Rinasce la rivista La Biennale di Venezia, che debuttò nel luglio 1950 e che restò attiva fino al 1971 (con 68 numeri pubblicati). Il primo numero del nuovo progetto, un trimestrale con trattazione monografica, si intitola “Diluvi prossimi venturi / The Coming Floods”. Su ilLibraio.it proponiamo un estratto: una poetica conversazione con Giovanni Lindo Ferretti, a cura di Mariagrazia Pontorno
La pioggia è l’evidenza
Conversazione con Giovanni Lindo Ferretti a cura di Mariagrazia Pontorno
Cerreto Alpi, casa di Giovanni Lindo Ferretti
ore 11:15
Cronaca d’inverno
Se penso l’acqua, le immagini si confondono, quelle di oggi non hanno più rapporto alcuno con i racconti della mia infanzia. L’acqua è diventata un diritto, un bene comune, arriva in tutte le case e il problema sorge solo quando si rompono i tubi, qui sui monti prevalentemente in inverno.
Di contro, viviamo in un mondo in cui l’acqua è sempre più una risorsa da capitalizzare, il suo approvvigionamento è un settore dell’economia, della geografia politica.
Da un po’ di anni uso l’aggettivo “magrebino” riferito all’inverno.
“È un inverno magrebino”. Il Maghreb, il Nord Africa, è stato il primo luogo che ho visitato e frequentato quando sono diventato abbastanza grande per avere il permesso di andarmene in giro a vedere com’è il mondo. Da bambino, soprattutto mentre allestivo il presepe, ero affascinato dall’idea del deserto: a Cerreto tutto era verde e ricco di acque, lì tutto doveva essere sabbia e colore dell’oro.
Un mondo dove l’acqua è rara, preziosa, non si può sciupare.
Tutti i nostri antichi paesi sono costruiti attorno a una sorgente, non è pensabile la vita senz’acqua. Puoi portare l’acqua dove serve con un buon acquedotto, lo faceva egregiamente l’Impero romano, ma devi essere una civiltà evoluta e ben organizzata, non è un dato di natura.
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Il pezzo del paese dietro la mia casa si chiamava “La Pozza”. Sono cresciuto con una nonna che raccontava di una grande siccità, del dolore di vedere le fonti esaurirsi, e di come i nostri antenati avessero scavato un piccolo pozzo perché qui, sotto il pavimento, c’è una sorgente. Ho sempre creduto a mia nonna ma ne ho avuto conferma quando, scavando per risistemare le fondamenta della casa, a un metro e mezzo di profondità è comparsa della fanghiglia e un’ora dopo c’era un laghetto di acqua limpidissima.
Questa è una piccola valle ricca di acque sorgive, un pezzo di terra benedetto da Dio. Nella valle soprastante ci sono i Laghi Cerretani, una serie di piccoli laghi e paduli. Sull’altro versante della valle – noi li chiamiamo i Pradecc – nasce il Secchia, uno degli affluenti del Po. E quindi abbiamo sempre avuto un surplus di acque. Il paese poi è costruito lungo un torrente che anche nelle estati più torride conserva un rivolo di acqua corrente. L’immagine della nostra vita.
Prima che si costruisse l’acquedotto c’erano, in posizioni strategiche, le fontane che assicuravano l’acqua per l’utilizzo domestico. Erano i luoghi della socialità quotidiana. Se la fonte stava su un terreno privato il proprietario si preoccupava di mantenerla a disposizione di tutti e spettava a lui prendersene cura. Ogni famiglia, ogni pezzo del paese, pensava che la sua fonte fosse la più buona.
Per abbeverare gli animali e irrigare gli orti si utilizzava invece l’acqua del Canale, dove ogni famiglia aveva una pietra su cui sciacquare i panni, un utilizzo consuetudinario come il banco in chiesa.
L’unica tristezza dei miei ricordi di bambino è l’immagine di mia nonna che sciacqua i panni nel Canale, d’inverno, spaccando il ghiaccio.
