I suoi articoli sul tennis per Repubblica sono di culto. Gianni Clerici, però, non è solo uno dei più originali giornalisti sportivi di sempre, ma anche un grande romanziere…

I suoi articoli sul tennis per Repubblica sono di culto. Gianni Clerici, però, non è solo uno dei più originali giornalisti sportivi di sempre, ma anche un grande romanziere. E fa piacere che Baldini & Castoldi riporti in libreria Il Giovin Signore, un suo romanzo del ’97, del quale ilLibraio.it pubblica un capitolo.

Il giovin

Prima, però, le parole di Oreste del Buono: “Disincantato, ironico, apparentemente cinico come un avventuriero stanco di trionfi, Gianni Clerici, il cantore dell’epopea del tennis, conserva un commovente attaccamento a tutti i suoi personaggi. Sono veri perché effettivamente esistiti? O esistono perché lui è un creatore di intrigante abilità? In fondo, poco importa. Ciò che conta è la sua volontà di raccontare più vera del vero l’educazione e la diseducazione di un uomo. Una grossa sfida perché Andrea Broni, il giovane protagonista del romanzo, non è un eroe affascinante ma una discutibile nullità, lontana controfigura dei campioni sportivi e di umanità dei Gesti bianchi. L’autore pare infatti impegnarsi nella delazione e nell’accusa dei difetti del proprio personaggio. Fatuo, leggero, inconsistente, egoista, lo incontriamo alle prese con i preparativi della partenza per il servizio militare. Il coscritto di buona famiglia, il giovin signore, si muove per quella difficile guerra che è diventare adulto. Alcuni non ci arrivano mai. E Andrea? Gianni Clerici è un narratore feroce perché elegante. La rozzezza magari spezza tutto nello scontro frontale, ma non riesce mai a colpire in profondità. Le buone maniere, invece, dispongono di forza di penetrazione inesauribile. Anche per questo Il giovin signore è il ritratto memorabile di un uomo dei nostri tempi e dintorni”.

Ed ecco l’estratto:

Nell’enorme taxi nero che lo conduceva da Heathrow a Londra, Andrea guardava sfrecciare via prati e casette, in una curiosa sensazione di già visto. Erano tutti eguali, quei cottage, finì per convenire, e ciò gli diede un minimo conforto, smarrito come si sentiva, in quella città che dall’alto, nello sfilacciarsi delle nubi poco prima dell’atterraggio, gli era parsa enorme, troppo grande per lui.

Si perse a controllare, dietro i vetri delle utilitarie, le acconciature delle donne dirette in città, i visi intenti dei guidatori, uno addirittura in bombetta. Notò che nel traffico sempre più massiccio gli autobus, da verdi, erano diventati rossi, quegli splendidi autobus rossi a due piani, identici a una riproduzione che aveva avuto in dono da bambino. Anche in questo minimo appiglio tentò di ritrovare un poco di fiducia, dicendosi di essere in qualche modo simile al bambino che era stato, gli autobus, come per magia, erano diventati enormi, e lui stesso si preparava al grande passo, finalmente solo, quasi in esilio, di fronte a quella sterminata metropoli. Come furono affiancati e superati da una stupenda Rolls-Royce color latte, dai parafanghi neri, non seppe trattenere una esclamazione, e l’autista ne profittò per rivolgergli una lunga frase, all’apparenza scherzosa. Senza aver capito, Andrea sorrise a sua volta, per ripetergli l’indirizzo avuto da Cino. Il guidatore scosse la testa, e s’infilò per una stradina di Park Lane, non prima di aver indicato, quasi fosse ovvio, «Hyde Park Corner».

Poco dopo frenò davanti a una porta a vetri incorniciata da mattoni sudici e stranamente elegante, nella sua fragilità. Sorpreso dall’insegna al neon, Black Sheep, Andrea controllò un paio di volte il numero civico, pagò, dovette lasciare una mancia spropositata se l’uomo non finì di ringraziare, addirittura con un volonteroso «Merci», nel consegnargli la valigia, la borsa, la sacca da golf.

In quel momento la porta si spalancò, e un indiano con tanto di turbante sorrise, nel tenerla aperta perché Andrea riuscisse a superarla, con tutti i suoi bagagli. Illuminato, Andrea gli si rivolse in francese, per chiedere se Monsieur Borgogna, un italiano, abitasse lì.

«Beaucoup italiens», rispose quello, e con un cenno invitò Andrea a indagare oltre una vecchissima, sporchissima tenda di velluto. Un corridoio stretto da muri di cassette di birra si inoltrava sino a un ascensore, una sorta di montacarichi privo di porte. Scelse il secondo pulsante, che lo consegnò a un altro corridoio, dal quale uscivano, sparate a mille, le parole fatidiche «Quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti ma alberi infiniti» e, insieme alla Mina, era il suo amico, a cantare, subito sulla porta, ad abbracciarlo, come al risveglio da un brutto sogno.

Si affrettò a rivolgersi, Cino, a una ragazza che stava a guardarli con aria profondamente stupita ma sorridente: «My very good friend Andrea Broni, Earl of Cadorago», e ad Andrea:

«La Duchessa Marina di Kent».

Mentre Andrea si inchinava, la ragazza apriva quel suo curioso sorriso su denti tanto piccini, perfetti, smaglianti da parer falsi, e Cino la incitava a mostrare «The noble beautiness of your breast.»

Con infinita sorpresa di Andrea, la duchessa sbarrò gli occhi azzurri in un tentativo di provocazione e, curvandosi in avanti prese a dondolare due tette lunghe e aguzze, mentre da quelle labbra a cuore usciva una sorta di filastrocca, forse un discorso di benvenuto.

