Sono tre anni che Benito, protagonista del romanzo dello spagnolo Santiago Lorenzo, non fa sesso. Ha confidato il suo dramma soltanto alla sorella, anche se tutti, al lavoro come in giro per strada, notano la sua angoscia… – Su ilLibraio.it un capitolo da “La voglia”

Benito vive la sua vita senza entusiasmo, ma è tormentato dalla voglia: sono tre anni che non fa sesso. Per questo colleziona portachiavi, soffre l’indicibile quando vede una bella donna sulla metro e beve troppa sambuca. Ha confidato il suo dramma soltanto alla sorella, anche se tutti, al lavoro come in giro per strada, notano la sua angoscia. E la sua astinenza.

Benito è un chimico e un imprenditore. Ha inventato una sostanza miracolosa che rigenera il legno, ma aspetta da mesi la conclusione dell’accordo con l’azienda che potrebbe commercializzarla e intanto fa la fame.

A un certo punto la soluzione a tutti i suoi problemi, quelli lavorativi e quelli più intimi, si materializza davanti ai suoi occhi. Ha le sembianze di María, una ragazza che sta lavorando a una tesi sul legno policromo. Benito non osa incontrarla, ma si mette il profumo per mandarle le mail e conserva una cartella di messaggi non inviati dove le scrive cose come: “Ti amo perché voglio assomigliare a te”. Ha paura di dirglielo, ma avrebbe molta voglia di farlo…

Dopo aver proposto Gli schifosi e I milioni, Blackie porta in libreria un nuovo romanzo di Santiago Lorenzo, La voglia (traduzione di Elisa Tramontin).

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Lo spagnolo Lorenzo, classe 1964, vive in un paese della provincia di Segovia. Come alcuni personaggi dei suoi romanzi, vive lontano dalla società e si dedica ad attività come la raccolta della legna, la cura dell’orto, la preparazione di caffè e churros, la costruzione di plastici e, soprattutto, la scrittura. Sostiene che l’unica cosa che gli manca della città siano i negozi di modellismo e che rinuncerebbe al sonno pur di avere più tempo a disposizione per le sue giornate.

Dopo aver studiato immagine e sceneggiatura all’Università Complutense e regia scenica alla RESAD, ha fondato la casa di produzione El Lápiz de la Factoría, con cui ha diretto cortometraggi come Manualidades, un titolo che seminava tracce sulla sua passione per l’artigianato pretecnologico e per i plastici impossibili. Nel 1995 ha prodotto Caracol, col, col, che ha vinto il premio Goya come miglior corto d’animazione. Due anni dopo è uscito Mamá es boba, che narra la storia ambientata a Palencia di un ragazzo un po’ tonto, ma allo stesso tempo molto lucido, bullizzato a scuola e con due genitori che, suo malgrado, gli provocano una vergogna tremenda. La pellicola è passata alla storia come uno dei film di culto della commedia agrodolce, ed è stata nominata, con sorpresa del regista, al premio FIPRESCI del Festival del cinema di Londra. Nel 2001 ha aperto, insieme a Mer García Navas, la Lana S.p.a., un laboratorio dedito al design di scenografie e allestimenti.

Stanco degli intrallazzi del mondo del cinema, ha poi deciso di cedere le proprie idee alla letteratura…

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

«Che c’ha Benito? C’ha che non scopa da anni. E per di più vuole far finta di no» disse Ignacio.

«E invece si nota lontano un miglio» concluse la Presen.

Se l’aveva subodorato Teresa, che Benito lo vedeva di rado, figurati se non lo notava la gente che ci aveva a che fare tutti i giorni.

Le persone con questa frequenza di rapporti erano Ignacio Vírseda, la Presen e Pedro Crespo. Vale a dire i tre dipendenti di Terre S.r.l., la minuscola azienda di ricerche chimiche che Benito aveva costituito nel 1995.