Canale Cerretano
ore 12:00
Come bambino
Per me l’acqua del Canale è il suono della pace quotidiana. Sulle carte è detto Canale Cerretano perché esce dai Laghi Cerretani e attraversa il Cerreto. Fino a che, adolescenti, non siamo passati alle superiori e abbiamo iniziato a fare il bagno nel lago Pranda; ogni anno ci costruivamo la nostra piscina estiva. Con le zappe facevamo le piode: pezzi di terra con le radici e l’erba. Cumulavamo piode e sassi per costruire un muro alto circa due metri che reggesse l’acqua. E poi dall’una del pomeriggio alle sette di sera tutta la cinnaglia (bimbi) del paese vi si radunava. Da San Giovanni (24 giugno) alla Natività di Maria (8 settembre). Con i primi temporali autunnali la piscina veniva travolta e spazzata via. Per essere ricostruita l’estate successiva.
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Acqua
La valle era un enorme reticolo di canaletti di scorrimento per l’acqua piovana, raccolta e fatta defluire. Dopo ogni temporale bisognava risistemare i canaletti. Prima dell’asfalto il Canale aveva uno spazio enorme. Al fiume era lasciato tutto lo spazio per potersi allargare in caso di necessità. Ogni primavera qualche piccola variazione di percorso. Adesso quando piove, anche poco, il rischio di frane è enorme. Non c’è più alcuna regimentazione delle acque piovane che defluiscono irruente giù dritte in paese. Sempre a rischio inondazione.
Il canale è pieno di alberi e non puoi più toccare niente: spostare un sasso, tagliare un ramo, ogni attività sul territorio compete all’Ente preposto.
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Quando l’anno scorso l’Appennino romagnolo è stato funestato dalle piogge alluvionali noi siamo stati graziati. È vero, abbiamo ottimi protettori in cielo, in questa valle siamo devoti a San Giovanni, il Battista. Però tutto il fiume è abbandonato all’incuria e se un albero si intraversa e fa barriera, si forma un blocco, rischiamo la distruzione del paese. Così come in caso di incendio, perché nessuno ha più memoria del fatto che ci deve essere uno spazio vuoto tra il bosco e le case. Dicesi: barriera frangifiamma.
Non so quanto reggerà la protezione di San Giovanni.
Antico tracciato
Venezia-Genova
ore 12:15
Millenni
Le comunità di montagna, specie quelle collocate sui valichi, avevano una forte coscienza della vastità del mondo. La nostra città di riferimento era Genova, il porto: almeno un giovane per ogni famiglia è salpato, negli ultimi secoli, per andare a vedere cosa fosse questa America di cui tanto si parlava. Mio nonno è andato tre volte e si sarebbe volentieri trasferito, ma mia nonna non ha voluto. Lo zio Archimede, suo fratello, valente cacciatore, è morto in Canada sbranato da un orso.
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Quando ti ho scritto “fai buon viaggio in questa antica strada” pensavo a ciò che, nel tempo, è stata: pista di cacciatori preistorici; strada commerciale degli Etruschi; strada militare romana; strada imperiale altomedievale; strada tra i Ducati Estensi e il Granducato di Toscana. Mi riferivo al tragitto Venezia-Genova utilizzato nei millenni per il trasporto via terra di persone, animali, merci e notizie. Una arteria su cui è passato un bel pezzo mondo.
Negli anni Ottanta, un bimbo cresciuto a Cerreto Alpi in una vecchia famiglia cattolica, allevato dalla nonna, ritrovatosi a ventisette anni cantante a Berlino, stava comunque nell’ordine delle cose. Quando con Zamboni, Annarella e Fatur siamo tornati da punkettoni a Cerreto Alpi, tutti hanno fatto finta di niente. Ero pur sempre Giovanni, il bimbo della famiglia dei Comparoni. E poi si era già visto di tutto. Non sarebbe stato di certo un punk alla fine del secondo millennio a poter mettere in discussione un ordine semi eterno.
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Poi invece il mondo è cambiato e noi siamo diventati una delle tante periferie del globo.
