“La grande differenza tra la speranza e la certezza emerge nella preghiera, che presuppone stati d’animo differenti e viene formulata in maniera diversa”. Su ilLibraio.it la riflessione del biblista Alberto Maggi: “Gesù non offre speranze ma propone certezze, e nel suo linguaggio parla sempre al presente e non al futuro”

L’insegnamento di Gesù è rivolto sempre al presente dell’uomo e non al suo futuro. Per questo le sue parole non offrono speranze ma certezze, e grande è la differenza tra quel che si spera e quel che è certo e si tocca con mano, tra quel che ancora non c’è a quel che si vive già. Speranza, dal latino spes, deriva dal sanscrito e significa “tendere verso una meta”, quindi verso qualcosa che non c’è ancora. L’unica volta in cui nei vangeli appare la parola speranza pronunciata da Gesù non è per un insegnamento ai discepoli, ma per un rimprovero ai capi religiosi che cercano di ucciderlo (Gv 5,18): “Non crediate che sia io ad accusarvi davanti al Padre; c’è già chi vi accusa, Mosè, nel quale avete riposto la vostra speranza” (Gv 5,45).

La grande differenza tra la speranza e la certezza emerge nella preghiera, che presuppone stati d’animo differenti e viene formulata in maniera diversa. Infatti la preghiera che si basa sulla speranza può sfociare in una richiesta tanto ansiosa quanto vaga, perché si chiede quel che non c’è ancora e si spera avvenga e, se tarda a manifestarsi, si insiste, si implora, si supplica; quando quel che si è tanto desiderato non si realizza, la speranza delusa finisce per suscitare amarezza, cosa di cui si lamenta lo stesso profeta Isaia: “Speravamo nella luce, ecco invece le tenebre; nello splendore, invece camminiamo nell’ oscurità… Tutti noi urliamo come orsi e come colombe non cessiamo di gemere; speravamo nel diritto, ma non c’ è; nella salvezza, ma essa è lontana da noi” (Is 59,9.11). La stessa frustrazione traspare nelle parole dei discepoli di Emmaus, delusi dalla morte di Gesù: “Noi speravamo che fosse lui quello che avrebbe liberato Israele. Ma siamo già al terzo giorno da quando sono accaduti questi fatti” (Lc 24,21).
Al contrario della speranza, la certezza non è qualcosa di vago, di inesistente. Il vocabolo, che deriva anch’esso dal latino (da cretus, participio di cerno), della stessa radice latina di discernere (“scegliere separando”) significa “vagliare, risolvere”, ovvero acquisire una convinzione profonda, una sicura conoscenza. E la preghiera che nasce dalla certezza della presenza di Gesù in mezzo ai suoi “come colui che serve” (Lc 22,27; 12,37) è l’eucaristia, “rendimento di grazie” sereno e riconoscente al Signore che si fa nutrimento per i suoi fratelli.

Per questo Gesù, che non offre speranze ma propone certezze, nel suo linguaggio parla sempre al presente e non al futuro. Quando proclama le beatitudini afferma che sono “Beati i poveri per lo spirito perché di questi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Il regno c’è già, non deve ancora venire ma solo estendersi ad ogni creatura. In passato l’incomprensione della beatitudine ha fatto sì che il regno dei cieli si trasformasse in un regno nei cieli… e dalla certezza di un regno già esistente si passò alla speranza di un regno nell’aldilà, e così quel che Gesù aspettava si realizzasse su questa terra fu trasposto nei cieli.
Le parole di Gesù non sono promesse per il futuro ma possibilità nel presente. Per questo egli afferma che “chi crede nel Figlio ha la vita eterna” (Gv 3,36; 6,47) e anche “Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna” (Gv 5,24). Che la vita eterna non fosse un premio nel futuro ma una realtà presente lo comprese bene Paolo che nelle sue lettere parla della condizione dei credenti come quella di quanti sono già risorti (“Se dunque siete risorti con Cristo…” (Col 3,1); “Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,6) perché il Dio di Gesù non è un “Dio dei morti ma dei viventi” (Mc 12,27), non risuscita i morti ma dona ai viventi la sua stessa vita eterna, indistruttibile.

