Nel memoir letterario “La mia Babele” Marcello Fois racconta aneddoti riguardanti il rapporto con i traduttori dei suoi libri, storie bizzarre e divertenti che costituiscono una riflessione sul rapporto traduzione-tradimento – Su ilLibraio.it un estratto

Marcello Fois, autore e sceneggiatore, ha firmato libri di tradotti in molti Paesi. Lo si può dire per altri scrittori, ma il fatto di essere stato tradotto è per Fois, nato a Nuoro nel 1960, un elemento fondante del suo ultimo lavoro. Parliamo del memoir letterario La mia Babele (Solferino), che costituisce una novità rispetto alla precedente produzione dell’autore sardo, che da anni vive a Bologna.

Tra le opere più recenti di Fois (edite da Einaudi) ricordiamo infatti Del dirsi addio, il libro in versi L’infinito non finire, Pietro e Paolo, la storia di un’amicizia duratura che va oltre le differenze sociali, e L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore. Dal suo racconto Carne, inoltre, è stata tratta una graphic novel disegnata da Daniele Serra (Guanda).

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E veniamo a La mia Babele, un viaggio verso il paradosso dell’atto di traduzione senza tradimento, raccontato non dal punto di vista del traduttore, bensì del tradotto. L’autore, infatti, presenta, aneddoti riguardanti il rapporto con i traduttori dei suoi libri, perché le ha viste veramente tutte: traduttori scomparsi, titoli scambiati, critici confusi, tour letterari in Paesi inquietanti. La sua Babele è un viaggio dentro l’avventura di scrivere e affidare la propria opera al resto del mondo.

la mia babele marcello fois

Su ilLibriao.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Scrivo male, questo è sicuro: le «b» non le so fare e le «e» maiuscole ancora peggio. Tutto il ricciolamento mi riesce malissimo. Spunto le matite a furia di calcare e poi non so nemmeno riappuntarle perché divento nervosissimo ogni volta che bisogna compiere azioni pratiche. I miei genitori si sono convinti che per il fatto di essere riuscito a tradurre i segni in suoni io sappia leggere. Ebbene, giuro, che già a cinque anni non ero tanto sicuro sulla solidità di quel postulato. La sindrome dell’impostore nasce quando non hai il coraggio di dire ai tuoi genitori che è del tutto impreciso affermare, e vantarsi ai quattro venti, che il proprio bambino genio sa già leggere, perché così non è.
Cioè, lo è solo in parte. In ogni caso, quest’altro tipo di traduzione, cioè dal suono al segno, non mi viene bene quanto l’altro, quello dal suono al suono. Infatti le mie paginette di «f» o di «g» sono un autentico disastro. So fare bene le «o» e le «M» ma solo perché M è la mia lettera, quella del mio esotico nome. Sulla «m» tuttavia ancora zoppico perché dopo un buonissimo inizio, grazie alla metafora, per me fulminante, del pensare alle gobbe di un cammello, ecco che la maestra Ines rovina tutto: sull’onda dell’entusiasmo per il successo della metafora precedente, mi consiglia di associare la «n» alla gobba del dromedario. E il dromedario, di cui non ho mai sentito parlare, mi manda in totale confusione. Ragion per cui «m» ed «n» diventano improvvisamente il mio incubo: è il cammello con due gobbe o il dromeche? In una specie di CV delle origini avrei potuto dichiarare: Lettura, buono; Scrittura, sufficiente. E «Far di conto»? Un vero disastro. I numeri mi piacciono esteticamente direi, ma non so proprio che farne. La maestra Ines mi spiega che attraverso i numeri noi possiamo conoscere la quantità: «Quante ciliegie hai mangiato, per esempio». La risposta sarebbe «tante» segno che poi dei numeri c’è relativo bisogno. «Sì» insiste lei «ma tante quante? Dieci? Venti? Trenta?» Esagera. La risposta sarebbe «Tutte», ma ho capito che di questo passo non si va da nessuna parte. Se ho afferrato correttamente, l’urgenza attuale è di imparare a scriverli bene, i numeri, a dar loro un senso ci penserà, ad ottobre, la maestra o il maestro vero, quello nella scuola vera.