Siamo alla fine di un’epoca ed è inutile rimpiangerla, semmai è bello per chi si trova sulla linea di demarcazione conservarne memoria tramite l’arte, la poesia, la musica.
Conservarne memoria. Le cose cambiano.
Valle del Secchia
Appennino tosco-emiliano
ore 12:40
Un’alluvione di tanto in tanto
Qui siamo dall’altra parte della valle, sul Secchia, fiume dell’Appennino nord-occidentale.
L’ultima alluvione è avvenuta nel 1972, me la ricordo. Il Secchia era spaventoso. Ho visto isole galleggianti scendere giù in valle frantumandosi. Pezzi di terra estirpati, con due-tre alberi a far da pennoni, galleggianti sui flutti fino allo schianto. Adesso, passando sul ponte, il fiume neanche si vede più, è tutto coperto da questa natura “incontaminata”. Una boscaglia intoccabile, presunta foresta primigenia che è in realtà una sterpaglia di cinquant’anni. Cresciuta a dismisura.
Le sorgenti del Secchia stanno lassù, un posto meraviglioso che speriamo di osservare dall’alto. Per vedere la morfologia delle montagne bisogna venire in inverno quando non c’è la foglia e attraverso i rami spogli si scorgono ancora le valli. In estate lo sguardo è ormai impossibilitato da questa esuberanza vegetale.
Cronaca Montana
(dal pick-up in movimento)
Questa è la Gabellina, in altri tempi gabella di frontiera tra il Gran Ducato di Toscana e il Ducato di Modena e Reggio, da poco comprata da un oligarca rumeno. La nostra montagna si sta ripopolando di europei dell’Est, gli unici che sembrano apprezzarla: muratori albanesi, pastori e boscaioli macedoni, serbi, e poi le badanti. Sempre più spesso mi capita di esserne contento.
Visto questo bel cielo vorrei farti dare un’occhiata di là, verso il mare.
(Sosta sul limite di una strada affacciata a valle)
Non si vede, non ci posso credere! Non si vede il mare, in una giornata così… là dove ci sono le nuvole, tra quelle montagne in fondo, si apre, a seconda della qualità dell’aria, un pezzo di mare molto molto grande. E stamattina pensavo: è una bella giornata, serena, vedremo tutto il Golfo della Spezia verso Genova e più in là, con lo sguardo della mente, Marsiglia, l’Occitania, invece niente. Col plenilunio puoi vedere la luna, il mare, e la luna riflessa sul mare: immensa beatitudine.
Da questo crinale si ha una meravigliosa vista sul Tirreno, il suo arcipelago, si può scorgere persino la Corsica dove i montanari tosco-emiliani, nei momenti più difficili, quando superare l’inverno diventava un problema, andavano a cercar lavoro: tagliar legna, fare i carbonai, gli scalpellini, generica manovalanza agricola. Un posto lontano e molto vicino. L’interno della Corsica somiglia molto di più al nostro Appennino che a qualsiasi pezzo di Francia. Anche il loro parlare ha assonanze tosco-liguri. Comunque, la Corsica era un posto che frequentavamo, come le Americhe. Avevamo in ogni casa racconti di storie su storie.
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Laggiù c’è il Maghreb, esattamente di là.
(dal pick-up in movimento)
Siamo diretti verso il più alto dei Laghi Cerretani, una serie di piccoli laghi glaciali con qualche torbiera e qualche piccolo padule, li stiamo valorizzando, tra un attimo non ci saranno più.
Lago del Cerreto
ore 13:20
Questo è il lago del Cerreto. Ho una fotografia di mio padre giovane, a caccia, scattata qui prima dell’ultima guerra, il lago era contornato da faggi secolari. Gli ultimi due sono stati tagliati alla fine degli anni Sessanta per ricavare lo spazio di parcheggio per due auto.
Guarda che bella trota.
Essendo un luogo valorizzato si può mangiare, si può trovare tutto quello che serve al turismo.
