Un avventuroso viaggio estivo in Croazia, fino a Mostar e a Sarajevo, nel corso dell’estate del ’96. La Milano degli anni ’80, tra droghe, new wave e centri sociali… Su ilLibraio.it un capitolo da “Gli ultimi ragazzi del secolo”, il nuovo romanzo di Alessandro Bertante

Luglio 1996. Un viaggio estivo in Croazia porta il protagonista de Gli ultimi ragazzi del secolo (Giunti), nuovo romanzo di Alessandro Bertante, insieme a un amico, fino a Mostar e a Sarajevo per toccare con mano i segni di una guerra non ancora finita. Attraversando con una Panda le montagne bosniache, Bertante (il protagonista porta il suo stesso nome) racconta le devastazioni e le paure del conflitto balcanico.

Durante questo avventuroso viaggio, il narratore si mette a nudo, raccontando la sua generazione cresciuta negli anni Ottanta, un serpente che vediamo snodarsi attraverso le canzoni, i film, l’abbigliamento, la trasformazione di Milano, l’eplosione delle tv commerciali, la new wave e i centri sociali, fino alla mattanza delle droghe pesanti e alla tragedia dell’AIDS.

Gli ultimi ragazzi del secolo

Su ilLibraio.it un capitolo
(per gentile concessione di Giunti)

(…)

Con passo militare attraverso Loreto, nella testa suona ancora il punk jugoslavo del gruppo Borghesia. Devo essere rapido, il primo tratto è quello più pericoloso, sull’angolo con la circonvallazione esterna si fermano le bande di teppisti di periferia che a fine serata non hanno ancora trovato nessuno da picchiare. Non ho paura, il cuore pompa forte, l’anfetamina mi dona coraggio ed energia, la musica mi accompagna in ogni passo. Milano Metropoli degli anni Ottanta è la mia a casa e io sono pronto a  tutto.

Superato il semaforo m’immergo nel grande fiume luminoso di corso Buenos Aires, le automobili sfrecciano veloci in entrambe le direzioni, seduti all’incrocio ci sono i marocchini con le cassette piene di sigarette, o forse sono egiziani, algerini, tunisini, magrebini generici ma Milano le sigarette le vendono i marocchini non bisogna fare precisazioni inutili, i clienti si fermano e li chiamano per nome, Abdul, Mario, Mohamed, scambiano due parole, comprano la stecca di Marlboro che costa meno e sono buone lo stesso;  la musica continua a rimbombare nella testa e io vado dritto costeggiando le vetrine dei negozi, sono centinaia, moderni, luminosi, vendono l’abbigliamento del nuovo immenso popolo televisivo che non si accontenta più della Standa, dell’Onestà e dei mercati rionali, vendono l’elettronica accessibile alla gente, le scarpe americane con la para a carro armato, i gadget, le felpe colorate, il frullato alla  frutta che fa bene ma che non si può dare a un cane randagio; le luci del corso si spengono quando arrivo ai Bastioni di Porta Venezia, dove un tempo c’erano le mura spagnole del Ducato ora battono ragazzi arabi e slavi, fuggenti sagome umane nascoste fra gli alberi, io cammino in mezzo a loro, identico a loro, lungo il viale le automobili berline rallentano, procedendo a passo d’uomo, uomini anziani mezzi calvi, bianchi con gli occhiali d’orati buttano fuori la testa dal finestrino, valutano la merce da comperare, valutano anche me ma io non sto lavorando e ogni somiglianza si dimostra fasulla; vado avanti nel freddo della notte, camminatore instancabile, costeggio i giardini di Palestro fino a raggiungere piazza Cavour e poi il quartiere di Brera, dove i gagliardi nottambuli della Milano danarosa accompagnati da donne con le gambe lunghissime cominciano scorribande che dureranno fino al mattino, dance all night, la nostra festa non finirà mai; questa è la Milano autentica, la Metropoli degli anni Ottanta che vogliono vendere per il nostro futuro: cocaina e gin tonic, il buttafuori è un mio caro amico, quaranta gocce di lexotan, il cappotto di cashmere beige, uomini abbronzati con i capelli fluenti risplendono in tonalità giallastre davanti all’entrata del locale, ma è tardi il trucco cola lungo il viso della ragazza bionda, era la più bella della liceo pochi anni fa; passo in mezzo a loro invisibile pensando che questi anni già dimenticati dureranno per sempre; il Castello Sforzesco mi  aspetta con la sua stentorea bellezza, ogni volta mi sembra più grande, è impossibile ricordare ogni momento, le storie si accavallano e io sono ubriaco e fatto di anfetamina, sono invulnerabile, sono il guerriero ramingo che vaga nella notte; vorrei entrare nelle mura, violare le segrete, aggirare il ponte levatoio ma la grata di acciaio è abbassata, allora scendo nel fossato, sotto dieci metri di pietra respiro l’inverno gelido delle guerre eterne, degli assedi e delle ribellioni, tremo nel mio impermeabile troppo leggero mentre con i palmi delle mani raggiungo il suolo, l’erba rada non riesce a nascondere la durezza della terra; io sono sempre solo, vi prego ridatemi l’amore, ridatemi l’amore; superato il Castello, attraverso il viale delle grandi ville patrizie, la città torna di nuovo a spegnarsi dentro l’eleganza ottocentesca di piazza Conciliazione, l’impeto è finito, l’energia si disperde sull’asfalto, le gambe sentono la fatica e il passo rallenta, intorno a me tutto tace; rimangono i particolari, i fregi e i giardini,i palazzi signorili sono il premio di ricchezze antiche, suoli fertili, commercianti pionieri, il lavoro che pretende fedeltà e ancora lavoro per sempre; ma non importa, procedo lungo via Monte Rosa. L’avventura è finita, non c’è più niente per me, solo prostitute in pelliccia che fumano dentro alla macchina lussuosa parcheggiata sul ciglio della strada; povere donne, sono anziane con i clienti affezionati da decenni, poveri uomini, ancora innamorati alla fine della vita.

Alzo la testa dall’impermeabile, vedo le luci di piazzale Lotto, il viaggio è quasi finito, cammino l’ultimo chilometro.

(continua in libreria…)

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