“Parto sempre dal luogo del ritrovamento del cadavere e, soprattutto, dalla storia della persona che viene uccisa”: in occasione dell’uscita del nuovo romanzo dedicato alla saga del vicequestore Vanina Guarrasi, “La carrozza della santa”, Cristina Cassar Scalia ci ha aperto le porte del suo laboratorio narrativo. Parlandoci dei punti in comune con la protagonista dei suoi libri (“Io e Vanina siamo entrambe nottambule, infatti scrivo soprattutto di notte”) e del suo rapporto con la ricerca linguistica (“La lingua siciliana? Solo nei punti giusti del romanzo, perlopiù nei dialoghi: l’ho affidata a personaggi che usano un registro più colloquiale”). L’autrice ha parlato con ilLibraio.it di come si è avvicinata alla scrittura di gialli (“È iniziato tutto da una villa di amici e da un montacarichi”) e anche di cibo (“Un modo per caratterizzare e umanizzare i miei personaggi”). Cristina Cassar Scalia non si limita a raccontare la Sicilia, lei racconta le Sicilie, cioè “un insieme di tante sottoregioni…” – L’intervista

Parlare con Cristina Cassar Scalia significa entrare, in punta di piedi, nell’officina letteraria di una scrittrice che lavora prevalentemente di notte. Significa sentire l’odore delle storie e dei personaggi che si risvegliano col buio, ascoltare il racconto della loro nascita: l’autrice della saga di Vanina Guarrasi ha raccontato in un’intervista a ilLibraio.it il suo microcosmo narrativo.

Il suo ultimo romanzo, La carrozza della Santa, edito da Einaudi Stile Libero, è il sesto libro che la scrittrice di Noto ha dedicato al mondo del vicequestore della Squadra Mobile di Catania, Giovanna Guarrasi, detta Vanina.

Tradizioni, cibo, Sicilia letteraria e contemporanea, cinema e amore per il giallo classico: sono soltanto alcune delle sfaccettature che sono emerse dalla chiacchierata con l’autrice, perché il suo ultimo libro non ha un solo tema, ma è un piccolo mosaico con le sue leggi che governano la vita e la morte. E si parte proprio da un cadavere ritrovato nella carrozza del Senato, che inaugura la processione di Sant’Agata a Catania: eppure, la carrozza del titolo, non ha nulla di sacro e religioso.

Cristina Cassar Scalia non scrive semplicemente della Sicilia: lei racconta “le Sicilie”, e ne abbiamo parlato direttamente con lei.

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Vanina Guarrasi è divisa tra il suo passato a Palermo, antico e luttuoso, e il presente a Catania, cuore pulsante e vulcanico. Come fa Vanina a far coesistere entrambe le anime nello sviluppo del suo personaggio?
“Le fa coesistere per una questione di sopravvivenza. Per Vanina Catania rappresenta una comfort zone dopo essere fuggita da Palermo, città dove ha lasciato un pezzo di cuore, ma che le regala inquietudine. Quando invece ritorna alle pendici dell’Etna, insieme al commissario Patanè e alla sua squadra, Vanina vive dei momenti di confortevole serenità”.

Vasco Nocera viene trovato morto in un posto insolito: la carrozza di Sant’Agata. Lo scioglimento del caso non è per nulla banale o prevedibile. Quando inizia la stesura di un giallo, ha già in mente tutti gli snodi della trama, oppure si fa guidare? Se sì, da cosa?
“Parto sempre dal luogo del ritrovamento del cadavere e, soprattutto, dalla storia della persona che viene uccisa: tutto questo non cambia mai e rimane saldo, mentre invece il resto è passibile di modifiche, anche profonde. La carrozza di cui parlo nel romanzo si chiama carrozza del Senato, ma Vanina la chiama carrozza della santa, commettendo un errore”.