Pausa pranzo
Tortelli di patate, Coca Cola fuori frigo sgasata con bustina di zucchero, torta Sacher.
(Spostamento a valle col pick-up)
Cerreto Laghi
Lago Scuro – Prato Pranda – Paduli
ore 14:50
Siamo sempre nella zona dei Laghi Cerretani. Il lago del Cerreto, da dove arriviamo, è soprastante. Abbondanza di acque. Ci sono torbiere e piccoli paduli in cui l’acqua e la terra sono mescolate: fango primigenio, dimora di piccolissime e rare piante carnivore. Ne sono sempre stato affascinato… le sabbie mobili… i pericoli, l’orrore… poi scopri che è la fase educativa.
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Cerreto è un toponimo di origine longobarda, sta per bosco di cerri e se ne contano diversi lungo tutta la dorsale. Cerreto Alpi fa riferimento all’Alpe di Succiso. Lungo la dorsale dell’Appennino, per Alpe si intende un contrafforte montano composito e isolato. Questa è la nostra Alpe.
Quando i nostri antichi progenitori Liguri decisero di fermarsi qui, e quando i nostri progenitori più recenti, i Longobardi, vi si infeudarono, il posto lo scelsero con criterio. Ottimo giudizio.
P.G.R.
Questo è il lago Scuro. Non ha emissario né immissario. Era scuro perché profondo e sempre in ombra per via dei grandi faggi che lo circondavano. Si raccontava con enfasi che, in un tempo antecedente all’invenzione della ruota, una coppia di buoi che tirava una benna, carro a strascico, fosse caduta nel lago, e né del carro, né dei buoi, né del conducente fosse mai stata ritrovata traccia.
Un luogo pericoloso, oscuro, magico.
Quando ho avuto un grosso problema con l’acqua è proprio al lago Scuro che ho fatto riferimento.
È successo alla fine del 1999 mentre ristrutturavo casa, avevamo appena tolto il tetto e installato la guaina provvisoria ed è cominciato un temporale da disgrazie: tre giorni e tre notti di pioggia torrenziale. La terza sera ero molto preoccupato, avevo già allontanato mia madre e mio zio, la casa ridotta ad antro acquatico, l’acqua ovunque, scendeva lungo i muri, filtrava dai soffitti, allagava i pavimenti. Ho raccolto le poche cose di valore che possedevo: la catenina d’oro della prima comunione con medagliette, il braccialetto d’oro della cresima, una spilla d’oro con le iniziali, qualche oggetto d’argento e alcune gemme dai miei viaggi. Il mio piccolo tesoro. L’ho avvolto in un foglietto di carta preziosa su cui avevo vergato una supplica. Poi sono salito qui, al lago Scuro, di notte, sotto gli scrosci, coi lampi, i tuoni. Non si distinguevano i confini del lago, l’acqua debordava da tutte le parti. Un buco nero che si allargava, il pericolo in atto.
Ho alzato al cielo il mio pacchettino e l’ho offerto alle Acque chiedendo misericordia.
Poi ho pensato che fosse un po’ troppo pagano; quindi, ho aggiunto tre Pater Ave Gloria.
Gli uomini non hanno poi così tante chances e non possono che mettere in atto una cerimonia, una liturgia, un sacrificio. È vero che i cristiani hanno in Cristo il sacrificio perfetto, però la vita è complessa, sedimentata, confusa. Comunque ha funzionato, ed è finito tutto. Non mi è mai dispiaciuto aver rinunciato a quei piccoli pezzetti d’oro. Avrei dovuto offrirli alla Madonna di Montenero, per grazia ricevuta. Li ho gettati nelle acque, che comunque attengono al disegno della creazione.
Quindi a Dio, a cui tutto torna.
Anche il lago Scuro è stato valorizzato, ha perso la sua oscurità, e la sua forza magica.
Del Mondo
Prato Pranda è un invaso artificiale. In origine era un grande padule poi, con la costruzione di un piccolo argine di sbarramento, è diventato il lago più bello. Da adolescenti ne abbiamo fatto la nostra piscina e venivamo spesso qui a fare il bagno, gelido. Ti buttavi dentro, uscivi con le labbra viola e i cerchi blu agli occhi. Se non morivi era salubre.
