“Tabù” è un viaggio nella volontà di violare il comandamento “non desiderare la donna d’altri”: Giordano Tedoldi evoca un mondo dove sacro e profano, lecito e illecito, piacere e dolore, si fondono seguendo ragioni profonde e indicibili – Su ilLibraio.it un capitolo

Protagonista di Tabù (Tunuè) è il professore Piero Origo, deciso a sedurre Emilia, la moglie del suo migliore amico.

Quello che in fondo Piero desidera è esplorare le conseguenze di questo atto: fin dove è possibile spingersi? Cosa succede quando si infrange un tabù? E per scoprirlo, spingerà la sua ricerca via via sempre più oltre.

Giordano Tedoldi, scrittore romano, classe 1971, con Tabù propone un romanzo di magica immoralità, ed evoca un mondo dove il sacro e il profano, il lecito e l’illecito, il piacere e il dolore, si amalgamano seguendo ragioni profonde e indicibili.

Quando Piero Origo seduce Emilia, la moglie del suo migliore amico, si sente un antropologo dell’adulterio che studia il tradimento come un rito di passaggio universale. Piero cerca il limite oltre il quale la tavola della legge va in frantumi, così i “triangoli”, la vita in una comune dove regna l’anarchia sessuale, l’amicizia con un sacerdote che tenta di imbrigliare il suo edonismo, l’incontro con una giovane vergine dai sogni purissimi, fino al ritorno di Emilia, misteriosamente velata, saranno tappe di un viaggio nella volontà di violare il comandamento-tabù che, in una società che non rispetta nulla, incute ancora soggezione e attrazione: non desiderare la donna d’altri.

giordano tedoldi tabù

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo il secondo capitolo:

Spinsi il portone di ferro e vetro e fui dentro. A destra cominciavano i gradini, dovevo salire al terzo piano o al quarto? Non ricordavo mai quando li andavo a trovare. Evitando l’ascensore, feci le scale guardando tutte le porte, i campanelli, le etichette. I singoli, gli uffici, le coppie, le cifre. Al terzo piano c’era il campanello con il binomio Gattaponi-Guicciardi. Prima di entrare guardai l’ora sul cellulare, le quattordici e ventidue. Chiusi la porta e domandai permesso. L’ingresso, spazioso, tinteggiato in un giallo tela, era sempre stato vuoto, e per la prima volta quel vacuo mi sembrò un’imperfezione, un segno di sciatteria in un appartamento per il resto arredato con tutto l’impegno di chi è convinto di avere un gusto. Emilia, balzando fuori dalla cucina, accompagnata dallo schiocco dei tacchi, con i capelli neri che s’era lasciata crescere lunghissimi, la testa inclinata a destra, jeans e camicia grigio perla aperta alla Robespierre, mi rivolse un festoso «Ciao!» e, afferrandomi le braccia, mi depose sulle guance due morbidi, prudenti baci. «Mi dispiace di questa improvvisata» le dissi. «Ma figurati! Solo che alle quattro devo uscire per andare a vedere una casa con Arianna, che ha deciso finalmente di andarsene dalla sua dove paga un’enormità e non ce la fa più». «Casa di Arianna, non ci sono mai stato». «È bella, ma non li vale tutti i soldi che le chiedono. Che facevi da queste parti?» Riportai lo sguardo su di lei. «Niente, camminavo. Ho fatto tutta una passeggiata, lunga, da stamattina, oggi sono un po’ inquieto. E così…» «Ma allora non hai pranzato! Fantastico, pranziamo insieme». «Nemmeno tu?» «Macché, sono tornata da mezz’ora, sono dovuta passare nell’ufficio di Domenico per prendere delle cose che non voleva restassero lì. Apparecchio in terrazza, che dici? Non fa freddo ancora». «No per niente, anzi, si sta bene». «Guarda, non ho molto: prosciutto, mozzarella di bufala, un tiramisù fatto da me che è stato un po’ un esperimento e che non sei obbligato a assaggiare, sennò posso fare una pasta con le verdure». Intanto eravamo passati in cucina. «Per me prosciutto e mozzarella di bufala vanno benissimo, cioè la mozzarella non potrei, ho una specie di colite, ma in effetti ne ho proprio voglia…» «Ma sì dai che se hai tanta voglia non può succederti niente. E ho anche il vino, bianco, buono». «Allora hai tutto, perché dici che non hai molto?» Emilia mi guardò fissa, con un po’ di lontana e sospesa vaghezza nel punto di fuga dello sguardo, non era nulla di straordinariamente significativo questo suo vezzo, le capitava spesso e apparentemente in modo del tutto casuale, ma io avevo cominciato, da un certo momento in poi, a badarci come se fosse indizio di un segreto profondo. Ti guardava negli occhi aprendo caverne di possibilità, come se stesse sul punto di prendere una decisione epocale, e quando riprendeva a parlare dopo quelle soste, nelle quali davvero avrebbe potuto ucciderti, o uccidersi, la voce non era più costruita, fatta da lei; veniva su da sé, più fragile ma straordinariamente toccante. Subito dopo disse appunto una cosa banale, di prendere io bicchieri e posate da una certa credenza in cucina, ma con quella voce che echeggiava e sbatteva ancora nella mente mentre eseguivo, aiutandola a apparecchiare sul tavolino di legno in terrazza.