Ignacio era un compagno dell’università. Esclusa qualsiasi complicità cameratesca. Benito e Ignacio avevano frequentato la Complutense negli stessi anni senza che nessuno dei due si fosse mai accorto dell’altro. A tre anni dalla laurea, Benito creò la sua azienda. Pubblicò un’inserzione chiedendo candidature e gli arrivò quella di Ignacio. Durante il colloquio fecero due più due e silenziosamente si sconcertarono di aver condiviso aule e corsi per cinque lunghi anni senza che i loro sguardi si fossero incrociati. Benito assunse Ignacio perché altri curriculum praticamente non ne ricevette. Avevano un rapporto corretto. Ma non erano mai riusciti a infrangere la barriera affettiva alzata dalla loro mutua invisibilità nel campus.

La Presen era la madre di Ignacio. Copriva il ruolo di receptionist per non starsene a casa. Faceva commissioni, comprava la cancelleria, il materiale di consumo e le tisane, portava la merenda. Il suo buonumore, la sua diretta parentela con un terzo dei colleghi e la sua nulla qualificazione professionale davano a Terre un’intima atmosfera da negozio di paese. Che però a volte non era proprio il massimo quando a una telefonata importante la Presen rispondeva con un «Pronti!».

Pedro Crespo era approdato a Terre sei mesi prima. Era un venerabile chimico di sessantaquattro anni che lavorava nell’azienda mezzo gratis, con l’illusione di dare una mano a un tizio che aveva isolato una sostanza, il cacardio, con applicazioni di evidente interesse. Voleva molto bene a Benito. Lo vedeva chiudersi nel laboratorio con la temeraria determinazione, l’inquietante slancio e l’emozionante tenacia degli illuminati. Lo convincevano i suoi silenti traguardi scientifici, e gli dimostrava il rispetto che si nutre nei confronti del soggetto che si fa il mazzo. Gli manifestava una solidarietà paterna che portava Benito, così restio ad aprirsi, a diffidare in modo assurdo.

E una fraternità intergenerazionale che portava Benito, così bisognoso di aprirsi, a sentirsi supportato. Benito respingeva e anelava questa vicinanza in parti uguali. Per paura di nuove botte sui denti, nel primo caso; e per la sua quasi congenita penuria filiale, nel secondo. Paradosso in cui quest’uomo era immerso da sempre fino al midollo.

Crespo non era ancora arrivato. Ignacio e la Presen proseguirono con la loro chiosa.

«Dev’essere terribile» disse Ignacio. «Nessuna ti vuole, passano i giorni e tu lì che aspetti.»

«La spazzatura bisogna portarla fuori sempre. Ma se poi il camion del municipio non passa, te la dai in faccia.»

«Certo, se non si leva di dosso quell’aria da cimitero…»

«E beve sempre di più. Puzza di armadietto delle medicine.»

«Ottima soluzione. Non c’è miglior afrodisiaco dell’alcol, checché ne dicano. Dai retta a un chimico.»

La sede di Terre si trovava a Valdemoro, municipio a ventisei chilometri verso sud dalla Puerta del Sol di Madrid. Gli esigui domini della ditta occupavano due spazi adiacenti, uno interno e un altro esterno. Il primo era un pianoterra di settantacinque metri quadri, con sala reception (un bancone per la Presen), area amministrativa (un ufficio due per due per Benito con l’unico computer della ditta), bagno (misto), cucina (una macchinetta del caffè elettrica su un frigorifero con congelatore) e laboratorio (tutto il resto). Il secondo era un cortile sul retro di quattro per venti in cui cadevano le mollette dei vicini. Questa era la zona degli esperimenti all’aria aperta, nella quale una collezione di pezzi di legno e tronchi conservati in alcune teche veniva sottoposta ad aggressioni controllate per verificare l’efficacia del benedetto cacardio.

Per compensare i suoi disalberamenti, Benito aveva arredato le stanze con oggetti colorati: cestini, portapenne, veneziane o tappetini venivano scelti con intento ambientale in verde erba, vermiglio intenso, giallo limone o arancione sparato. Qualche tramezzo era stato dipinto di rosa gomma da masticare, rallegrando parecchio il bianco satinato delle pareti. Nel cortile aveva piantato mentuccia e prezzemolo, e aveva colorato con smalti accesi i banconi da lavoro che sorreggevano le teche delle prove da esterno. Gli arditi arrembaggi cromatici non andavano tanto a braccetto con il claudicante andazzo delle cose.

