Un padre e un figlio. Tra memoir, racconto naturalistico e riflessione su un viaggio, che è insieme scoperta e ritorno alle origini: in libreria “Nel segno dell’anguilla” di Patrik Svensson

Le anguille sono le co-protagoniste di un vero caso editoriale, in corso di pubblicazione in trentadue Paesi (in Italia il libro in questione è in uscita da Guanda, con la traduzione di Elettra Caporello). Parliamo di un testo ibrido, sospeso tra memoir, racconto naturalistico, e riflessione su un viaggio, che è insieme scoperta e ritorno alle origini: parliamo di Nel segno dell’anguilla di Patrik Svensson (nella foto di Emil Malmborg, ndr).

Nel segno dell'anguilla

L’autore, classe 1972, è al debutto narrativo: Svensson è cresciuto in una piccola città nel sud della Svezia, non lontano da quella che viene comunemente chiamata “la costa delle anguille”. Vive con la famiglia a Malmö. Lavora come giornalista e scrive di arte, cultura, attualità, politica e divulgazione scientifica. Ma probabilmente Nel segno dell’anguilla gli cambierà la vita.

E veniamo così a scoprire questo libro davvero particolare: durante le magiche notti d’estate in cui i pipistrelli sorvolano il torrente al chiaro di luna, un padre e un figlio vanno a pesca di anguille ed escogitano sempre nuovi metodi per mettere le mani su questa creatura degli abissi, del buio e del fango, per catturare il suo corpo viscido e guizzante e guardare nei suoi occhi nerissimi. Imparano a conoscersi, a cementare un rapporto fatto soprattutto di silenzi, ma anche di rispetto e complicità. La sfida con l’animale più sfuggente di tutti insegna al ragazzo a fare della natura una maestra, una guida.

Nel ricordo di suo padre e delle tante cose rimaste fra loro non dette, Svensson racconta una storia di formazione sullo sfondo di un mistero che per millenni ha affascinato pensatori, scienziati, esploratori: da chi, come Aristotele, dell’anguilla ha studiato l’origine, l’essenza e le sorprendenti metamorfosi – essere anfibio, serpente di mare, pesce d’acqua salata o dolce – a un giovanissimo Freud che si è dedicato con ostinazione allo studio dei suoi meccanismi riproduttivi; fino ai biologi che hanno scandagliato gli oceani per seguire le sue migrazioni dal Mar dei Sargassi ai fiumi d’Europa e d’America, e ritorno. E oggi il rischio dell’estinzione accomuna il destino di questo animale a quello dell’uomo, facendone un simbolo dell’emergenza ambientale.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo del libro:

Ma perché l’anguilla è considerata così sgradevole? Perché suscita in noi questo genere di sentimenti? Non può essere soltanto perché è viscida, o per via di quello che mangia, o perché si trova bene nell’oscurità e nell’occulto… E non può nemmeno essere per via dei fraintendimenti religiosi. No. Probabilmente perché è misteriosa e perché sembra esserci qualcosa di più dietro i suoi occhi scuri, in apparenza senza vita. Da un lato, l’abbiamo vista, toccata, assaporata. Dall’altro lato, ci nasconde qualcosa. Anche quando ci avviciniamo davvero a lei, in qualche modo rimane distante.

In psicologia, ma anche nell’arte, si parla di un particolare tipo di disagio, che il tedesco rende con l’aggettivo unheimlich. È stato tradotto con «perturbante», e nella sua definizione è compreso il concetto di quella sorta di angoscia che proviamo quando dobbiamo confrontarci con qualcosa che non riusciamo immediatamente a spiegare.

Lo psichiatra tedesco Ernst Jentsch, nel 1906, scrisse un saggio dal titolo Zur Psychologie des Unheimlichen [Sulla psicologia del perturbante], nel quale definiva il concetto come «quell’oscura sensazione di incertezza» che ci prende quando siamo davanti a qualcosa di nuovo e sconosciuto. Ciò di cui abbiamo paura, spiegava Jentsch, ciò che ci sembra terribile, è questo che ci rende incerti da un punto di vista intellettuale; quello che, per mancanza di esperienza o per la limitatezza dei nostri sensi, non riconosciamo immediatamente e non siamo in grado di spiegare.

Questa però era un’osservazione troppo semplice e superficiale, sosteneva Sigmund Freud, che a quell’epoca si era lasciato alle spalle gli studi sull’anguilla per diventare una fi gura fondamentale per la psicoanalisi. Nel 1919 Freud pubblicò il saggio Das Unheimliche, Il perturbante, che in parte era una risposta alla definizione del concetto data da Ernst Jentsch. Quest’ultimo aveva ragione, ammetteva Freud, nel dire che è l’incertezza a far scaturire quella particolare sensazione di disagio che proviamo, per esempio, quando non sappiamo dire se un corpo è vivo o morto, oppure quando in un uomo scorgiamo la pazzia, oppure quando siamo testimoni di un attacco epilettico. Ma non tutto ciò che è nuovo e sconosciuto ci mette a disagio. Serve qualcosa di più, sosteneva Freud, si deve aggiungere un ulteriore elemento affinché la situazione diventi unheimlich. E questo elemento è ciò che è familiare. Si tratta più precisamente di quello stato di disagio che si prova quando qualcosa che si pensava di conoscere o di aver compreso si rivela essere qualcos’altro. Ciò che è familiare improvvisamente diventa non-familiare. Un oggetto, un essere vivente, un uomo si rivelano non essere più quello che si credeva all’inizio. Una figura di cera ben fatta. Un animale imbalsamato. Un cadavere con le guance rosate.

Freud chiamava in aiuto la lingua per spiegare il proprio pensiero: «La parola tedesca unheimlich [perturbante]» scriveva «è evidentemente l’antitesi di heimlich [confortevole, tranquillo, da Heim, casa], heimisch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare». Ma heimlich allo stesso tempo è un termine ambiguo, affermava, perché può indicare anche ciò che è segreto e privato, nascosto al mondo. La parola contiene il suo contrario. E lo stesso vale per ciò che è unheimlich, che indica contemporaneamente la familiarità e la non-familiarità.

È così, affermava Freud, che dobbiamo intendere quella particolare sensazione di disagio che viene detta unheimlich. Ne siamo sopraffatti quando qualcosa che ci è familiare contiene un elemento sconosciuto e questo mina le nostre certezze su quello che vediamo in realtà e sul suo significato.

(continua in libreria…)

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