Qui puoi sentire, nel silenzio, il suono dell’acqua. C’è una piccola cascata, proprio piccola, ci sono brezze sospese, stormir di foglie. Quanto basta per un concerto.
Questa che adesso è un’isola era un cespuglio di canne, piano piano intorno si è depositata sempre più terra, sempre più, adesso c’è anche un alberello, buona base di partenza per costruire una nuova Venezia sui monti.
***
Sono cresciuto in un mondo in cui l’idea di paesaggio non esisteva. Della mia valle conoscevo tutto: i seminativi, i prati pascolo, boschi da frutto e da legnatico, gli usi civici, le sorgenti. Le abitazioni e le loro pertinenze, le stalle, gli ovili, i ruderi. Uno sguardo materico.
Un mondo che non avrei ritrovato tornando a casa, da adulto.
È stato un tempo il mondo…
Alpe di Succiso
ore 16:00
Noi non ci saremo
(dal pick-up in movimento)
Ci sono ancora troppe pozzanghere, non ti posso far fare il giro lungo. Se rimaniamo intrappolati nel fango chiamo Erico, o chiamo Alessio, però non è una bella figura farsi venire a tirar fuori col trattore. Se possibile, meglio non farlo. Ovvio che ti vengono a dare una mano e lo fanno volentieri e puoi contare su di loro. Però se sei così stupido da averne bisogno te lo rinfacciano tutta la vita. E hanno ragione.
Zamboni abita a mezza montagna, nel carpinetano, di fronte a San Vitale e al castello delle Carpinete, un gran bel podere isolato nel cuore delle terre matildiche. Ha un po’ di pecore e un po’ di asini. Sul crinale non esistono case isolate, solo borghi, piccoli agglomerati urbani.
Stiamo per raggiungere gli unici cinquanta metri di strada da cui si riesce a vedere un vago panorama della valle, ma ancora per poco e solo verso l’alto. Quando non trovavo i cavalli osservavo da questo punto buona parte dei pascoli della valle e li individuavo, a distanza. Adesso non si vede più niente. Solo una compatta distesa di alberi di fronte a noi.
(Sosta a bordo strada)
Ecco l’Alpe di Succiso, finalmente hai la migliore visione possibile dei Pradecc, luogo di incanto, senza arrivarci. Un grande prato, un tempo era un ghiacciaio, con torrente serpeggiante. E là che nasce il Secchia, un contesto idilliaco. È diventata una tappa turistica ma ho avuto la fortuna di vederlo ancora, in estate, con i pastori e le pecore. Negli anni Novanta ci ho tenuto i cavalli al pascolo, era bellissimo dormire lì. Un paesaggio da centro Asia, un luogo dove dovresti incontrare i Kazaki, gli Uzbeki, i Tagiki, i Mongoli, i nomadi con i cavalli e le greggi. Vuoi mettere?
I boschi sono ancora intersecati da sentieri bellissimi per cavalli e cavalieri. Una leggera salita di terra battuta, un pezzettino di strada, ad esempio da lassù a qua, è il posto giusto per domare i puledri. Nelle prime galoppate sono irruenti, scomposti, uno spazio ben marcato come questo è perfetto.
I miei cavalli sono vecchi, adesso.
Ho ancora una cavallina furlan (una tipologia di cavalli di montagna, provenienti dal Friuli, ancora certificata negli Annali della Cavalleria italiana di inizi del Novecento) un ultimo residuale dei Longobardi arrivati su queste montagne nella seconda metà del primo millennio d.C.
Come dire: ci siamo ancora, traccia poetica di un mondo che svanisce, di più non si può fare.
Per quanto tempo queste valli saranno ancora abitate?
La civiltà dei monti è finita.
