“Sarah, Susanne e lo scrittore” di Éric Reinhardt (premio Goncourt 2023) è un romanzo metanarrativo che gioca con il concetto di realtà e finzione, presentando tre personaggi interconnessi e più versioni di una stessa verità. Sarah e Susanne sono l’una lo specchio dell’altra, ma la seconda non è che l’alter ego, il doppio della prima, creata dalla penna dello scrittore a cui Sarah si è rivolta, cercando un confidente per la propria storia. Ma cosa ha sconvolto la vita di Sarah? E quella di Susanne? 

In un mondo letterario costellato dall’autofiction, ovvero dalla commistione tra biografia e invenzione, è ormai un meccanismo naturale nella mente dei lettori e delle lettrici quello di chiedersi: cosa c’è di vero (o falso) all’interno di questa storia?

In Sarah, Susanne e lo scrittore (Fazi, traduzione di Anna D’Elia), la domanda non fa altro che ripresentarsi, rimbalzando tra i diversi livelli di narrazione, destinata, alla fine, a non trovare mai una risposta certa. 

Il romanzo di Éric Reinhardt, finalista al premio Goncourt 2023, si sviluppa, apparentemente, attorno a una sola storia: quella di Sarah, quarantaquattrenne francese di estrazione alto borghese, sconvolta dalla scoperta di un cancro al seno, artista metafisica, architetto, madre di due figli, moglie di un uomo sofisticato e premuroso – padre affettuoso, marito devoto, amante appassionato, solo lievemente tendente al mutismo e all’indifferenza. Tutto cade a pezzi nel momento in cui Sarah decide di dare una scossa alla sua vita apparentemente solida, scoprendo in realtà una serie di piccole crepe invisibili. Inizia così la sua lenta discesa negli inferi.

Sarah, Susanne e lo scrittore di Eric Reinhardt

Ma non è Sarah a raccontarci la sua storia. Sarah si è rivolta a uno scrittore affinché sia lui a descrivere la sua vita, costruendo un altro personaggio: il suo alter ego, Susanne Sonneur. Paradossalmente, è lo scrittore (autore di fama nazionale che rimane costantemente senza nome), a raccontare a lei come si sono svolti i fatti, a ripercorrere gli eventi che hanno sconvolto la sua vita e che sono descritti – con opportune modifiche – attraverso le azioni, i pensieri e la voce di Susanne. 

A differenza di Sarah, Susanne è una genealogista e vive a Digione, nella Francia orientale; come lei, però, ama tormentarsi la pelle delle dita ed è appassionata d’arte e di letteratura. Dopo la malattia, come lei, Susanne ha deciso – blandamente incoraggiata dal partner – di lasciare il lavoro per dare via libera alla sua creatività.

Dopo aver scoperto che il marito, sempre più distante dalla routine domestica, possiede il 75% della loro casa, e non la metà come ha sempre pensato, la protagonista insiste affinché lui ristabilisca la parità. Non ottenendo risultati, la donna decide di allontanarsi da casa per qualche mese, nella speranza di generare nel marito il cambiamento tanto agognato. Ben presto, però, la situazione sfugge al suo controllo, e Sarah/Susanne si trova imprigionata in una spirale di squallore e solitudine, tenuta a distanza dalla sua stessa famiglia.

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Nel corso delle pagine, mentre lo scrittore racconta con tono vivace la vita del suo doppio, Sarah riceve domande e interviene a sua volta con precisazioni, rimostranze e osservazioni. È così che il confine tra realtà e finzione all’interno della storia si assottiglia sempre di più.

Mentre Sarah si fa portatrice della sua verità, rievocando i suoi sentimenti e rimarcando le differenze tra lei e il suo alter ego, davanti ai nostri occhi le figure di Sarah e Susanne si sovrappongono e si mescolano continuamente, dando vita a una verità parallela. Lo scrittore inserisce personaggi, eventi e sfumature che rendono la storia di Susanne ancora più vivida e drammatica – ed è questa la storia a cui ci appassioniamo, imparando a conoscerla in ogni dettaglio.