E poi c’è un fatto: a casa io non parlo l’italiano. Lo conosco, questo è certo. I miei genitori sono sardoparlanti e così i miei nonni e tutti i miei parenti, da qui la specificazione non gratuita che l’italiano non lo parlo «a casa mia». Altrove sì. Bene? È un’altra storia… Il mio traduttore simultaneo lavora a fasi alterne, sarebbe a dire che posso comunicare ma non è che io sia un fine dicitore. Spesso traduco alla lettera e sposto. La parola tassa, sa tassa, che in nuorese vuol dire «bicchiere», ma anche «tazza», mi fa penare perché la parola con cui la traduco «tazza», «la tazza», in italiano non vuol dire anche «bicchiere». Eppure in nuorese abbiamo solo quella per dire l’una e l’altro! (Ancora da adulto quando mi trasferii a Bologna per l’università entrai in un bar del centro e chiesi «una tazza d’acqua per favore». Il barista mi guardò strano poi prese una tazza da tè di quelle che erano impilate sulla macchina che produceva il vapore oltre a fare il caffè, e mi chiese, mostrandomela: «La vuole qui l’acqua?».)

Ad ottobre, quando arrivò il mio primo giorno di scuola, dunque, sapevo di lettura bene, di scrittura così così, di numeri abbastanza a patto che non servissero a qualcosa. Capitai nella seconda sezione A del maestro Francesco Olla. E, soprattutto, buon trentatreesimo di una classe di trentadue alunni affiatati tra loro. Ero più piccolo oltre che d’età anche di statura, il che mi valse un posto nei banchi delle prime due file che il nostro maestro, quasi Perboni, aveva riservato a quelli più bassi e che lui chiamava Banda Bassotti. Body shaming? Oggi forse si direbbe così, allora ci pareva logico che i più bassi, considerata la disposizione ecclesiastica delle classi con in banchi in fila e l’altare/cattedra, stessero nei posti davanti e i più alti in quelli dietro. In ogni caso ero nella Banda Bassotti e ben presto, considerata la mia propensione a calcare e a spezzare le punte dei lapis, sarei entrato come membro d’onore anche nel club Zampe di Gallina. Una tendenza che mi sarei portato fino alle scuole medie riducendo ogni pagina da me scritta come un foglio Braille. Ma questa è un’altra storia. Quello che conta è che, finita la vacanza piena di comprensione didattica della malinconica maestra Ines, si procedeva col draconiano, ma giusto, maestro Olla.

Al quale mio padre consigliava le peggio cose, tipo di insegnarmi l’italiano a calci se fosse stato necessario.

Oppure di non lesinare punizioni. E quelle erano opzioni che il buon maestro mica scartava a priori, anzi.

In un compito in classe di «pensierini» io scrissi letteralmente: «Mia mamma fa a babbo i maccarroni con la bagna». Componimento, evidentemente di carattere gastronomico, che tradotto sarebbe: «Mia madre cucina per mio padre la pasta asciutta col sugo». Si consideri il fatto che questo pensierino è probabilmente il primo componimento autonomo scaturito dalla mia mente assai prima che io potessi considerare anche solo l’ipotesi di poter fare lo scrittore nella vita. Qualcosa che ha a che fare col mio personale Placito Capuano (Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti) e cioè in assoluto il mio ingresso nel mondo della letteratura. C’è da considerare che anche nel mio caso si tratta di un’origine traslata. Cioè di una lingua madre che si è volgarizzata per adattarsi ad una koiné che permetta una comunicazione più diffusa. Io ho sperimentato in prima persona quel passaggio linguistico che non si limita alla cadenza, anche nell’italiano più accademico si capisce perfettamente che sono sardo, ma ha a che fare con la sintassi, con la costruzione logica delle frasi. Sicché, per quanto riguarda i casi come il mio, l’unica soluzione che si prospetta è quella del traduttore simultaneo. E la difficoltà che quel traduttore incontra con i «falsi amici»: maccarrones in nuorese è la pasta asciutta in generale, praticamente tutto ciò che non è malloreddos cioè gli gnocchetti. Vale a dire che, nel nostro vocabolario gastronomico d’origine, penne, mezze penne, maltagliati, gramigna, lumaconi eccetera sono tutti uguali. Che cosa nello specifico avesse cucinato mia madre per mio padre è impossibile da dire, si poteva andare dagli spaghetti alle farfalle.

A calci, spesso metaforici, qualche volta reali, il maestro Olla dovette inserirmi in una terza importante
categoria della classe: Banda Bassotti, club Zampe di Gallina e Sardoparlanti. Gracile, con una scrittura impossibile, e con una lingua italiana involuta…

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Marcello.Fois Getty Editorial Agosto 2019