Libro di culto di Raymond Queneau, “Zazie nel metró” unisce sperimentazione e formazione, lo stile surreale ai giochi linguistici. Ecco una serie di motivi per (ri)leggere questo romanzo (pubblicato per la prima volta in Italia nel 1960) considerato un classico moderno della letteratura francese
Un esperimento letterario, un romanzo d’avanguardia, un libro di culto che diventa presto classico moderno della letteratura francese…
Zazie nel metró (pubblicato da Einaudi, con la traduzione di Franco Fortini) è un testo da riscoprire a più di sessant’anni dalla sua uscita.
Ma che cosa rende speciale la storia di una bambina, Zazie, che vaga per Parigi, accompagnata da personaggi particolari e folli?
Ecco cinque ragioni per cui leggere (o rileggere) questo celebre romanzo sopra le righe, scritto da Raymond Queneau.
1) Il linguaggio della narrazione
“Doukipudonktan”. Così inizia il romanzo nella versione originale, pubblicata da Gallimard nel 1959. Una parola lunga, strana e apparentemente priva di significato, ma che, invece, si rivela essere la trascrizione fonetica dell’esclamazione di Gabriel, zio della protagonista, arrivato alla stazione per accogliere la nipote. Nell’edizione italiana, si risolve con un “Macchiffastapuzza” e, in entrambi i casi, assistiamo al primo gioco linguistico di Raymond Queneau.
Leggere Zazie nel metró significa incontrare un linguaggio unico e complesso, il francese (e di conseguenza l’italiano) formale si alterna al gergo più popolare, inglesismi e forme dialettali arricchiscono il parlato.
Queneau realizza un testo di alta letteratura senza però piegarsi al canone, si appropria della lingua spargendo per il romanzo neologismi e storpiature – “sei ormosessuale?” chiede sempre Zazie allo zio.
Un altro elemento di rottura è l’utilizzo di una scrittura che sembra ricalcare quella di un testo teatrale. Come in un copione, Queneau si rivolge ai suoi stessi personaggi e non a chi legge, suggerendo loro gesti e pause da compiere.
– Sainte-Chapelle, – cercavano di dire. – Sainte-Chapelle…
– Sì, Sì, – disse Gabriel, affabilmente. – La Sainte-Chapelle (silezio) (gesto) un gioiello dell’arte gotica (gesto) (silenzio).
Sebbene a volte sia ambiguo e complesso, il linguaggio di Queneau permette di entrare in una storia tanto divertente quanto significativa, e di empatizzare con Zazie.
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2) Il sogno di Parigi
Come nel Godot di Beckett, il titolo è fuorviante. Perché, se da un lato Vladimir ed Estragon aspettano (ma non incontrano) il celebre Godot; qui, Zazie, sulla metropolitana parigina non salirà mai. Uno sciopero blocca la circolazione e il desiderio dell’impertinente Zazie, ma non la sua stramba scoperta della Ville Lumière.
La Parigi di Zazie è una città incerta, solo in parte turistica e nota. È fatta di vie e strade laterali, solo ogni tanto di piazze principali, ma esprime perfettamente la diversità e l’eccentricità della metropoli… opposta alla campagna da cui proviene la bambina.
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Lungo il racconto, l’ambiguità tocca anche la geografia: quello che per Gabriel è il Pantheon, per l’amico tassista è la Gare de Lyon, la Sainte-Chapelle è confusa con il Tribunale di Commercio e l’hôtel des Invalides potrebbe essere la caserma di Reuilly… viene quasi da domandarsi se siano i protagonisti a spostarsi, oppure i monumenti stessi.
L’unica certezza è la Tour Eiffel, spazio sopraelevato dove Zazie questiona sulla sessualità dello zio e poi su quella del tassista. Ma è anche sfondo per il monologo di Gabriel, nel quale viene pronunciata una delle frasi più famose del romanzo.
“Parigi è solo un sogno, Gabriel è solo un’ombra (incantevole), Zazie il sogno d’un’ombra (o di un incubo) e tutta questa storia il sogno di un sogno, l’ombra di un’ombra, poco più di un delirio scritto a macchina da un romanziere idiota”.
Parigi, città nella quale Queneau ha vissuto e frequentato personaggi come Jacques Prévert e Man Ray, diventa protagonista e spettatrice delle vicende di Zazie, specchio della cultura ma anche della stravaganza.
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3) L’ambiguità dei personaggi
Ogni storia ha i suoi eroi, ogni libro i suoi protagonisti. Zazie nel metró segue questa stessa logica presentandoci: Zazie, prima voce indiscussa, Gabriel, seconda voce (comica), Marceline, la sua compagna; e poi Charles il tassista, un pappagallo “parlante”, una “vedova consolabile” e un poliziotto, unico vero antagonista.
Ma se, come abbiamo visto, i monumenti parigini sono ambigui, lo sono anche i ruoli dei personaggi del romanzo.
