Su ilLibraio.it il racconto “Croste” tratto da “Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa”, la raccolta d’esordio di Francesca Mattei, che con uno stile conciso e corrosivo propone la sua rappresentazione di ambienti urbani, di corpi che si mettono a nudo e di fughe nell’ebbrezza…

Croste

di Francesca Mattei

Se la ferita dà prurito significa che sta guarendo. Quando la crosta è ancora fresca non si stacca facilmente. Resta umida e molliccia come mollica bagnata e il sangue si rapprende tra i lembi di pelle, come una cerniera. È solo più tardi, quando diventa secca e rigida, che è pronta per essere staccata. Avere le unghie lunghe aiuta, ma non è indispensabile. Se la crosta è in un punto idoneo si può lavorare bene anche di denti. Una volta rimossa, può essere appallottolata tra le dita o allungata come un chewing gum, prima di essere ingerita.

Mangio croste da quando ero bambina. Mi piace saggiarne la consistenza tra la lingua e il palato e ognuna ha il suo sapore speciale. Ricordo ancora la prima volta che ne assaggiai una: avevo sei anni, ero in piedi di fronte a uno specchio a figura intera, nella stanza di qualcuno in casa di Chissàchi. Era estate, portavo le mutande e una canottiera bucata e ingrigita. Notai il ginocchio sbucciato, deformato nella superficie opaca del vetro, e aveva un colore caldo e dolce, ipnotizzante. Passai il resto del pomeriggio a grattarmi via la resina che continuava a riformarmisi sulla pelle, con le unghie corte e sporche, concentrata, totalmente assorta. Nella stanza entravano adulti di varie età per cambiarsi gli abiti o aprire le finestre o fumare crack distesi sul materasso alle mie spalle. Forse tra di loro c’era mio padre.

I figli unici e i primogeniti godono di una sicurezza assoluta, che a noi ultimi di una lunga schiera è preclusa. Il giorno in cui assaggiai per la prima volta una parte del mio corpo, il maggiore dei miei fratelli venne arrestato. Non finì in prigione per quello che aveva fatto una volta nel letto a me e alle mie sorelle, e neanche per spaccio o per furto. Lo misero dentro perché fece a pugni con un poliziotto bianco fuori servizio. Lui era nero come suo padre, anche se nessuno di noi sapeva chi fosse il proprio, di padre. Mamma ci aveva avuti da quattro uomini diversi, ognuno dei quali era sparito poco dopo averla messa incinta, o almeno così ci aveva raccontato. Lui era l’unico maschio e aveva appena compiuto diciotto anni. Era il primogenito, quindi sapeva quale fosse il suo posto nella famiglia e cioè nel mondo. Le mie sorelle erano molto vicine di età, si somigliavano nell’aspetto e nel carattere: estroverse, alte e bionde come mia madre. Io avevo preso da mio padre. Si scambiavano i vestiti fino a che non diventavano troppo corti o vecchi per loro, e allora li passavano a me. Io li indossavo per anni e mi andavano sempre larghi al petto e stretti in vita, come se fossi stata costruita alla rovescia.

La canottiera grigia di quel pomeriggio era uno degli scarti, logora e consumata, completamente sbiadita dalle decine di lavaggi e dall’esposizione al sole. Quel giorno la colorai di rosso premendoci sopra i polpastrelli e ne venne fuori un bel disegno fatto di impronte digitali e scaglie di pelle.

La città in cui vivo adesso non è molto diversa da quella in cui sono cresciuta, solo che qui non c’è il mare. Lì mamma, in estate, lavorava negli stabilimenti balneari e faceva del suo meglio, nonostante la depressione e la dipendenza e le gravidanze e i parti e qualche volta le botte dei suoi uomini. Lo psichiatra del distretto sanitario le diceva Il tuo problema è che attiri solo un certo tipo di persone, non sai cosa sia una relazione sana, dobbiamo lavorarci. E poi le prescriveva gli psicofarmaci.

