Mescolando personaggi veri con figure romanzesche, Albinati costruisce una narrazione che affronta i grandi quesiti della vita e del tempo, e mostra il rovescio delle cose. Su ilLibraio.it un capitolo da “La scuola cattolica”

Roma, anni Settanta: un quartiere residenziale, una scuola privata. Sembra che nulla di significativo possa accadere, eppure, per ragioni misteriose, in poco tempo quel rifugio di persone rispettabili viene attraversato da una ventata di follia senza precedenti; appena lasciato il liceo, alcuni ex alunni si scoprono autori di uno dei più clamorosi crimini dell’epoca, il Delitto del Circeo. Edoardo Albinati era un loro compagno di scuola e per quarant’anni ha custodito i segreti di quella “mala educación”. Ora li racconta guardandoli come si guarda in fondo a un pozzo dove oscilla, misteriosa e deforme, la propria immagine. Da questo spunto prende vita un romanzo poderoso, che sbalordisce per l’ampiezza dei temi e la varietà di avventure grandi o minuscole: dalle canzoncine goliardiche ai pensieri più vertiginosi, dalla ricostruzione puntuale di pezzi della storia e della società italiana, alle confessioni che ognuno di noi potrebbe fare qualora gli si chiedesse: “Cosa desideravi davvero, quando eri ragazzo?”.