Affacciati sul cortile interno che accoglieva uno splendido albero del paradiso, era facile per me distrarre lo sguardo sull’abbondante fioritura rossiccia che lo faceva sembrare, sotto il picchiare del sole, una cupola di terracotta. Non volevo guardarla troppo spesso, perché naturalmente avrei passato ore solo a guardarla. Forse le sembrava curioso che tacessi a lungo tra un boccone e l’altro, ma anche questo non potevo evitarlo. A un certo momento mi lanciai. «La verità è che da qualche tempo mi sei mancata» le dissi, concentrando in quel “da qualche tempo” il diradarsi delle occasioni dopo il matrimonio, fino al distacco completo. Anni, dunque, fino all’incontro della festa. Chinai la testa, presi un boccone dal piatto, alzando lo sguardo sulle sue mani che tenevano le posate, e sull’anello matrimoniale, anche, certo. Che, tengo a precisarlo, non mi fece alcun effetto. Il che non vuol dire che non temessi il suo simbolismo: i simboli non devono fare alcuna impressione appariscente, se vogliono legarti col vincolo ideale, non con lo sfarzo della forma o le false promesse degli ornamenti. In generale trovo le fedi, come oggetti, miserabili. Evidentemente è il riflesso del loro significato esaurito, sono maschere funebri, ma che promettono, giurano, sorridono. Poiché lei non diceva nulla, mi sentii camminare nel vuoto, ma non certo per questo ero spaventato. Precisai. «Mi sei mancata al modo in cui si sente la mancanza di una persona che non è giusto perdere. Non è sano». Parla ancora, spiegati ancora meglio, se possibile con frasi più belle di questa, puoi fare meglio, lo so: queste le parole che Emilia sembrava evocare col suo silenzio. «Sai come mi sei mancata? Come una donna nascosta in un armadio. Non fa bene nemmeno a te stare chiusa là dentro. Per esempio i capelli, perdono lucentezza». Emilia scoppiò a ridere. «Ma cosa stai dicendo?» Era arrossita, si era fatta del colore di terracotta dei fiori sospesi di fronte al terrazzo. Mi sporsi appena col gomito dal parapetto e ebbi le vertigini; sensazione piacevole. «Puoi mandarmi via in ogni momento» dissi. «Piero, smettila e assaggia il tiramisù». Presi una cucchiaiata. «Buono». «Davvero?» L’entusiasmo di Emilia era un ostacolo, così come i pugni sollevati sulla tavola in segno di vittoria perché continuavo a prendere cucchiai di quel dolce qualunque. «Buono, buono. Ho mangiato schifezze allucinanti preparate da te, ti ricordi, le prime cene, quando si dovevano assaggiare i cibi e anche te». Emilia mi guardò con un sorriso che mostrò la sua dentatura un po’ accidentata, un’imperfezione cui taluni si appigliano per dire che non è poi così bella, io con loro, i primi tempi, quei giorni che stavo proprio ricordando. «Io non sono buona da mangiare, Piero, e allora ero anche più magra». «Dipende da quanta fame di te si ha, e poi chiunque è buono, se lo si vuole mangiare un po’ alla volta. A ogni modo, ti sarai resa conto che quando ci sedevamo al tavolo di là a ranghi completi, scapoli, coppie lecite o illecite, sposati con o senza prole, tanto che mi stupivo che ci dovessimo essere proprio tutti – solo in quelle cene c’era udienza plenaria – ti sarai accorta che erano delle prove generali, esercitazioni matrimoniali. Insomma, che eri esposta alla nostra valutazione». «E anche tu hai dato il tuo