Cerreto Alpi
ore 16:40
Tabula rasa
Continuerò a vivere qui, ringraziando Dio, fino alla fine dei miei giorni. La boscaglia aumenterà a dismisura. Già l’anno prossimo non scorgeremo più gli ultimi metri visibili di fiume che oramai è murato, sigillato dalle piante. Chi vive in montagna contempla la rovina di un mondo giunto alla fine. Da lontano lo sguardo è riducibile a un selfie, comparto eco-green.
***
Siamo diventati Parco nazionale. Le norme che lo regolamentano sono anche ragionevoli, giudiziose, buona volontà e buoni sentimenti. La Mabilina, l’ultima pastora di Cerreto Alpi, prima di morire è stata multata per aver raccolto fiori che non possono più essere raccolti. Era disperata, si sentiva offesa, non capiva e glieli avevano anche requisiti.
E così l’unica, l’ultima che in questa valle sapeva ancora mettere insieme un mazzo di gigli selvatici per la festa di San Giovanni, rari e preziosi, perfetti per il santo patrono, per addobbarne l’altare, ha inaugurato le nuove disposizioni a difesa del creato. Moriremo soffocati da una natura intoccabile, gigli protetti e introvabili, dimentichi di S. Giovanni.
Senti il rumore del Secchia.
Il Secchia è un gran bel fiume, molto più grosso del Canale ma ormai lo puoi solo ascoltare, non lo si vede più.
Il Secchia nasce là, tra quelle nuvole.
IL RITORNO DELLA RIVISTA DELLA BIENNALE, DOPO 53 ANNI – Si intitola Diluvi prossimi venturi / The Coming Floods il numero 1/24 della nuova rivista trimestrale edita dalla Biennale di Venezia (oggi presieduta da Pietrangelo Buttafuoco) che, a 53 anni dalla sua ultima pubblicazione, ripropone il suo storico periodico, in una nuova veste.
Nei giorni scorsi la presentazione del progetto (che si innesta nell’attività dell’Archivio Storico della Biennale), con una lectio magistralis tenuta da Aziza Chaouni, docente di Architettura all’Università di Toronto.
“La rivista rinasce con lo stesso spirito e natura che la contraddistingueva sin dalla prima edizione, ovvero retta da una parola guida, ‘ricerca’, termine che ricorre nella stessa legge istitutiva della Biennale. Rappresenta uno spazio di riflessione e discussione intorno all’oggi, sempre con la prospettiva di meglio comprendere e immaginare il futuro”, ha spiegato Debora Rossi responsabile dell’Archivio.
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Come si legge sul sito della Biennale, la rivista, concepita in edizione cartacea, può contare su un apparato iconografico che attinge in buona parte dall’Archivio Storico della Biennale e da ricerche fotografiche nazionali e internazionali.
Un trimestrale, con trattazione monografica per ogni numero, che punta a far “dialogare le discipline proprie della Biennale di Venezia – arti visive, architettura, danza, musica, teatro, cinema – ma anche scienze e letteratura”. Come nella prima rivista, “anche la moda rientra nei mondi di riferimento, proprio per la relazione del suo processo creativo con l’arte, gli archivi, la sperimentazione”.
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Direttore editoriale della rivista è Debora Rossi, mentre la direzione è affidata a Luigi Mascheroni.
Nel primo numero (in vendita nello store online della Biennale e nelle principali librerie) trovano spazio, tra gli altri, Manal AlDowayan, Engin Akyurek, Orhan Pamuk, Peter Weir e Kongjian Yu. Spazio, inoltre, alla conversazione con Giovanni Lindo Ferretti che abbiamo ospitato qui sopra.
Un passo indietro. Visto il successo della XXIV Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale del 1948, la prima dopo la Seconda guerra mondiale, già nei primi mesi del 1950 l’Ente decise di pubblicare una rivista “con l’intenzione di farne l’organo ufficiale di promozione delle sue manifestazioni”.
Al posto della rivista, a partire dal 1975, saranno pubblicati gli Annuari diretti da Vladimiro Dorigo. Ora il ritorno dello storico progetto, in una nuova forma.
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