Dopo “Il gioco”, Carlo D’Amicis torna in libreria con “La regola del bonsai”. Un romanzo (di cui proponiamo un estratto) tragico e ironico allo stesso tempo, con al centro la figura del nipote di Hitler
A sette anni, mentre assiste con il padre Rudolf allo sbarco del primo uomo sulla luna, Werner Wolf viene a sapere qualcosa che gli cambierà la vita per sempre: sua madre Klara è il frutto segreto della relazione tra Eva Braun e Adolf Hitler. L’inevitabile conseguenza è che Werner ha avuto in sorte come nonno, anziché un simpatico vecchietto che gli racconti le favole davanti al camino, il più esecrabile criminale della storia: il male assoluto.
La sua vita diventa così un’impossibile fuga da se stesso e dalla vergogna di una colpa mai commessa, mentre la madre, bellissima cantante d’opera fallita, vende il proprio sangue a decrepiti filonazisti per una bottiglia di vodka.
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Cinquant’anni dopo Werner vive – senza passato e soprattutto senza futuro – in una baracca ai margini di Berlino. Trascorre le giornate in solitudine, cammina nei boschi, raccoglie oggetti dalla spazzatura e si barcamena tra l’ostilità del padre Rudolf, anziano e paranoico vivaista appassionato di bonsai, e gli assalti di Danny Grunberg, logorroico agente di spettacolo deciso a trasformarlo in un fenomeno da baraccone, convinto che la memoria sia il vero business del nostro tempo.
Da questo vicolo cieco parte un imprevedibile viaggio, reale e soprannaturale al tempo stesso, dalla Germania all’estremo Sud dell’Italia. Un viaggio che, attraverso l’incontro con una ragazzina impertinente e poco incline alle lezioni della storia, catapulterà il nipote di Hitler in una dimensione arcana e sospesa, dove tutto – perfino l’incancellabile macchia di Werner – potrà essere illuminato da una luce diversa.
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Una storia raccontata dal nuovo romanzo di Carlo D’Amicis, La regola del bonsai (Mondadori), tragico e al tempo stesso ironico. D’Amicis, nato a Taranto nel 1964, vive a Roma, ed è autore dei programmi di Rai 3 Quante Storie e Le parole per dirlo e del programma di Radio 3 Rai Fahrenheit.
Nel 2018 il suo ultimo romanzo, Il gioco, sempre edito da Mondadori, era stato finalista al premio Strega.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Quand’ero bambino, tutti i sabato mattina i miei genitori mi caricavano sulla nostra vecchia Borgward e si dirigevano verso mete misteriose. Erano misteriose non solo per me, ancora troppo piccolo per distinguere Monaco da qualunque altra città tedesca, ma anche per Rudolf, che immancabilmente, lasciatosi alle spalle la Baviera, imboccava una strada sbagliata (da me pretendeva che conquistassi il mondo, ma lui si perdeva tra i Länder della Germania Ovest).
Quando finalmente, dopo aver perseverato nell’errore per decine di chilometri, decideva di fermarsi per consultare la cartina, la mamma approfittava della sosta per cambiarmi il pannolino (preferì lasciarmelo fino a otto anni, piuttosto che stare a lavarmi in continuazione le mutande) e per mandare giù mezza fiaschetta.
Tutto quello spargimento di liquidi intorno a sé irritava ulteriormente Rudolf e lo spingeva, per contrasto, a una comunicazione sempre più asciutta. Così, a monosillabi, si rimetteva sulla strada e non diceva più mezza parola fino alla sosta successiva, che in genere coincideva con la stazione di servizio meno frequentata.
Era lì che i miei genitori si mascheravano: a turno, senza dare nell’occhio, scendevano dalla macchina e s’infilavano nei cessi dell’autogrill tenendo sul braccio una custodia da viaggio.
Quando tornavano, mio padre si era trasformato in un damerino in smoking di mohair e mia madre una dark lady in abito da sera, sopra al quale, risalendo in macchina, avrebbe appoggiato una pelliccia di visone. L’eleganza aveva il potere di attenuarli, da quel momento si lasciavano alle spalle il nervosismo e riprendevano a parlarsi civilmente.
«Che ne dici se stasera parto con una bella operetta italiana?» azzardava la mamma.
Dal mio punto d’osservazione sul sedile posteriore, vedevo Rudolf stringere le dita intorno al volante e contrarre la mascella.
«Preferirei di no, cara. La famiglia non apprezzerebbe, e nemmeno io.»
In realtà, a ripensarci, il nervosismo li accompagnava fino all’arrivo, ma in una forma raggelata che bene si adattava al clima metereologico. Freddo, pioggia, a volte neve apparivano ancora più ostili nelle periferie suburbane dove quei viaggi avevano termine.
