“Ci vediamo un giorno di questi” è il nuovo romanzo di Federica Bosco, una storia dedicata all’amicizia che lega due donne molto diverse tra loro ma inseparabili fin dall’infanzia… – Su ilLibraio.it un estratto

Scrittrice e sceneggiatrice di successo, Federica Bosco torna in libreria con un nuovo romanzo, Ci vediamo un giorno di questi (Garzanti), dedicato all’amicizia indissolubile che lega due amiche d’infanzia.

Ci vediamo un giorno di questi federica bosco

Ci vediamo un giorno di questi è la storia dell’amicizia che lega due donne molto diverse: Ludovica, timida e riservata, sempre cauta e prudente, e Caterina, temeraria ed esplosiva, intrepida ed energica.

Sono amiche sin dall’infanzia e insieme ne hanno passate di tutti i colori, hanno persino cresciuto il figlio di Caterina, quando è rimasta incinta, rimanendo sempre fianco a fianco. Ma ora tocca a Ludovica compiere un gesto imprevedibile, una di quelle follie che proprio non sono da lei.

Dopo il successo della trilogia con protagonista Monica, Mi piaci da morire, L’amore non fa per me e L’amore mi perseguita (Newton Compton), Federica Bosco ha firmato numerosi bestseller, tra i quali ricordiamo Tutte pazze di me (Mondadori), da cui è tratto l’omonimo film di Fausto Brizzi. In questi giorni torna in libreria con un romanzo dedicato all’amicizia e, nello specifico, alle amicizie femminili, forti e indissolubili.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del romanzo: 

In strada riflettevo sulle parole di Cate.

Da sempre mi ripeteva che dovevo vivere di più, e più a fondo, ma esisteva un vivere di più e un vivere di meno?

Per quanto mi riguardava, esisteva solo un vivere e un sopravvivere.

È vero, io non ero mai stata una che beve la vita, una godereccia, una temeraria.

Lei era quella che si buttava a bomba nell’acqua dopo aver mangiato un chilo di focaccia, io quella che aspettava tre ore precise sotto l’ombrellone, con la protezione totale sul naso e il cappellino, poi faceva il bagno arrivando fino al cartello delle acque sicure.

Eravamo semplicemente molto diverse, come i bianchi e i neri nel cesto della biancheria da lavare.

Eppure sapevo che in fondo aveva ragione, perché ogni volta che mi stuzzicava, poi stavo ore a rimuginare una conversazione immaginaria in cui mi giustificavo di tutto quello che non avevo fatto.

Certo, a quarant’anni avrei dovuto avere qualche crocetta in più sull’elenco delle cose da fare prima di morire.

Mi ero creata una vita maneggevole, pratica e compatta come un trolley per un volo Ryanair.

Avevo le mie cose lì a portata di mano, sempre le stesse, e in nessun modo avrei avuto problemi di peso in eccesso o difficoltà nel chiuderla.

Era rassicurante sapere che non ci sarebbero state sorprese lungo il percorso, e l’amore, con tutte le sue complicazioni, era un fuori programma che non mi potevo, né volevo, permettere.

Non che non mi mancasse una bella storia tutta sospiri e struggimenti, solo che mi terrorizzava l’idea di perdere il controllo, di lasciarmi andare e trovarmi in balia della tempesta, senza riuscire a tornare in porto, e rimanere per sempre invischiata in un infinito tira e molla come faceva la maggior parte delle mie colleghe.

Per cosa, poi? Per un paio di mesi di passione seguiti da lacrime e messaggi con spunte blu senza risposta?

No, grazie.

Meglio il banale ma rassicurante quotidiano fatto di piccole certezze, quello che Cate definiva «l’inconsapevolezza del pesce rosso nella boccia».

Ed era proprio quello il segreto per una vita serena: l’inconsapevolezza.

Perché finché non sai cosa c’è là fuori, non puoi desiderarlo e ti fai bastare quello che hai.

E quello che avevo mi bastava: loro due e Paolo che era la mia coperta di Linus, una certezza di cui sapevo di poter fare a meno in ogni momento, ma che, per ora, stava lì.

Ma non avevo rimpianti.

Il mio desiderio di maternità era stato pienamente soddisfatto dall’arrivo di Gabriel, per il quale l’unica cosa che non avevo fatto era stato allattarlo al seno.

Per il resto avevo avuto il pacchetto completo di notti insonni, pannolini e corse al Gaslini per una brutta tosse o una diarrea.

E se avessi dovuto definirmi con qualche aggettivo, ero una zia appagata, un’amica devota, una lavoratrice indefessa e un’amante ordinaria.

E sì, per i miei parametri, potevo dirmi serena.

(Continua in libreria…)

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