Vivevamo in una casa popolare e una volta a settimana i servizi sociali mandavano una delle educatrici perché ci aiutasse a fare i compiti e ci portasse a passeggiare. Erano tante, ma era come se fosse sempre la stessa. Tutte giovani e intelligenti, sempre molto gentili, soprattutto con noi sorelle. Ogni volta che una di loro vedeva per la prima volta le mie croste diventava improvvisamente seria e cominciava a farmi domande, mettendomi a sedere sul balcone da sola, mentre le mie sorelle si truccavano in bagno e mio fratello giocava a pallone in cortile. Conoscevo a memoria i loro interrogatori e le loro espressioni: Come hai fatto a farti male? E come va con mamma? Porta a casa qualche amico? Io sapevo di dover mentire, mentire su tutto perché è così che ci si protegge, perché altrimenti mi avrebbero portata via, anche se ero io a farmi quei tagli, anche se volevo restare lì, con la mia famiglia che mi ignorava e mi metteva addosso pantaloni vecchi. Il mio sorriso si fece sempre più convincente e alla fine le mie sorelle mi insegnarono come coprire le cicatrici con il fondotinta, come loro facevano con i succhiotti sul collo.

Un giorno, sotto Natale, una delle educatrici ci regalò un calendario dell’avvento ciascuno, una di quelle scatole di cartone dove dentro a ogni casella numerata c’è un cioccolatino. Erano colorati e lucidi, ben incartati dentro buste dorate, ognuna delle quali aveva un biglietto fissato in un angolo con sopra scritto i nostri nomi. Venivano da una pasticceria artigianale del centro e profumavano di zucchero a velo. Al tempo mio fratello era già in carcere, ma lei ne portò uno anche per lui, nel caso in cui ci avessero permesso di consegnarglielo durante le visite. Li scartammo subito e mangiammo il cioccolatino sotto al numero Uno.

Quando mamma tornò dal supermercato, nel tardo pomeriggio, aveva una busta verde con dentro cinque calendari dell’avvento stropicciati. Erano piccoli e azzurri e l’umidità li aveva macchiati. Quando vide i calendari aperti sul tavolo della cucina e quelli ancora imbustati, puliti e decorati come un vero regalo di Natale, mise i suoi da parte e disse Grazie, dottoressa, ma non doveva.

Per tutto il mese di dicembre, io e le mie sorelle aprimmo ogni giorno entrambi i calendari, anche se mamma non scartò mai quello che l’educatrice aveva portato per lei né quello che si era comprata da sola. Passai le feste a ingozzarmi di croste e cioccolato. A mio fratello portammo soltanto il calendario nella confezione dorata.

La prima ragazza della quale mi innamorai mi disse Mi piacciono i tuoi jeans, sono tutti tagliati e rattoppati come te. Avevo quindici anni e indossavo i pantaloni di mio fratello. Lei aveva un paio di anni in più di me e frequentavamo la stessa scuola. Mi insegnò a guidare il motorino nel piazzale di fronte al mio palazzo e a scrivere con la bomboletta sugli striscioni.

Il primo ragazzo di cui mi innamorai, due anni più tardi, non disse niente delle mie cicatrici, neanche quando mi vide nuda. Quando mi chiese di lavorare con lui nel bar di famiglia la domenica mattina, mi disse di indossare le maniche lunghe. Era gentile e magrissimo, beveva chinotto a tutte le ore del giorno e quando arrivò l’estate ci lasciammo.

Quelli e quelle che vennero dopo ebbero reazioni contrastanti. Qualcuno rabbrividì, qualcuno mi rifiutò e qualcuno non se ne accorse neanche. Io smisi presto di provare vergogna o di cercare giustificazioni e quando un ragazzo volle parlarne, gli scoppiai a ridere in faccia e fu l’ultima volta che lo vidi.

Mio fratello non rimase in carcere a lungo. La primavera dell’anno seguente, poco prima del mio settimo compleanno, era di nuovo fuori. Iniziò a lavorare per una cooperativa che si occupava del reinserimento dei detenuti e continuò a vendere erba ai suoi amici. Era sempre fuori casa, comprò uno scooter usato da uno dei nostri vicini e cominciò a fare le gare con gli altri ragazzi del quartiere. Era forte, vinceva quasi sempre perché era uno dei più grandi a competere e aveva imparato alla svelta dei trucchetti per andare più veloce. Partiva impennando, per impressionare l’avversario. Mamma visse quel periodo con estrema apprensione, lo aspettava sveglia la notte, fumando, e quando lui rientrava litigavano spesso, entrambi sballati, senza controllare il tono di voce. Lo psichiatra le prescrisse dei nuovi ansiolitici, e così terminò l’angoscia per il rientro di mio fratello.

