L’utilizzo dell’autofiction (a metà strada tra l’autobiografia, il memoir e la narrativa) si è evoluto nel tempo, diventando sempre più diffuso e sfaccettato, fino ad arrivare alla vittoria del Premio Nobel per la Letteratura 2022 da parte di Annie Ernaux – Un ampio percorso di lettura e di (ri)scoperta di questo particolare approccio alla scrittura letteraria, dedicato ai primi esempi ante litteram del XX secolo e alle varianti più contemporanee, tanto nel panorama italiano quanto in quello internazionale

Nel vasto panorama della letteratura novecentesca e contemporanea, pochi generi hanno saputo mettere in discussione le frontiere tradizionali del romanzo come l’autofiction, negli ultimi anni al centro di numerosi dibattiti, complice anche l’emblematica vittoria del Nobel per la Letteratura da parte di Annie Ernaux, premiata nel 2022 proprio “per il coraggio e l’acutezza clinica attraverso cui ha svelato le radici, gli straniamenti e i vincoli collettivi della memoria personale“.

Al confine tra la biografia e l’invenzione, infatti, l’autofiction non si limita a narrarci una storia di fantasia, né a riportare semplicemente un racconto di vita vissuta, configurandosi come una riscrittura che mescola degli avvenimenti reali con l’immaginazione di chi scrive, così da trasformare eventi e pensieri in qualcosa di più complesso e stratificato.

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Origini e definizione dell’autofiction

Ma che cos’è, esattamente, l’autofiction?

Cominciamo con il dire che questo genere letterario nasce (e si evolve) con il dichiarato intento di sovvertire le aspettative di chi legge, portandoci a confrontarci con la porosità delle barriere tra ciò che è vero e ciò che non lo è.

Coniata negli anni ’70 dallo scrittore, critico e docente francese Serge Doubrovsky (1928-2017), la parola è il risultato di una crasi tra “autobiografia” e “fiction“, due concetti solo apparentemente inconciliabili tra loro.

Doubrovsky, infatti, utilizza per la prima volta la definizione nel 1977, in occasione della pubblicazione del romanzo Fils (in italiano Figli, ma anche Fili), in cui ammette di aver volontariamente mescolato alcuni episodi della propria esperienza con degli elementi finzionali.

Pur essendo stato codificato in questi termini solo nella seconda metà del Novecento, il “genere” dell’autofiction era però già stato praticato fin da inizio secolo, e cioè da quando le nuove scoperte della psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939) avevano permesso alla letteratura di manifestare il bisogno di introspezione e al tempo stesso di realismo degli intellettuali moderni, portando in più occasioni a un’innovativa commistione di immaginazione e realtà.

Dopodiché, nel corso dei decenni, il concetto si è evoluto, perfezionato e trasfigurato, portando in seguito la critica a riconoscere come parte di questo genere letterario anche opere che dapprima non erano state considerate tali, ma che di fatto rappresentavano un buon esempio ante litteram dell’autofiction propriamente detta.

Copertina del libro Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, uno dei primi esempi ante litteram di autofiction

Pensiamo, fra gli altri, a Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (qui nell’edizione Newton Compton, a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso), forse uno dei primi e più fulgidi esperimenti in questa direzione, come anche a L’uomo senza qualità di Robert Musil (Newton Compton, traduzione di Irene Castiglia), a Dedalus di James Joyce (Garzanti, traduzione di Cesare Pavese) e a La coscienza di Zeno di Italo Svevo (Garzanti), che, non a caso, sono stati (anche) letti a lungo sotto la lente del romanzo psicologico codificato in quegli stessi anni.

Le caratteristiche dell’autofiction (e le differenze con l’autobiografia e il memoir)

I tratti peculiari dell’autofiction risiedono, quindi, nell’ambiguo gioco di cui abbiamo appena parlato tra i fatti autobiografici e la produzione letteraria.

A differenza di un romanzo puramente inventato, alla base della narrazione troviamo in questo caso una realtà ben riconoscibile: l’autore o l’autrice, per lo più, coincidono con il protagonista della storia, e gli episodi presentati nel volume hanno avuto origine nella vita di chi li racconta.