Cino la lodò, come una bambina, per suggerirle di trasportare i bag nella room dell’amico. Con aria fiera e determinata, la duchessa afferrò la valigia e si avviò trascinandola, mentre Cino tratteneva Andrea. Ma certo che non doveva aiutarla. Jane, in arte la Duchessa, era ancor prima schiava che housekeeper. Teneva pulito, rispondeva al telefono, preparava il bagno, provvedeva anche, se richiesta, ai massaggi. E, allo stupore di Andrea, l’amico si affrettò ad aggiungere che, sistemati gli abiti, presto sarebbe stato pronto anche il bagno. Ma, prima di tutto, quali erano le novità milanesi?

Terminato il riassunto mondano, matrimoni, nascite, relazioni interrotte e riannodate e soprattutto l’Inter, Andrea si trovò di fronte alla sua, di storia. Il suo rapporto con Carlina era solo momentaneamente sospeso – informò. Si sarebbero sposati tra sei mesi, un anno, quando lui avesse trovato un lavoro diverso. Eh sì, il lavoro, ammise. Era stato quello, ad andar male.

«Ho voluto fare qualcosa di nuovo, in un ambiente ammuffito, roba anteguerra. Perché se no, cosa avremmo studiato a fare?» Ricevette, in cambio, un sorriso amichevole, e la convinta affermazione che, per i loro papà, una laurea si limitava a significare il Dott. stampato sui biglietti da visita della pregiata cartoleria Raimondi e Pettinaroli. Quei loro papà, continuò Cino, erano talmente egoisti e ciechi che si servivano dei figli soltanto per ottenere quanto non avevano potuto ottenere da soli.

«Ma allora», credette di ribellarsi Andrea, «che senso ha tutto quel che si è fatto, gli studi, anche la vita?»

Fu dolcemente rimproverato. Soltanto per aver picchiato il naso nei muri della fabbrica, la sua visione della vita tornava indietro di anni, ai tempi del liceo, quando qualche loro compagno aveva scelto il seminario? O subito dopo, all’università, ai tempi in cui le crisi esistenziali si risolvevano con una bella tessera del Pc, tipo Giovanni Pirelli?

«Eh no, my friend, non è più il tempo di piangersi addosso», concluse Cino. Aveva bisogno, Andrea, di una bella cura ricostituente, ma di donne. Per cominciare, subito, il bagno insieme a Jane. Ma che stesse attento: Jane era anche fidanzata con Jean-Claude, altro inquilino, appena abbandonato dalla fidanzata vera, tale Marguerite. E cosa combinava, il povero Jean-Claude dal cuore infranto? «Tipically freudian», presentava quella troietta di Jane come la sua fidanzata, la portava in luoghi disadatti alla sua educazione e alla sua povera intelligenza, per poi divenirne geloso, anche con loro, con gli amici. «Ma basta essere careful.» E, prendendolo sotto braccio, Cino lo condusse nella camera accanto. Alla luce fioca di una finestrella aperta su una parete di mattoni anneriti, Jane disfaceva valigia e borsa, e aveva riposto ordinatamente la biancheria nei cassetti, svuotati da una collezione di giornalini pornografi ci, che mostrava ridendo e schiacciando gli occhi.

«Non è capace di schiacciarne uno solo, poor baby», informò Cino, carezzandola distrattamente, e informandosi se il bath fosse ready. Incitato a spogliarsi, Andrea si ritrovò presto in mutande, tanto a disagio che l’amico sorrise, e riguadagnò la sua camera. Fu Jane, a toglierglielo, quell’ultimo indumento, a guidarlo verso la vasca colma di acqua e di bolle di Badedas, quasi fosse un bambino. E, sempre come un bambino, iniziò presto a lavarlo, con tocchi sempre più dolci, sempre più birichini, e infine con una determinazione, una precisione professionale che stupirono per un istante, e finirono di sconvolgere Andrea.

«Andrea you bello. You man», non finiva di mormorare, ma proprio in quella li bloccò la voce di Cino: «Jean-Claude is coming», e Jane si tolse via, scomparve, un attimo prima che un giovanotto biondo, tutto ricci e furore, irrompesse sulla scena gridando in francese. Cosa facevano in quel bagno? E chi era quel tizio tutto insaponato, col suo Badedas, per giunta?

Il nuovo inquilino? Bene, bravissimo. Doveva aver capito tutto se insieme al suo Badedas già cercava di sottrargli la fidanzata. E, messi gli occhi su un maglione di cachemire grigio latte, dono di Carlina, lo alzò, lo contemplò con approvazione, per poi infilarlo, mentre Andrea non si decideva a uscire dall’acqua. «Bon, one all», annunciò alla fine, con un bel sorriso, concludendo: «See you chez Colombina». Cino lo guardò andarsene scuotendo la testa. E, ad Andrea che iniziava ad asciugarsi, spiegò che in fondo Jean-Claude era un bravo tipo, giusto un po’ condizionato da quella storia della fidanzata perduta. Non si preoccupasse per il cachemire, Andrea. Glielo avrebbe reso in pochi giorni. E invece, si affrettasse. C’era da nutrirsi, prima di scegliere il film, magari a Piccadilly.

«Al cinema? A Londra?»

«E perché no. È pieno di ragazze, straniere come noi, che non sanno cosa fare.»

E ad Andrea che si annodava la cravatta, Cino riservò uno scappellotto scherzoso. La cravatta, infatti, la portavano ormai solo gli inglesi, mentre loro, seduttori latini, tenevano la camicia aperta sul petto «meglio se villoso, e ancora meglio con una catena in oro massiccio. O almeno – non ce l’aveva Andrea? – una bella catenina della Cresima.»

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