Perché Vanina la chiama la carrozza della santa?
“La chiama così perché Vanina è di Palermo e pensa a santa Rosalia, la famosa santuzza a cui è legata ogni cosa. Invece la carrozza dove viene ritrovato il cadavere è la carrozza del Senato, appartiene all’autorità cittadina e non è un simbolo religioso. Viene usata nel primo giorno della festa di sant’Agata a Catania, perché il sindaco e l’autorità fanno il giro per dare inizio ai festeggiamenti”.

Quanto di Cristina c’è in questa donna che dorme pochissimo, ama il cinema e beve litri e litri di caffè?
“C’è sicuramente l’amore per il cinema perché, proprio come me, Vanina ama i vecchi film italiani, quelli d’altri tempi. Per me è anche l’occasione per dar spazio al mio amore viscerale per il cinema… a Vanina, però, ho dato una persona con cui condividere questa passione. Per il resto, abbiamo abitudini diverse: io non fumo e non bevo nemmeno molto caffè e, in più, Vanina, che è una buongustaia, mangia tutto quello che vorrei mangiare io”.

Santiare in turco, macari ammammaluccuti, da unni venivi, ‘nsamai, scantare: ci parli della ricerca linguistica che ha fatto per costruire questo impasto così ibrido, che mescola italiano e lingua siciliana.
“Ho cercato di usare la lingua siciliana nei punti giusti del romanzo: l’ho affidata a personaggi che usano un registro più confidenziale, come il commissario Patané, che ha ottantatré anni. Il siciliano è presente solo nei dialoghi, non si innesta mai nel tessuto della narrazione: entra nel corpo del testo soltanto quando il personaggio sta pensando qualcosa di particolare. La mia ricerca linguistica, inoltre, ha voluto distinguere termini catanesi e palermitani: la Sicilia ha un vasto sottobosco di lingue e codici. Vanina si lascia contaminare, impara tante ‘catanesate’, sia a livello linguistico sia di abitudini”.

Arancine, pasta coi masculini, cotolette, peperoni al forno, scacce ragusane della signora Bettina, le famose seconde colazioni di Vanina: il cibo è molto presente nel romanzo. Perché la scelta di dare tanto spazio ai piatti in un contesto che parla di sangue, cadaveri e autopsie?
“Perché quando racconto i gusti e le debolezze culinarie dei miei personaggi, li umanizzo. Quelle che stanno indagando sul cadavere sono persone, non va mai dimenticato. Nonostante le sue esperienze all’antimafia, a Vanina si chiude lo stomaco quando vede il cadavere, ma poi l’appetito le ritorna. Il cibo, inoltre, mi serve anche per caratterizzare i personaggi”.

Ad esempio?
“Vanina è una golosa, mentre la sua collega Marta è vegana. Descrivere quello che ordinano al ristorante è anche un modo per raccontare le differenze umane dei miei personaggi”.

Carlo Emilio Gadda definiva il giallo un vero e proprio “garbuglio”. La natura del suo stile, lineare, piano e scorrevole nonostante il dialetto, è voluta proprio perché funzionale alla gestione di tutti i garbugli della dottoressa Guarrasi?
“Questa è la scrittura che mi viene naturale. Non ragiono molto su questioni formali e stilistiche: questa è la lingua che mi piace e che mi sembra suoni meglio. Ho anche un trucco: rileggo spesso ad alta voce”.

Un passo indietro. Le sue prime pubblicazioni non sono state legate al giallo, che cosa l’ha fatta approdare a questo genere?
“Il caso. Sono una lettrice di gialli classici, sono molto legata a Simenon, Sciascia, Doyle, Christie, Camilleri, Scerbanenco, mentre non amo i thriller giudiziari americani o quelli distopici. Sono sempre stata convinta di non saper scrivere i gialli, fin quando non è accaduto un episodio: ero a visitare una villa ricevuta in eredità da alcuni amici. Questa villa, per metà disabitata, era avvolta in un alone di mistero: ragnatele, ombre, luci che non funzionavano, e chi più ne ha più ne metta. A un certo punto mi trovo di fronte un montacarichi: quando il mio amico l’ha aperto, ho iniziato a immaginare”.

E cosa ha immaginato di fronte a questo montacarichi?