La certezza che ha guidato la vita di Gesù in tutto il suo operare raggiunge livelli inimmaginabili che lo spingono ad affermare con tutta sicurezza ai suoi discepoli: “Coraggio, io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33). Quella di Gesù non è una promessa o una speranza per il futuro; lui non dichiara che vincerà il mondo con la sua risurrezione, ma che ha già vinto perché “in lui è la vita e la vita è la luce degli uomini” una luce che “splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4-5).

La consapevolezza di essere più che vincitori nelle vicende della vita non comporta un’attesa passiva dell’agire del Signore ma l’attiva collaborazione alla sua azione creatrice. Scrive infatti Paolo, all’inizio della Lettera agli Efesini, che il Signore “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà” (Ef 1,4-5). Si viene al mondo perché il Creatore vuole manifestarsi continuamente in forme nuove, originali, inedite e creative e ogni sua creatura è espressione di questo suo amore, è il suo capolavoro (“Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). E il Padre non permetterà che nulla possa rovinare o distruggere il suo progetto, ma farà di tutto per portarlo al suo pieno compimento, realizzandolo sempre, ovunque e comunque, trasformando ogni evento, anche il più negativo, in opportunità di crescita e occasione di ricchezza. La collaborazione richiesta all’uomo per la realizzazione di questo progetto d’amore si chiama fede. Il Padre chiede solo di fidarsi e di affidarsi alle sue amorevoli cure, per questo Gesù assicura che lui chiederà al Padre che “darà un altro protettore (gr. paraklêtos) perché sia con voi per sempre” (Gv 14,16). Gesù è colui che come pastore dà la sua vita per evitare ogni danno ai suoi (Gv 10,11.28), colui che li ha sempre soccorsi. La sua azione viene proseguita dallo Spirito, l’amore del Padre che è sempre a favore degli uomini e sempre pronto ad aiutarli. Gesù garantisce che la presenza di questo protettore non è dovuta a situazioni di pericolo per la comunità, ma è costante (“per sempre”). Il suo aiuto non nasce come risposta a una situazione di difficoltà della comunità, ma la precede, quindi non si tratta di una speranza ma di una certezza, non di una promessa per l’aldilà ma un’esperienza quotidiana della presenza vivificante di quel Cristo che “risorto dai morti non muore più” (Rm 6,9) e che assicura: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni” (Mt 28,20).

 

La presenza attiva di Gesù tra i suoi permette allora di abbandonare quell’apprensione che sembra caratterizzare la vita di molti sempre dominati dalla preoccupazione e dall’inquietudine: “Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,29-31). Gesù assicura che il Padre sa già ciò di cui i suoi figli hanno bisogno, non c’è bisogno di informarlo, di chiedere o di supplicare. E come il Signore non viene incontro ai bisogni degli uomini ma li precede, così nella preghiera si ringrazia in anticipo il Padre per quel che fa e farà, ponendo tutta la fede in quel Dio a cui “nulla è impossibile” (Lc 1,37; Ger 32,17).

“Il braccio del Signore è forse raccorciato?” (Nm 11,23) protesta Dio rivolgendosi a un Mosé preoccupatissimo perché non sa come sfamare nel deserto un popolo composto da “seicentomila adulti”. Lo stesso rimprovero è rivolto al profeta Isaia: “È forse la mia mano troppo corta per riscattare oppure io non ho la forza per liberare?” (Is 50,2).

No, la forza del Signore non è venuta meno, il suo braccio non si è raccorciato, sono gli uomini che hanno braccia troppo corte per essere capaci di accogliere l’immensità del dono di Dio che è sempre più grande di quel che si può sperare, immaginare o semplicemente sognare, e che regala ai suoi “una misura buona, premuta, colma e traboccante” (Lc 6,38). Soprattutto sta agli uomini rendersi conto della presenza del Signore nella loro vita ed esclamare, come fece lo stupìto Giacobbe “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo” (Gen 28,16).

L’AUTORE – Alberto Maggi (nella foto grande di Basso Cannarsa, ndr), frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme.

Biblista e assiduo collaboratore de ilLibraio.it, è una delle voci della Chiesa più ascoltate da credenti e non credenti. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (MC), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Con Garzanti ha pubblicato Chi non muore si rivede, Nostra signora degli ereticiL’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita, Di questi tempi, Due in condotta, La verità ci rende liberi (una conversazione con il vaticanista di Repubblica Paolo Rodari) e Botte e risposte – Come reagire quando la vita ci interroga.

Il suo ultimo libro, sempre edito da Garzanti, è dedicato alla figura di Bernadette.

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