da un’idea dei possibili risultati”, racconta infatti il personaggio. “Se mi viene il sospetto che ci sia del vero, allora mi attivo, faccio esperimenti e aggiusto il tiro finché non trovo quanto sto cercando”, spiega non a caso la giovane donna (e voce narrante in prima persona). “Come si fa, però, a sapere quando si è vicini alla verità o si sta brancolando in un vicolo cieco? Cosa si fa quando si scopre che la strada di mattoni gialli che si sta percorrendo da anni in realtà conduce dritto dentro l’occhio del ciclone?” (p. 160).

A queste domande Gifty (il cui nome è simile all’inglese gifted, traducibile con ricevuto in dono – perché sua madre resta incinta di lei quando ha ormai 40 anni e non se lo aspettava più -, ma traducibile anche con brillante, dotato di talento) non può che rispondersi accettando il fatto che la realtà è forse più complessa di una formula chimica, come capisce quando sua madre si trasferisce da lei.

La donna, depressa e ormai lontana dalla comunità ghanese di cui faceva parte, porta infatti Gifty a prendersi cura di lei e a ripensare le proprie abitudini per non destabilizzarla. E inaspettatamente è grazie a questo tentativo di andarle incontro pur di farla sentire più vicina al suo Paese d’origine, che la giovane protagonista ristabilisce un contatto diretto anche con sé stessa e con il suo vissuto.

Rievocandolo nel ricordo, e riattraversandolo, Gifty arriva così al cuore del suo dolore familiare, butta ogni scheletro fuori dall’armadio e capisce cosa è successo realmente, com’erano le persone intorno a lei prima di lasciarla, quale direzione potrà prendere il suo futuro grazie a questa analisi e accettazione di un passato diviso tra due luoghi e culture.

Per riuscirci, con una lingua elegante che però non pretende mai di esserlo, sovrappone tanti episodi di piani temporali sempre diversi, servendosi addirittura del suo diario di bambina. In tal modo, per gran parte della vicenda, non è chiaro se Gifty sia sempre altrove rispetto al baricentro della sua vita, o se proprio girare intorno ai lutti e ai tragici destini dei suoi cari si possa rivelare infine una chiave, forse l’unica, attraverso cui penetrare davvero la verità – un po’ come accade spesso con la vita, che ci spiega solo dopo il senso di quel capitolo in cui ci ha fatto tuffare poco tempo prima.

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Fin dall’inizio, la giovane contrappone allora il rapporto lucido e ben delimitato con la scienza a quello più irrequieto e contraddittorio con Dio: la sua esistenza è messa in discussione di continuo con toni irriverenti, eppure pagina dopo pagina viene tirato in ballo come se fosse una presenza cruciale nel romanzo, come se potesse rispondere alle domande che gli vengono poste, come se da lui dipendesse l’idea di mondo della protagonista.

Di conseguenza,in conclusione, a risultare certa è la necessità di smettere di inseguire le evidenze scientifiche per ripercorrere continenti e generazioni: le memorie che Gifty riporta a galla sono infatti un miscuglio di consapevolezze e di fantasie interiori, e probabilmente sono costruite così nel tentativo di guardare a ogni evento attraverso un filtro protettivo, che la tenga al riparo ma che, soprattutto, le permetta una comprensione rotonda e senza spigoli della vita.

Forse non totalmente esaustiva, ma di certo più accogliente e, soprattutto, in grado di farle percepire finalmente quella protezione di cui era sempre andata in cerca.

“Dalla panca in fondo, il viso di Cristo mi giunge come il ritratto dell’estasi. Mentre lo fisso, però, ecco che cambia, passa dalla rabbia al dolore alla gioia. Certi giorni rimango lì seduta per ore, altri solo qualche minuto, ma non chino mai la testa. Non prego, non aspetto di sentire la voce di Dio, mi limito a guardare. Seduta in quel silenzio benedetto, mi abbandono ai ricordi. Cerco di mettere ordine, di trovare un senso, di dare un significato a tutto quel marasma. Prima di andarmene, accendo sempre due candele” (p. 262).

Fotografia header: GettyEditorial 05-10-2021

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