giudizio?» «No, io no. Né Domenico me l’ha mai chiesto, perché tra maschi non usa. Siamo contorti, sai, ti offro mia moglie ma non azzardarti a dire una parola su di lei. Funziona più o meno così». «Se anche quelle cene fossero state dei collaudi, come dici, non ci troverei nulla di strano». «Tu non ti divertivi affatto, Emilia. Era tutta una buffonata». Inaspettatamente, Emilia non risponde nulla. Non penso certo che con ciò sottoscriva, e poi sì, in un certo senso, quelle sere ci siamo proprio divertiti, tutti quanti. «Piero, sai che tu piaci a Giuliana?» «Non ci casco». «Dico davvero!», e tornò il suo fastidioso, importuno entusiasmo, «Guarda, veramente, penso che potresti prenderla seriamente in considerazione». «Ho una donna». «Ma non la ami». «Che ne sai?» «La tradisci!» «Come lo sai?» «Me l’ha detto…» «Domenico». «Sì». «Non si tiene un cecio in bocca». «Sei il suo migliore amico! E io sono sua moglie». «Che bel sillogismo». «Vado di là, faccio un caffè, poi puoi restare mentre mi cambio e… esco, usciamo». Certo, ognuno esce e va per la sua strada, rassicurati. «Va bene». Da quanti anni avevo sognato, e provato questo incontro? Bevuto il caffè, pensai di riprendere le manovre, non potevo farmi sviare così facilmente: «Ma dopo aver visto la casa o le case con Arianna, che fai? Mi incuriosisce la tua vita solitaria in queste stanze, nella città vuota». «Niente». «Niente?» «Dai smettila». «Ma non sto facendo nulla». «Stai cominciando a farlo» rispose Emilia alzandosi e togliendo i piatti; mi alzai anch’io per aiutarla. Mi sentivo intollerabilmente scontato nel mio calarmi nel ruolo di seduttore della moglie del migliore amico. Ci dev’essere un modo per avvicinarsi al recinto sacro, senza risultare così patetico, pensavo. Forse certe soglie rincretiniscono chiunque si provi a oltrepassarle. Del resto cosa c’è di più patetico e cretino del concetto che Domenico, lui, fosse diventato un divieto, un limite? E Emilia con lui? Erano solo due sposi del ventunesimo secolo, fragilità quintessenziale dunque. Eppure, il limite, la soglia fissata col loro patto, si sentiva come una doccia fredda su ogni mia mossa. Ma d’altronde, rifletto oggi, se il seduttore è destinato a una ridicola goffaggine, a sentirsi improvvisamente brutto e mezzo matto, non può avvantaggiarsene? Chi insidi la moglie del migliore amico può trovare ausili insperati nella goffa ambizione, nella violenza sfacciata dei modi, col suo invitarla a ballare, e poi pestarle i piedi. E se non basta, forzare ancora fino all’imperdonabile dell’andare alla guerra come alla guerra. «Quando torna Domenico?» «La settimana prossima». Non c’era alcuna ambiguità nella sua sicura risposta, ma non si creda che ambiguità e sicurezza di toni abbiano grande valore sul campo di battaglia. «Ma davvero piaccio a Giuliana?» Ci si deve muovere con circospezione. I corpi franchi vanno stroncati per primi. Giuliana era stata richiamata in servizio per difendere le mura assediate. «Sì», la risposta di Emilia trillò con meno entusiasmo di quando aveva preso l’argomento, al punto che la dovette ripetere con l’allegria che ci si aspettava da lei: «Sì!» La guardai e lei, credendo che me lo aspettassi, disse per la terza volta, in intensità smorzata, «Sì, tu piaci molto a Giuliana». Uno dei miei marescialli, il più avido di gloria