“Lì è entrata in gioco la mia fantasia: la mia mentalità da scrittrice ha infilato, in modo letterario, un cadavere mummificato nel montacarichi. Questa mia idea esigeva un genere ben preciso, il giallo: non potevo scegliere un genere sentimentale o una saga familiare. Sono partita con l’idea di fare un esperimento, ed è con questo spirito che ho scritto Sabbia Nera. Mi sono inventata un personaggio che mi sarebbe piaciuto incontrare, da lettrice, e su cui ho proiettato caratteristiche ben precise”.

Quali caratteristiche ha proiettato su Vanina Guarrasi?
“Con Vanina Guarrasi ho fatto un’operazione ben precisa. Lei incarna, essenzialmente, due cose importanti per me. Lei è il personaggio ideale che mi sarebbe piaciuto come lettrice, la “sbirra” di carta che avrei voluto incontrare tra le pagine, ed è anche una rievocazione letteraria.
Sì, perché Vanina riporta alla memoria dei momenti storici importantissimi, ossia le guerre di mafia degli anni Ottanta e Novanta a Palermo, che sono poi culminate nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Tutto questo è condensato, in maniera molto organica, nel suo personaggio”.

La Sicilia non è uno sfondo neutro, ma è un personaggio che si muove tra le sue pagine. Quale tipo di letteratura siciliana l’ha ispirata nella costruzione del microcosmo di Vanina Guarrasi?
“L’autore che ho amato di più è Sciascia, che rileggo spesso e che mi ha aiutato a individuare la base di una Sicilia letteraria. Ma la Sicilia di Vanina non è la Sicilia di Sciascia, né quella di Camilleri, Pirandello o Brancati: la Sicilia di Vanina è, essenzialmente, quella che vedo. Non è solo una terra, ma un personaggio che si muove tra le pagine; la Sicilia di cui scrivo è antica e contemporanea insieme: racconto la Catania del passato, ma anche quella degli aperitivi e dei ristoranti giapponesi. Più che la Sicilia, in realtà, a me piace raccontare le ‘Sicilie’”.

Può parlarci delle ‘Sicilie’?
“Le ‘Sicilie’ è un insieme di tante sottoregioni. Ogni sottoregione è imbevuta delle tradizioni che hanno lasciato le culture dominanti: Palermo ha degli influssi più arabi rispetto a Catania, altre invece sono ibridate in modo diverso. Ogni territorio ha le sue peculiarità, e la Sicilia non è uno sfondo puro, ma un personaggio anche abbastanza ingombrante. Mi piace scrivere anche della criticità della Regione, senza edulcorare nulla o fermarmi alla semplice oleografia: racconto anche le autostrade non percorribili o il dissesto delle strade”.

Come si è documentata per rendere al meglio le dinamiche delle indagini e della vita di una squadra di polizia?
“Tutto ciò è frutto di varie interviste ad amici poliziotti, medici legali e della polizia scientifica. Mi piace che il team di Vanina si muova come una vera e propria squadra di polizia e che i luoghi di cui parlo siano raccontati con precisione. I personaggi sono ovviamente di fantasia, come ad esempio il commissario Patanè, che ha ottantré anni e non è molto verosimile, ma questo fa parte della mia licenza narrativa. Il resto, deriva tutto dallo studio e dai miei sopralluoghi alle Squadre Mobili di Catania e Palermo”.

Lei è sia medico sia scrittrice. Come fa a conciliare tutto? Le andrebbe di parlarci del suo metodo di lavoro?
“In realtà non ho un vero e proprio metodo. Riesco a conciliare grazie al fatto che la mia attività da medico è svolta da libera professionista, non ho obblighi di orario. Nel mio lavoro di scrittrice sono anche abbastanza disordinata, e ciò si rifletteva anche nello studio universitario: ho sempre avuto un approccio ‘creativo’ alla preparazione degli esami. Certo, il lavoro di medico non è creativo, però a un certo punto devi anche saper interpretare i dati. Proprio come Vanina, però, anch’io lavoro molto di notte: tutto quello che scrivo di mattina presto, di solito viene cestinato”.

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