Le mie sorelle erano un mondo a parte, non parlavano mai con nessuno di noi, anche se ogni tanto rimproveravano mamma per aver lasciato i piatti sporchi nell’acquaio o per non aver comprato la carta igienica. Lei rispondeva sempre Voi siete delle ingrate, vi ho dato troppo, ecco cosa ho sbagliato e in questo Voi includeva anche me, anche se io ero fuori dai giochi e volevo essere invisibile. Esistevo solo in rapporto alle altre due: nelle parole di mia madre, ero come loro o completamente diversa da loro, ero solo un elemento di paragone, anche se non facevo niente per esserlo. Qualche volta capitava che mia madre sgridasse proprio me per quello che facevo, per i miei tagli. Ma la maggior parte delle volte, quando le mie sorelle si lamentavano per qualcosa, ci urlava contro Voi sapete solo chiedere: hanno fatto bene i vostri padri ad andarsene. Poche ore dopo bussava alla porta della nostra stanza in lacrime, ci chiedeva scusa e diceva La mamma è molto stanca, ci abbracciava in ginocchio e si chiudeva in camera a bere.

Un giorno di autunno, quando avevo appena iniziato la prima media, un gruppo di ragazzi organizzò un presidio nel piazzale di fronte al nostro palazzo. Montarono un gazebo bianco, sotto al quale sistemarono un tavolo con su disteso un tricolore, come se fosse una tovaglia. Sul tavolo misero una fila di volantini e adesivi e sotto una serie di scatoloni di cartone. A uno dei sostegni del gazebo era appeso un cartellone che diceva Banco alimentare per le famiglie bisognose e in basso a destra era disegnato un simbolo nero con una spada. Cominciarono a distribuire il materiale alle persone che entravano nel cortile del nostro palazzo. Due di loro reggevano uno striscione plastificato con su scritto Prima gli italiani. A intervalli regolari qualcuno prendeva in mano il megafono per fare un intervento. Dal balcone di casa mia, dal quale osservavo la scena, non riuscivo a sentire cosa dicessero, così scesi nel parcheggio, mi sedetti su una panchina e mi misi a osservarli masticando le mie croste. I ragazzi non mi notarono, andarono avanti per ore a consegnare scatoloni pieni di farina e legumi in scatola e a fotografarsi. Ogni tanto scandivano slogan e poi arrivò la stampa e li intervistò.

Nel tardo pomeriggio, mentre stavano smantellando il banchetto, rientrò mio fratello. Si avvicinò per chiedere informazioni e due dei ragazzi lo spintonarono e gli dissero Questa roba non è per te. A quel punto i giornalisti erano già andati via, così uno di loro si accucciò sotto al tavolo, prese un casco e colpì mio fratello, che iniziò a sanguinare urlando Io sono italiano. Io rimasi impietrita: non sapevo cosa fare se non continuare a grattarmi le croste e chiedere aiuto non era un’opzione. Mio fratello tirò fuori il coltello e quella fu la seconda volta che finì in carcere. Questa volta per tentato omicidio.

Mamma non la prese bene. Le educatrici intensificarono le loro visite e l’assistente sociale ci consigliò di seguire una terapia familiare di almeno sei mesi. Non ricordo niente di quel periodo e degli incontri con la psicologa. So solo che ero molto sollevata che fosse inverno e che si potesse parlare di mio fratello, dello sviluppo delle mie sorelle, dei problemi con le sostanze di mia madre e non delle mie croste, ben nascoste sotto al maglione. Ricordo anche che la psicologa ci dava dei compiti da svolgere a casa, tutte insieme, e che consegnava a mia madre delle schede da compilare per valutare le sue capacità genitoriali. La terapia per un po’ funzionò e le cose andarono meglio davvero. Mia madre coinvolgeva le mie sorelle nelle scelte quotidiane, dava loro piccoli compiti di responsabilità, come portare fuori la spazzatura e rifarsi il letto, e questo aumentava la loro autostima. La sera si mettevano tutte e tre sul divano a guardare qualche noioso film romantico o d’azione e mia madre beveva solo tè caldo, senza correzione. Le educatrici si dissero entusiaste di risultati tanto promettenti in così breve tempo e le mie sorelle erano tutte sorrisi e io ero davvero contenta, anche se non volevo rinunciare alle mie croste.