personale, diede l’affondo. «A me piaci molto tu». Fece finta di non aver ascoltato, come nei filmetti: cosa avrebbe dovuto fare? Ero sceso io a quegli scantinati dove si ammassavano cuori palpitanti e uniformi insanguinate. Un poco stordito, mi staccai dalla conversazione che era diventata una ciarla insulsa, e osservando Emilia e seguendola nel suo andare e venire, combinai tutti i tasselli di quel pomeriggio di fallito assedio: cucina, posate, caffè, jeans, stivaletti alla caviglia, taglio di capelli, dentatura accavalcata, fede, assenza del marito, la casa in generale. Al confronto di quella caotica pienezza, l’unità della mia esistenza era un gracile tentativo bagnato di lacrime. Un individuo inselvatichito di fronte alla vivente metà della sfolgorante, appariscente forma nuziale. «Con Giuliana sarebbe solo sesso, però» ripresi. «Be’ non è poco» rispose Emilia. «No, ma non è nuovo». Emilia mi lanciò un’occhiata fredda, quasi offesa, non nei miei confronti, se la conoscevo bene, ma in quelli di Giuliana che non le aveva detto niente. Come aveva osato non dire nulla alla monarca? A una donna sposata non si vorrà negare il piacere di continuare a spettegolare, di annusare nelle cucine altrui. Il pensiero che mentissi non la sfiorava. Imbarazzata, si agitò: «Senti, io vado a cambiarmi, forse non è il caso che rimani». I suoi occhi erano fissi su di me, avevano una tinta cupa del tutto inedita, estremamente affascinante, e teneva una mano alta sulla guancia sinistra, come a accarezzarla protettiva, mostrando la fede. Cosa volessero comandarmi quegli occhi e quel gesto, non era chiaro; avrei preferito lo fosse. «No, non è assolutamente il caso» la assecondai e, mostrando una sensibilità più ferita del reale, andai a passo svelto alla porta, accendendo nervosamente la luce dell’ingresso per illuminare quell’antro. Aprii io la porta, provando tutta l’alienante stranezza di una maniglia poco familiare. «Mi dispiace!» esclamai a alta voce, che è una frase incredibilmente più efficace di quanto certa idiozia virilistica non autorizzi a pensare. Certo, dipende anche da chi la pronuncia. A me è sempre venuta discretamente. Ho fatto del fare tenerezza, o pena, un’arte. Mi voltai, Emilia era ferma sulla soglia tra il salotto con il tavolo da pranzo, le sedie, i divani, e l’ingresso desolato. Un simbolismo pacchiano sul contrasto dei due ambienti suggeriva vita e morte. Mi guardava con la testa inclinata. Con uno dei suoi repentini, incausati cambi d’umore, mi sorrideva. Cominciò a scuotere i capelli sugli occhi. Potevo leggere in trasparenza i suoi pensieri. Pensava: «Sei un dolce, dolce caso umano. E mi piaci. Però…» Fece qualche passo verso di me, incerta, e notai per la prima volta sotto l’occhio sinistro, che si era sfiorata con gesto singolare e come compulsivo poco prima, sullo zigomo illuminato dalla forte luce elettrica, che quello che avevo creduto uno sbaffo del trucco somigliava piuttosto a un livido coperto sotto molto fondotinta e correttore per le occhiaie. Ora era vicina a me, e con tono fatuo e consolatorio mi disse: «Dai, gli amici io li voglio rivedere, tu no?» Allungai un dito e toccai il bluastro sullo zigomo. Emilia lanciò un gridolino. Mi affrettai a andarmene.

(continua in libreria…)

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