All’ombra di un capannone industriale o nei pressi di qualche cantiere, Rudolf spegneva il motore e faceva brillare nel buio una sigaretta. A volte, ad attenderci, c’era già un’automobile con i fari accesi, ai quali mio padre rispondeva lampeggiando quelli della Borgward.
Prima di scendere e trasferirsi sull’altra macchina, tra marito e moglie c’era tempo per un’ultima discussione dedicata ai finestrini. Lo spiraglio che Rudolf avrebbe voluto lasciare superava a malapena il centimetro: secondo lui, un’apertura maggiore avrebbe consentito ai malintenzionati di infilare
all’interno un filo di ferro e di uncinare la sicura. La preoccupazione di mia madre, invece, era che morissi soffocato.
Alla fine – essendo in fondo preoccupato anche mio padre – riuscivo a ottenere due dita d’aria per ciascuno dei quattro sportelli.
Se avevo già ceduto al sonno (o se, al solito, fingevo di esser morto), Klara si girava verso il sedile posteriore e mi lanciava un bacio con le dita. Altrimenti il congedo spettava all’autorità paterna. Chiusa a chiave la macchina, Rudolf si chinava sul finestrino e m’impartiva attraverso la fessura le ultime istruzioni: «Se noti qualcosa di sospetto, figliolo, attaccati al clacson. Noi torniamo presto».
Era una bugia, non tornavano mai prima dell’alba. Zigzagando sulla linea che separava (o forse teneva insieme) il sogno e la realtà, li vedevo riemergere dalla nebbia mattutina – lei con il visone a mantella sulle spalle, lui che la cingeva impedendole di fatto di svenire.
Ad accompagnarli c’era sempre un fattorino bagagliaio. Una volta tornati a Monaco, mio padre li avrebbe rinfrescati e rivenduti a un fioraio di Maximilianstrasse.
Per me, tutto sommato, quelle trasferte erano una specie di gita. Visitavo un posto nuovo (sebbene Dortmund, Hannover, Stoccarda e gli altri centri dove ci recavamo, visti da uno spiazzo dell’hinterland, non fossero poi così diversi l’uno dall’altro), nessuno mi chiedeva niente e io non chiedevo niente a nessuno.
Finché un giorno, durante uno di quei viaggi, mio padre mi cercò nello specchietto e disse di prepararmi, perché stavolta avrei proseguito la serata insieme a loro.
“Proseguire per dove?” pensai rabbrividendo. “E prepararmi a cosa?”
Pregai che non fosse già arrivato il momento di conquistare il mondo – erano passati solo pochi mesi dalla sera dell’allunaggio e mi sentivo tutt’altro che pronto. Senza fiatare, mi strinsi nella giacchetta e guardai la Foresta Nera diventare sempre più nera.
Di lì a poco raggiungemmo a marce basse la sommità di una collina dalla quale si vedeva tutta la città di Friburgo. Una Mercedes ci stava aspettando. Ci fecero accomodare tutti e tre sul sedile posteriore e ci dirigemmo verso il centro abitato. Ricordo che, durante il tragitto, l’autista si voltò a guardare mia madre. L’abito da sera le lasciava scoperte le ginocchia. Piuttosto che godersi la vista delle sue magnifiche gambe, però, gli occhi dell’autista preferirono scivolare sul timido bambino rintanato dietro di lei.
«È lui?» chiese emozionato.
Nelle tenebre dell’abitacolo, avvertii un gelido spostamento d’aria: era il mento di mio padre che annuiva.
Arrivammo in un quartiere periferico, dall’aspetto residenziale, e parcheggiammo la Mercedes nel garage di una villetta ancora in costruzione. Aveva l’aria di essere disabitata, tuttavia, appena spegnemmo il motore, dalla porticina interna del garage si affacciò un uomo in divisa che ad ampi cenni ci invitò a entrare. Le mostreggiature, i pantaloni a sbuffo e gli stivaloni mi fecero subito pensare ai soldatini con i quali giocavamo in salotto.
Una volta dentro mi accorsi che la mamma e io eravamo gli ospiti d’onore: c’era chi batteva i tacchi, chi alzava di scatto il braccio destro e chi, addirittura, si genufletteva al nostro passaggio. Alle pareti si sprecavano le croci uncinate…
Dove non c’erano svastiche c’erano simboli runici, e anche a me fu annodata sul braccio una fascia con degli strani fregi. Una donna premurosa, che spiccava le sillabe come una maestra d’asilo, si chinò sul mio naso arricciato per illustrarmene i significati.
«Questa si chiama Odal, e indica il legame di sangue. Poi c’è la Tyr» continuò mostrandomi una freccia puntata verso l’alto «e sta a significare il comando in battaglia. Infine abbiamo la Eif, simbolo dello zelo e dell’entusiasmo.»