L’operazione metanarrativa di Éric Reinhardt arriva a pieno compimento nel momento in cui ci rendiamo conto che nessuno dei tre personaggi – Sarah, Susanne e lo scrittore – esiste realmente. L’obiettivo di Reinhardt non è solo quello di raccontare la storia di una donna allontanata dalla sua famiglia, ma anche di mostrare come un romanziere costruisce la sua narrazione, facendosi ispirare dalla realtà e dal proprio vissuto.

Attraverso Susanne, quindi, impariamo a conoscere non solo Sarah, ma anche lo stesso scrittore/personaggio, che ha dato vita al suo alter ego a partire da emozioni, avvenimenti e ricordi passati, aggiungendo citazioni letterarie e continui richiami al mondo dell’arte, fino a compiere, nelle ultime pagine, una vera e propria autofiction.

È naturale chiedersi se lo stesso Reinhardt, come lo scrittore del suo libro, abbia inserito qualcosa di sé all’interno del romanzo. Da alcuni indizi, la risposta sembrerebbe positiva: la malattia affrontata da Sarah/Susanne all’inizio del libro, per esempio, rimanda a una precedente opera di Reinhardt, inedita in Italia, La Chambre des époux (Gallimard, 2017), ispirata alla reale esperienza dello scrittore e di sua moglie, malata di cancro al seno. Ancora una volta, però, non sappiamo dove si trovi il confine tra invenzione e verità.

Ciò che è certo è che il tema metanarrativo non è una novità per l’autore francese, che lo aveva sperimentato anche in L’amore e le foreste (Salani, 2015, traduzione di R. Fedriga), divenuto anche un film, Il coraggio di Blanche (2023), diretto da Valérie Donzelli. Protagonista del libro è Bénédicte Ombredanne, donna alle prese con un marito violento che confida a uno scrittore i dettagli più dolorosi della sua esistenza e il suo desiderio di libertà.

È lo stesso desiderio che, in parte, anima anche le protagoniste di questo secondo esperimento: quello di ottenere giustizia nei confronti di un marito via via più estraneo e spietato.

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La leggerezza con cui Sarah si allontana dal nido finisce per farla scontrare ancora più duramente con l’indifferenza dei familiari e con l’impossibilità di fare ritorno. La piccola casa presa in affitto da Sarah non è identica a quella di Susanne, ma come la sua è lugubre, triste, soffocante, simile a una cella in cui si è involontariamente imprigionata.

Il marito e la figlia, chiusi nel silenzio e nella rabbia, le impediscono di tentare una riconciliazione, trasformandola nell’unica colpevole di un delitto che non ha mai voluto commettere. Solo il figlio sembra conservare il suo affetto, seppur nascosto dietro la timidezza.

A Sarah non rimane altro da fare che guardare la sua vecchia vita dall’esterno, nascosta alla vista dei suoi famigliari. Scorgendoli da lontano, attraverso la finestra della sua vecchia casa, la donna spera di potersi sentire più partecipe della vita dei suoi cari, seppur solamente tramite un’osservazione vicaria.

“Come si fa a svanire in maniera tanto rapida dalla vita di qualcuno che si ama? (…) Se adesso si dirigesse verso casa e bussasse alla porta e loro aprissero, riuscirebbero davvero a vederla? Oppure è talmente morta ai loro occhi da non potersi neanche materializzare?”

L’angoscia di Sarah diventa in Susanne un’ossessione prosciugante, una bramosia simile a quella che la lega a un quadro misterioso, nato dalla fantasia dello scrittore: un dipinto di due monache inquiete, in cui Susanne è convinta sia celato un segreto in attesa di essere svelato.

Annichilita, spezzata e tradita, Sarah non può tornare a vivere senza prima lasciare andare il suo passato. E il primo passo per farlo è proprio consegnare i suoi ricordi allo scrittore, lasciare che sia a lui portare Susanne verso il lieto fine, nell’attesa che anche lei, Sarah, cominci a forgiare la propria felicità, a scrivere il proprio futuro.

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