Adolescenza, sesso, religione e violenza; il denaro, l’amicizia, la vendetta; professori mitici, preti, teppisti, piccoli geni e psicopatici, fanciulle enigmatiche e terroristi. Mescolando personaggi veri con figure romanzesche, ne La scuola cattolica (Rizzoli, 1296 pagine) Albinati costruisce una narrazione che affronta i grandi quesiti della vita e del tempo, e mostra il rovescio delle cose.
Albinati, nato a Roma nel ’56,  da oltre vent’anni lavora come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, esperienza narrata nel diario Maggio selvaggio. Ha scritto film per il cinema di Matteo Garrone e Marco Bellocchio. Tra gli ultimi libri pubblicati, ricordiamo Tuttalpiù muoio con Filippo Timi e Vita e morte di un ingegnere.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, un capitolo da La scuola cattolica 
Una domenica vuota. Come questo quartiere, dove si sono svolti i primi trent’anni della mia vita.
Tutto appare placido, pacifico, pure troppo pacifico, fissato in una mediocrità senza tempo. Il teatro perfetto dove non far accadere nulla.
E allora io mi chiedo perché questo sia avvenuto lì, perché in quel quartiere di Roma e non altrove. Come mai intorno a piazza Istria e lungo l’asse alberato di corso Trieste si è ammazzato così spesso e
volentieri? Il fatto che si trattasse di un quartiere privo di identità particolare ne ha fatto forse il terreno ideale, una specie di campo neutro dove sperimentare il livello massimo di violenza politica che può essere raggiunto senza sfociare in una vera e propria guerra civile. Perché una guerra, in Italia, negli anni Settanta, checché ne dicano i suoi reduci per giustificare i delitti commessi, a causa del “clima di allora” o “epoca”, non c’è stata. Non c’era nessuna guerra. Sarebbe interessante capire come mai loro fossero convinti che invece ci fosse: davvero ne erano convinti, e non gli mancavano le parole con cui costruire tale illusione. Era nella loro testa, la guerra. Può definirsi guerra qualcosa che viene riconosciuto come tale solo da chi combatte e non dal resto della popolazione? È detentore del significato, della modalità, della finalità di una guerra, soltanto chi la dichiara? Eppure, questa guerra inventata dai suoi guerrieri ha lasciato per terra parecchi morti e non tutti avevano accettato di giocare, anzi, alcuni di loro non sapevano nemmeno che bisognasse difendersi, non c’era una trincea visibile scavata in mezzo a corso Trieste, pensavano ai fatti loro, tornavano a casa dal lavoro, erano scesi a comprare il giornale come i signori dai capelli immacolati sotto il berretto a scacchi che ho visto stamattina solcare a passi lenti il quartiere, e non immaginavano lontanamente di essere dei condannati a morte. Non era mica Sarajevo, Roma. Difficile schivare i colpi dei cecchini quando non sai di essere sotto assedio e finisci nel mirino di chi sta giocando alla guerra dei mondi, se attraversi per sbaglio la via Pal della lotta armata.
Per quanto fossero tempi pericolosi, per quanto io per aspetto fisico (capelli scarpe e borsa e fidanzata di un certo tipo, a sua volta con scarpe e borsa e gonna di un certo tipo eccetera) potessi essere un
bersaglio plausibile come tanti altri per la violenza politica di segno opposto, non ho mai, per un solo istante, avuto paura nel QT. Non ho avuto, sommata per dieci anni, la stessa quantità di paura che nei
dieci minuti di notte a Brooklyn dalla stazione della subway a casa.Nella sua neutralità medionovecentesca, il QT divenne il territorio ideale per le scorribande assassine. Tra le sue anonime palazzine, poté scatenarsi con una crudezza senza vincoli la violenza che si teneva
alla larga da quartieri dotati di più spiccata personalità urbanistica e sociale. Esteso come una fascia smilitarizzata, una no man’s land tra quella che allora era periferia (Tufello, Talenti) e il buen retiro della
storica borghesia romana (Pinciano, Parioli), il Trieste fu usato come cuscinetto o riserva di caccia, spartito ogni notte come una piccola Polonia tra i suoi invasori. Ancora oggi quando si pensa al prototipo del fascistello lo si definisce “pariolino”, che all’epoca suonava come un equivalente romano del “sanbabilino” milanese. Gli stessi autori del delitto di cui tratta questo libro sono sempre stati rubricati come “pariolini” malgrado nessuno di loro abitasse o provenisse dai Parioli, strano, no? e invece vivevano nel QT e collimavano piuttosto con l’identikit di quel quartiere. Come ha fatto notare Giorgio Montefoschi, che è il suo storico cantore, quello dei Parioli, per quanto benestante e dunque di tendenza conservatrice, non era certo un quartiere fascistissimo, né per radici né per costumi locali, anzi, erano proprio le sue caratteristiche solidamente borghesi a vaccinarlo contro il nichilismo del viva la muerte! Prova ne è che i picchiatori fascisti avevano rinunciato a presidiarne il vero centro, il suo cuore storico, vale a dire piazza Ungheria, dislocandosi verso i suoi margini, assai meno marcati dal segno della rispettabilità e del controllo borghese: cioè, com’è noto, nella assai tetra piazza Euclide, avamposto del nulla, e nel semiselvatico piazzale delle Muse, che era un giardinetto di ghiaia affacciato sulla spianata dei campi sportivi, verso l’Acqua Acetosa e il fiume. E che sta ancora lì a ricordare la collocazione periferica dei Parioli, a chi si fosse messo in testa che abitarci autorizzi a sentirsi re di Roma. I picchiatori si accasermavano volentieri in queste aree scontornate o confinanti col vuoto, in queste piattaforme prive di qualità, per lanciare da lì i loro attacchi, mentre non avrebbero mai osato bivaccare nella civile piazza Ungheria. Troppo civile.
È un’interessante caratteristica novecentesca questa insistenza verso i luoghi privi di storia, l’anonimato, l’intercambiabilità, l’indifferenza morale, il grigiore del cranio rasato, il vuoto, la diffidenza verso la cultura, l’afasia, insomma la sua fredda passione per il nulla. Il carattere penitenziale del Novecento, dai cubisti a Samuel Beckett passando per i lager, ha bisogno di operare su una tabula rasa. Più che il risultato di un processo, la disumanità è la sua condizione di partenza: straniero, indifferente, senza-qualità, monocromo, sub-umano, de-evoluto, arbeiter, muselman, uomo-macchina, cyborg, pezzo di body-art, replicante, salma, fossile, escremento, scarafaggio, assassino senza ragioni e ribelle senza causa… ecco il protagonista perfetto, l’eroe forgiato nell’officina del secolo scorso. Ogni residuo di umanità ostacola la corsa della mente e rallenta l’azione, sbarazzarsi di quell’ingombro umano rende più rapidi, leggeri, automatici. La pressione del dito su un grilletto viene più facile se non ci si impiglia nelle retrovie di sentimenti e riflessione. Ero convinto, come tutti, che fosse l’odio a dettare questi gesti, ma l’odio agisce solo come spinta iniziale e non va mai disgiunto dal ragionamento, che può temperarlo, commisurando cause spesso teoriche a effetti concreti. Per quanto forte l’odio non basta da solo ad andare fino in fondo. Finché si tratta di menar le mani, l’adrenalina aiuta, ma se devi ammazzare è molto più efficace l’indifferenza, la neutralità. L’impersonalità che non riconosce i freni inibitori del carattere. I veri killer sono freddi, come freddo dev’essere il seduttore. L’odio impaccerebbe i primi come l’amore il secondo. Forse per questo il QT è stato la palestra preferita della violenza politica: perché esattamente come una palestra era vuoto, sgombro di reminescenze. Non offriva alcuna resistenza culturale o storica, non possedeva o rivendicava tradizioni di alcun tipo. Discreto, silenzioso, né bello né brutto, privo dell’incanto estetico del centro di Roma come della retorica incandescente delle sue borgate. Solo un reticolo residenziale di stradette alberate. Un quadrato insomma, un ring, un tatami, una scacchiera per inseguimenti e agguati. Arrivo a dire che i poveri morti ammazzati di via del Giuba e via Montebuono e piazza Trento e piazza Dalmazia e piazza Gondar, non sarebbero mai stati uccisi, mai in quel modo, davanti al Colosseo o a piazza Navona, ma nemmeno al Mandrione o a Torlupara.

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