“La sua figura appartiene a un mondo apparentemente immutabile, e remoto rispetto alla frenesia, al narcisismo, alla superficialità sovreccitata della nostre vite; ma i suoi valori, anche inconsapevoli, hanno ancora un significato per chi cerca una via d’uscita”. Su ilLibraio.it Gianandrea Piccioli racconta l’amico Louis Oreiller, protagonista del libro “Il pastore di stambecchi”

Louis come lo vedo io

Conosco Louis Oreiller dai tempi in cui ero giovane e lui, con sua moglie Nathalie, erano la coppia più bella della Val di Rhêmes. Con lui ho attraversato ghiacciai e percorso itinerari segreti sui monti della valle. Da lui ho sentito narrazioni straordinarie, alcune delle quali sono ora raccolte nel libro Il pastore di stambecchi, fedelmente e intelligentemente rese da Irene Borgna.

Ora siamo anziani tutti e due e Louis è uno dei miei grandi amici e maestri.

Una cosa che ho imparato da Louis è la non fretta (nel senso anche di accuratezza) nel lavoro. Adesso che è vecchio è quasi ovvio, ma era così anche da giovane. Lui, di suo nervoso e fumantino, qualunque cosa faccia la fa con tranquilla e concentrata ponderatezza. Anche dai racconti di caccia emerge questo aspetto. E ricordo bene le volte che abbiamo camminato insieme, e non solo sul ghiacciaio. Trasmette calma. Tutti i montanari sono (erano) così; ma lui, forse proprio per il contrasto con la sua indole, mi sembra lo sia in modo particolare.

Come tutti quelli che dalla natura traggono direttamente, e non per via mediata, il proprio sostentamento materiale, Louis da giovane aveva un rapporto strumentale, diciamo così, con la montagna, i suoi animali, i suoi alberi, i suoi pascoli, le sue acque. Non ne abusava perché sapeva che era un bene prezioso, da non sciupare né sperperare, ma la vedeva come un bene da curare perché utile. Negli anni, in particolare nei lunghi anni di guardiaparco e di guardiacaccia, il suo atteggiamento è cambiato. Probabilmente, e parlando in termini dotti, meno giudeo-cristiano: l’uomo come padrone della natura creata, e più ecologico: l’uomo come parte di un unico cosmo, solidale e della stessa sostanza (uso scientemente un termine tratto dal Credo perché anche il legame con ciò che ci circonda e ci fa vivere può essere una forma religiosa). Senza nessuna smanceria estetizzante, tipica dei cittadini che consumano il bello naturale (Cesare Garboli raccontava di un letterato marcio che una sera a Monte Rotondo si accompagnava a Padre Pio e, ammirando i cipressi al tramonto, in stato di estasi esclamò: “Ah, Padre, che commozione quegli alberi che svettano sul rosso del sole calante!” e il tremendo ma lucido cappuccino di rimando: “Ma figliolo, ancora a questo punto siamo?!”). Piuttosto con la consapevolezza di far parte di un unico Tutto, di sapere che la linfa che scorre negli alberi è la stessa forza vitale che scorre nelle sue vene, che anche la roccia è viva e che il cielo diurno e notturno è una scrittura da interpretare e che puoi ascoltare gli alberi. Quello che un tempo era rispetto utilitaristico negli anni è diventato un rispetto fraterno e riconoscente.

C’è un terzo tratto della sua personalità che si intreccia e si fonde con gli altri due (la calma e la relazione peculiare, simbiotica, con la Natura in senso lato): il rispetto per il lavoro e per l’oggetto del lavoro. Quando fa una scultura (è uno straordinario e originalissimo intagliatore), ma anche quando taglia un albero o fa legna o cura le galline o ripara un qualche aggeggio, c’è sempre una sorta di cura amorevole mai esibita nel gesto ma che nasce da dentro e anima segretamente l’azione. Il modo in cui tocca il legno o gli attrezzi, ma anche la corda quando si preparava per andare sul ghiacciaio, il rapporto che un tempo aveva coi cani (e con gli animali in genere, anche quando li cacciava): mai puramente strumentale, mai “antropomorfizzante”: rispetta le distanze, riconosce istintivamente un ordine e una gerarchia, eppure sembra sempre che chieda il permesso. Lui, guascone con gli umani, si trasforma quando è solo col mondo e con la natura: non ci sono più gara o sfida, cessa ogni spirito competitivo, non deve dimostrare niente a nessuno, la montagna non è un avversario da conquistare ma un’amica che sai più forte di te e con cui convivi amandola e rispettandola come una compagna di vita. C’è molto di arcaico o di primitivo, nel senso etnologico del termine, in questo approccio: mi vengono in mente lontane letture di Colin Turnbull o i reportage sugli Yanomami. Ma in lui c’è anche una sorta di disciplina interiore di cui oggi si son perdute le tracce.

Personalmente penso che il caso governi le nostre vite; poi sta a noi trasformare il caso in destino. Le occasioni di vita di Louis son state casuali e, nello stesso tempo, obbligate dal contesto ambientale e sociale: lui ha saputo farle proprie e crescere con esse. La sua figura appartiene a un mondo apparentemente immutabile, e remoto rispetto alla frenesia, al narcisismo, alla superficialità sovreccitata della nostre vite; ma i suoi valori, anche inconsapevoli, hanno ancora un significato per chi cerca una via d’uscita.

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