Tutto era cominciato alla fine del 1994, quando Benito ebbe un proverbiale colpo di inventiva chimica. Gli capitò sognando, mentre dormiva nel suo letto. Nel gennaio del 1995 fondò Terre per sviluppare l’idea che aveva partorito in pigiama. L’impresa sarebbe stata la cornice scientifica e giuridica che avrebbe ospitato le ricerche conducenti alla materializzazione della sua trovata notturna. Imperava all’epoca uno spirito ottimista sull’iniziativa personale. Benito vi si buttò a corpo morto. Prese in affitto il pianoterra di Valdemoro e cominciò a lavorare con i suoi contati seguaci.

Ci fu un momento per tutto. Per i primi balbettamenti di eroica memoria, per i conati di successo, per quelli del crollo, per il loro successivo puntellamento. Il progetto intaccava tutte le risorse racimolate e da racimolare. Ma lui non se ne lamentava. Come premio, nell’ottobre del 1997, e dopo quasi tre anni di sacrifici, Benito riuscì a distillare il primo centimetro cubico di un composto che venne registrato all’Ufficio Brevetti con la sfilza nominale es-c21-63189/1997. A Terre lo chiamavano cacardio.

Il cacardio si iniettava nel legno e questo tornava a nascere. Restituiva tutte le proprietà della fibra vegetale, neutralizzava lo smembramento cellulare e ne ritardava l’invecchiamento fino quasi a paralizzarlo. Il legno riviveva organicamente, qualunque età avesse. Da allora avevano cominciato a provarlo sui campioni nel cortile e i risultati, mese dopo mese, erano sempre più stupefacenti. Per il restauro di pale d’altare e sculture antiche, il cacardio era insuperabile.

Nella storia del laboratorio brillava il momento di gloria della decantazione finale della sostanza, il suo grande traguardo tecnico, dopo aver investito nel suo ottenimento tutto il denaro (poco) e tutto lo sforzo, il tempo e la creatività (un sacco).

Ma Benito non ci faceva niente con la sua scoperta se non trovava un produttore degno di questo nome che se ne facesse carico. Che lo fabbricasse, lo commercializzasse e lo promuovesse, avviando uno stabilimento industriale di un certo livello, una rete di distribuzione efficace e dei meccanismi di comunicazione decenti. Mezzi a cui Terre, sì e no precario commando di ricerca, non aveva alcun accesso.

Preparò cinquanta centilitri di cacardio come campione e fece copie del manuale delle specifiche chimiche. Dalle quattordici pratiche in cui offriva il brevetto a quattordici aziende di tutta la Spagna, Benito raccolse quattordici no.

Né lui né il suo prodotto suscitarono interesse durante l’intero anno che dedicò alle presentazioni. Venne a sapere a quel punto di Bristol Chem., a Bristol, gruppo che si dedicava a elaborare, piazzare e pubblicizzare prodotti per la conservazione di materiali in mezza Europa. Propose loro un accordo nel dicembre del 1998.

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Neanche una settimana dopo gli diedero una risposta. Che, al contrario delle altre, denotava un chiaro interesse per l’acquisto e l’entrata in società. Gli chiesero addirittura una dichiarazione di esclusività, il che indicava un grado notevole di impegno. Rinunciò nero su bianco alla ricerca di nuovi enti e si concentrò su questo. Fu molto contento che a mostrare disponibilità fosse proprio l’impresa più consolidata tra quelle a cui si era rivolto.

La partecipazione di Bristol era di un’importanza decisiva.

Perché gli investimenti per isolare e piazzare lo specifico si erano mangiati quasi tutto il capitale. Perché non si poteva far altro che tuffarsi nella bristolata, dopo aver sottoscritto l’esclusività. E perché l’area operativa dell’azienda inglese apriva le porte all’internazionalizzazione del suo riconoscimento. Quello che Benito si era meritato a forza di sgobbare. Concludere le trattative e arrivare a un accordo firmato significava una vagonata di soddisfazioni.

Da quel momento in poi, si aprì il campo minato dell’indefinitezza.

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Santiago Lorenzo - foto di Cecilia Díaz Betz

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