Zazie è una bambina, una figura che dovrebbe dipendere dagli adulti e da questi essere guidata, e invece la ritroviamo impertinente, perentoria, dal linguaggio scurrile e dal modo imperativo. Zazie detta ordini e non fa domande, dà giudizi – e qualche pizzicotto – ma non opinioni. È il cuore, impazzito, della storia (e già lo si capiva dal titolo).
Oltre alla bambina, anche gli uomini e le donne che appaiono in scena divertono, giocano, confondono chi legge. Si oppongono alla piccola tiranna e poi la corteggiano, la odiano e la amano. Queneau sovverte ogni logica e ogni ruolo.
E di esempi se ne possono fare molti. Basti pensare a Gabriel, scambiato sempre per omosessuale e chiamato “zia”, oppure al personaggio di Turandot, che vuole entrare nella gabbia e “scambiarsi” con il suo pappagallo pur di sfuggire alla polizia negli ultimi capitoli della storia.
La rocambolesca fuga dei protagonisti si conclude positivamente, con il ricongiungimento di Zazie e di sua madre alla stazione, quando la giovane protagonista riassume i due giorni appena trascorsi:
-Allora, ti sei divertita?
-Così.
-L’hai visto, il metrò?
-No.
-E allora, che cosa hai fatto?
-Sono invecchiata.
Una confessione che trasforma Zazie nel metró (anche) in un romanzo di formazione.
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4) L’ironia della storia
Più che sulla metropolitana, Zazie nel metró è un giro sulle montagne russe, complici il linguaggio e l’ambigua geografia. Ma soprattutto è una storia scritta per sorprendere, stranire, allontanarsi dal canone.
Una commedia surreale nella quale Zazie incontra personaggi strambi, coi quali nascono dialoghi ancora più assurdi. Al mercato come in strada, con perfetti sconosciuti o con la mamma, Zazie è l’espressione del sovvertimento di ogni logica: non ci sono momenti tristi, e le poche righe che sembrano raccontare qualcosa di drammatico sono descritte in modo scherzoso e divertente, quasi come delle boutade. Nonostante questo, il viaggio, metaforico e letterale, della protagonista è un perfetto saliscendi.
Due episodi su tutti evidenziano la folie del romanzo: mentre mangia patatine e beve birra, Zazie racconta del tragico episodio che ha per protagonisti i suoi genitori senza battere ciglio, trasmettendo un’ironia che solo la ragazza riesce a cogliere. E lasciando di stucco chi legge, come chi ascolta.
– Si ricorda della sarta di Saint-Mortron che spaccò il cranio di suo marito con la scure? Bene, era la mamma. E il marito, naturalmente, era il papà –
E non è molto diverso il momento della dipartita della vedova Mouaque: Queneau risolve in poche righe una sparatoria inverosimile, lasciando alla stessa vittima la battuta finale.
-Che stupida, – mormorò. – Proprio io, che avevo dei risparmi.
E muore.
Leggendo Zazie nel metró ci si imbatte in stranezze e dubbi, ma fa tutto parte dello stile sperimentale di Queneau, tra classicità e parodia: l’autore racconta una storia di crescita e dimostra tutte le infinite possibilità linguistiche e narrative del francese.
5) L’autore: Raymond Queneau
Un motivo per il quale leggere Zazie nel metró è l’autore stesso. Uno scrittore che da Le Havre, sua città natale, si sposta a Parigi per studiare, si avvicina al surrealismo e diventa amico di André Breton, fondatore del neonato movimento. L’influenza avanguardistica si conserva nello stile di Queneau anche quando l’autore si allontana da Breton.
Negli anni ’30 studia filosofia, in particolare Hegel, scrive alcuni articoli e lavora a diverse traduzioni. Negli anni della Guerra collabora con Gallimard e riveste un ruolo sempre più importante tra gli intellettuali rimasti nella capitale francese durante l’occupazione.
Il periodo successivo è caratterizzato dalla sperimentazione che trascende la letteratura: Queneau si reinventa pittore, sceneggiatore e scrittore di canzoni. Si dedica allo studio della matematica, un campo che utilizza per trovare nuova ispirazione durante la scrittura. Il connubio tra il sapere matematico e quello letterario si esplicita nella stesura degli Esercizi di stile (Einaudi, a cura di Stefano Bartezzaghi, traduzione di Umberto Eco), la prima versione è del 1947 mentre l’ultima edizione, rivista e ampliata, è datata 1973.
Ancora più rilevante è la fondazione – insieme a François Le Lionnais – dell’OuLiPo (dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale”), un’associazione di intellettuali con lo scopo di creare strutture e procedimenti matematici per stimolare la creatività letteraria, composta, tra gli altri, dallo scrittore Italo Calvino, dal romanziere Georges Perec e dal matematico Jacques Roubaud.
Zazie nel metró esprime buona parte dell’esuberanza creativa di Queneau, del suo tentativo di decostruire il canone letterario, in pieno “stile anni ’60”.
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