Conosciuta come Emily Doe, Chanel Miller ha raccontato di essere stata aggredita sessualmente attraverso una lettera indirizzata all’uomo che l’ha violentata. “Io ho un nome” fa luce su una cultura e un sistema giudiziario viziati, ma testimonia anche come il trauma della violenza, fisica e processuale, si possa curare con il potere delle parole, come ci voglia tanto coraggio per muoversi nella sofferenza e tornare a vivere

Conosciuta come Emily Doe, ha attirato l’attenzione in tutto il mondo con una lettera indirizzata all’uomo che l’ha aggredita sessualmente: Brock Turner. Una notte di gennaio, dopo una festa nel campus della Stanford, Turner – il classico bravo ragazzo, bello, atletico e intelligente – ha abusato di lei. Emily era ubriaca. Quando si è svegliata, il giorno dopo, non ricordava nulla.

Nonostante il suo fosse il “caso perfetto” sotto molti aspetti – dei testimoni oculari hanno fermato Turner, che ha confessato subito – il giovane, ritenuto colpevole di tutte le accuse, è stato condannato a soli sei mesi poi ridotti a tre. Mentre a Emily non è stato risparmiato l’isolamento e la vergogna destinati alle vittime di stupro.

Il processo non le ha reso giustizia, rivelando invece con quanta facilità in casi come questo la responsabilità e il danno ricadano sul più debole. Ora, riappropriandosi del suo vero nome, Chanel Miller, scrittrice e artista, che ha studiato Letteratura all’Università di di Santa Barbara e che vive a San Francisco, decide di raccontarsi nel memoir Io ho un nome (uscito per La Tartaruga, con la traduzione di Francesco Vitellini) .

io ho un nome Chanel Miller

Come scrive il Guardian in un articolo che spiega nel dettaglio il caso di Miller, le parole della ragazza sono state una sorta di manifesto per tutti coloro che hanno vissuto la sua stessa esperienza: “La lettera di Miller ha sbalordito i lettori con la chiarezza della sua voce, l’acuità della sua rabbia e l’ampiezza della sua empatia nei confronti di coloro che hanno bisogno di sostegno. La sua storia offre ad altre vittime un linguaggio condiviso; Miller ricorda di aver ricevuto a sua volta migliaia di lettere di supporto da donne che raccontano le loro storie”.

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La sua storia fa luce su una cultura e un sistema giudiziario viziati, ma testimonia anche come il trauma della violenza, fisica e processuale, si possa curare con il potere delle parole, come ci voglia tanto coraggio per muoversi nella sofferenza e tornare a vivere una vita piena.

Soprattutto perché anche le “cose” rotte possono tornare a brillare: non a caso le venature in oro sulla copertina del libro rappresentano l’arte giapponese del kintsugi, letteralmente “riparazione in oro”, che si usa per valorizzare le crepe degli oggetti di porcellana con una mistura di polvere d’oro e smalto, invece di trattarle come imperfezioni da nascondere. Un’antica tecnica che mostra come, benché niente possa tornare al suo stato originario, i frammenti possano dare vita a qualcosa di nuovo e di intero.

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