Vedendo che ne avevo molto poco, si girò perplessa verso Rudolf.
«Ma siamo sicuri che è lui?»
«È lui, è lui» confermò mio padre guardandomi storto.
Io ero terribilmente confuso. Non capivo bene cosa dovessi fare. Conquistare il mondo, va bene. Ma cosa c’entrava il mondo con quell’enorme scantinato semivuoto? Perché le finestre erano state sigillate con il nastro isolante? E cosa stavamo a fare là dentro come topi?
Volli convincermi che lo scopo della festa fosse quello di abbuffarsi e stare tutti insieme in allegria. Al centro del salone dominava una tavola imbandita con ogni ben di Dio: stinco bollito, aringa marinata e perfino un sontuoso buffet di ostriche che, non so come, gli invitati riuscivano a ingoiare senza macchiarsi gli abiti eleganti.
Dopo dieci minuti io ero tutto una patacca. Vidi mio padre avvicinarsi a Klara e sussurrarle all’orecchio: «Hai portato una giacchetta di ricambio per il piccolo?».
Figuriamoci. Mia madre s’era dimenticata perfino i pannolini, già dal bivio per Memmingen vagavo nel mondo senza alcuna protezione. Impegnata a civettare con un gruppo di giovani alsaziani, Klara intimò a Rudolf di non seccarla.
«Pensa tu a Werner. In un certo senso è anche tuo figlio, no?» lo provocò platealmente.
Chissà se gli alsaziani avvertirono la nota di sarcasmo.
Di sicuro, quella frase servì a mettere in guardia suo marito.
Che non si azzardasse a sottrarle alcolici e attenzioni maschili o il sarcasmo sarebbe potuto diventare sadismo, come quando, tra le mura domestiche, si divertiva a chiamarlo “gehörnte Schwächling”.
La serata fu lunga, e per me estenuante. La passai in buona parte sulle ginocchia di vecchie bacucche che cercavano a tutti i costi delle somiglianze tra il mio viso e quello di mio nonno. L’atmosfera cospirativa che ci aveva accolto si era trasformata a poco a poco in una riunione di famiglia (dunque era questa, la famiglia!) nella quale si chiacchierava del più e del meno e ci si raccontava barzellette.
Finalmente a mezzanotte si abbassarono le luci e, illuminata da un occhio di bue, Klara salì sul piccolo palco che era stato allestito al centro della sala. Ecco quindi spiegato, mi dissi, il motivo di quei salamelecchi: mia madre era una grande cantante e io non dovevo fare altro che andarne fiero!
Mi sedetti in prima fila e mi lasciai cullare da quella voce melodiosa, che a casa non tirava mai fuori. Il suo concerto avvolse l’intero salone in un’atmosfera magica, nella quale il guscio di ogni ostrica si trasformò nello scrigno di una perla. Eppure, in quella magia, si avvertiva qualcosa di interlocutorio, come se cantare tutti insieme Horst-Wessel-Lied (molto meno intonati di mia madre, tenendo in alto i loro bicchieri, gli spettatori la seguivano in coro) fosse un rito preparatorio a qualcosa di più grande.
Terminata l’esecuzione dell’inno ufficiale del partito nazionalsocialista tedesco, la mamma tenne un breve discorso, nel quale ricordò che suo padre era un artista, che la sua pittura era caratterizzata da flusso e sentimento, e che di certo si sarebbe commosso nel vederci là riuniti, a venticinque anni dalla sua scomparsa, come membri della stessa famiglia.
Mentre lei intratteneva i parenti, un paio di inservienti trasportarono sul palco una poltrona e un tavolo da campeggio, sul quale furono allineate due o tre file di calici d’argento. “Forse è arrivato il momento del brindisi finale” pensai con sollievo. Ma accanto ai calici non vedevo nessuna bottiglia, solo un braciere sulla cui fiamma, da qualche minuto, mio padre stava arroventando la lama di un coltello.
«Tenere accesa la fiammella ha dei notevoli costi» concluse
Klara con un piglio da amministratore di condominio.
«Sappiate contribuire.»
Un attimo dopo protese entrambe le braccia in avanti e Rudolf, con una rapida serie di fendenti, vi incise sopra una mezza dozzina di tagli. Un sangue denso, di un rosso scarlatto, cominciò a sgorgare dalle vene di mia madre e a sgocciolare nei calici. Mentre Klara, sostenuta dai due valletti, si accasciava sulla poltrona, mio padre raccomandò a tutti i presenti di procedere con ordine. Senza dargli retta, una folla di uomini e donne si accalcò ai piedi del palco, ansiosa di abbeverarsi al sangue della storia.
(continua in libreria…)