Alla fine questa mattina ho ricevuto una chiamata da mia madre. A quanto pare mio padre è pronto a incontrarmi. Dopo venticinque anni. Non vedo la mia famiglia da molto tempo, chissà come la prenderanno quando vedranno che ho iniziato a tagliarmi anche in faccia, che ho smesso di usare il fondotinta perché tanto lavoro come lavapiatti e a nessuno interessa se sono bella o brutta. Mio padre, ho scoperto, vive nella mia città d’origine. È sempre stato vicino a me, durante la mia crescita, anche se non se la sentiva di conoscermi. Quando nacqui era molto più giovane di mia madre. Lei aveva trentatré anni, mentre lui soltanto sedici e non era pronto. Sembra che sia rimasto nella vita di mia madre per tutti questi anni. Hanno continuato a vedersi di tanto in tanto per un caffè o per scopare e poi lui ha fatto un percorso, in comunità, dal quale è uscito cambiato. Un uomo nuovo, ha detto mamma.

Indosso un lungo abito blu scuro e preparo la valigia. Non ho intenzione di fermarmi a lungo, ma voglio essere sicura di avere con me tutto quello che mi serve. Mentre preparo l’astuccio delle medicine mi rendo conto di aver terminato la pillola anticoncezionale, così infilo la ricetta nel portafoglio ed esco di casa. Arrivo di fronte alla farmacia e al di là della vetrina vedo venirmi incontro una bellissima donna sottile vestita di scuro. Ci metto un po’ a capire che si tratta del mio riflesso.

Riesco a piacermi solo quando non mi riconosco.

Le luci fredde all’interno mi fanno girare la testa. Mostro la prescrizione, pago e me ne vado. Per un attimo penso Lasciamo perdere, è troppo tardi. Invece torno a casa a recuperare la valigia, prendo il pullman per la stazione e aspetto il treno sul binario. Il viaggio dura appena tre ore, senza cambi, e quando arrivo a casa mia è quasi buio. Insieme a me scendono pochissime persone, si sparpagliano lungo la banchina e scompaiono.

Abbiamo appuntamento al parchetto dal lato opposto della strada. Oltrepasso la biglietteria, trascinandomi dietro il trolley, che scivola sul pavimento della sala d’attesa e sobbalza tra le crepe del cemento all’esterno. Mi fermo. La città è deserta e scura. Fredda e appena estranea, come un vestito lasciato a lungo sul fondo dell’armadio.

Nella penombra vedo un uomo piccolo e curvo, seduto di profilo su una panchina, e so che questa sarà una ferita che pruderà per un bel po’.

francesca mattei

L’AUTRICE E IL SUO PRIMO LIBRO – Dopo aver pubblicato i suoi racconti su diverse riviste letterarie, tra cui Malgrado le Mosche, l’Elzeviro, SPLIT, Clean Rivista, Narrandom, La Nuova Verdə e Voce del Verbo, Francesca Mattei esordisce su carta con Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa (Pidgin Edizioni), raccolta di diciassette racconti.

Il libro rappresenta anche un altro esordio: si tratta infatti del primo titolo Pidgin Edizioni scritto da una penna italiana, dopo tre anni di traduzione.

Francesca Mattei punta su uno stile conciso e corrosivo e propone la sua rappresentazione di ambienti urbani, di corpi che si mettono a nudo e di fughe nell’ebbrezza.

Tra le viuzze e i baretti, tra i brindisi con birre economiche e le sniffate nei bagni, personaggi immobilizzati e anestetizzati dalla noia e dall’arrendevolezza vibrano in una continua tensione verso l’evasione. Donne che si mettono a nudo rinunciando ai propri abiti, strappandosi le croste e abbandonando perfino la loro pelle, donne che riducono in cenere ciò che hanno coltivato con minuzia e pazienza, donne che soffrono l’inconciliabilità della loro personalità con le aspettative della società.

Nei suoi racconti, l’autrice rappresenta una stasi nervosa frutto di forze contrastanti – il peso delle radici e l’accelerazione dell’inebriamento –, che permeano le ombre malinconiche di piccole cittadine o case opprimenti da cui sembra non esserci via di fuga, fino a quando questa via di fuga non viene spalancata con la forza.

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