Tuttavia, al tempo stesso, una differenza sostanziale con l’autobiografia o il memoir consiste nel fatto che l’autofiction non pretende di raccontare la verità assoluta: non vige qui nessun obbligo morale verso la realtà storica o cronologica, né una rigida fedeltà agli eventi così come sono accaduti.

Di conseguenza, mentre l’autobiografia si propone come un resoconto fedele e documentato delle vicende autoriali, e il memoir si concentra su eventi, stati d’animo o temi specifici del proprio trascorso, l’autofiction gioca con la possibilità di alterare e reinterpretare, ingannando consapevolmente chi legge per ricordarci che la verità, in fin dei conti, è un concetto relativo, e che non è facile capire dove finisca la dimensione più reportagistica del testo e dove cominci quella più immaginifica.

L’autofiction: una chiave di lettura

Alla luce di queste premesse, è facile intuire fino a che punto il genere dell’autofiction sia diventato, soprattutto in tempi recenti, lo spazio per un’interrogazione più profonda della memoria, un terreno in cui chi scrive può manipolare e rielaborare i propri ricordi per convertire le tracce del proprio sé reale in qualcosa di più mutevole e cangiante.

Ciò porta a una libertà creativa che sfocia in una narrazione più ricca, spesso più complessa e contraddittoria, proprio come il mondo che abitiamo.

Non accontentandosi di essere una cronaca storica, infatti, l’autofiction può farsi riflessione sull’identità, sulla memoria e sulle possibilità narrative dell’esistenza, permettendo a chi scrive di raccontare più versioni di sé, di esplorare ciò che avrebbe potuto essere o ciò che, in un certo senso, è stato solo nella sua fantasia.

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Del resto, il fascino dell’autofiction risiede proprio in questo paradosso: si tratta di un genere profondamente personale, eppure capace di giocare con l’inafferrabilità del sé, sovvertendo le categorizzazioni (e i confini) convenzionali per indurci a riflettere non solo sui contenuti della narrazione, ma anche sul ruolo intellettuale e filosofico di scrittura e lettura.

Un invito a rimettere in discussione la nostra fiducia nei confronti del testo, a domandarci quale sia la vera natura di ogni racconto e, di conseguenza, della nostra vita…

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Alcuni esempi della letteratura del Novecento

Questo continuo oscillare tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere prende per la prima volta piede in Italia addirittura nel 1867, quando viene pubblicato Confessioni d’un italiano (Garzanti) del patriota Ippolito Nievo (1831-1861), che intreccia biografia personale e storia nazionale in un momento di grandi trasformazioni.

Un filone portato avanti con Il mestiere di vivere (Garzanti) del noto intellettuale Cesare Pavese (1908-1950) del 1935, un diario introspettivo che riflette sul dolore e sulla solitudine, ereditando elementi di autori già citati quali Proust, Joyce e Svevo, mentre è poi del 1949 la volontà del giornalista e militare Curzio Malaparte (1898-1957), nel suo La pelle (Adelphi), di utilizzare le proprie esperienze nella Napoli post-bellica per proporci una critica sociale che sveli le assurdità del suo tempo.

Copertina del libro A sangue freddo di Truman Capote, esempio di autofiction novecentesca

Negli anni ’60 l’autofiction ha una scossa notevole grazie a un’opera di culto come A sangue freddo (Garzanti, traduzione di Alberto Rollo) di Truman Capote (1924-1984), una potente fusione tra il reportage e la narrazione, che esplora le motivazioni psicologiche di un crimine avvenuto nel Kansas (tra l’altro, A sangue freddo ha anche anticipato le narrazioni true crime di oggi), e grazie alla produzione dello “scrittore maledetto” Charles Bukowski (1920-1994), che ne Le ragazze che seguivamo (Guanda, traduzione di Massimo Bocchiola), come anche in molti altri dei suoi romanzi (senza dimenticare le poesie e i racconti), ci offre uno sguardo particolarmente crudo sulla marginalità sociale a cui assiste in prima persona.

Altrettanto cruciale, nel corso del secolo scorso, è stato anche il contributo di grandi donne intellettuali che si sono servite dell’autofiction come uno specchio deformante, in cui tanto chi racconta di sé quanto chi legge il testo può scorgere nuove e inaspettate verità mentre esplora la propria interiorità.

Impossibile non menzionare, in tal senso, Menzogna e sortilegio (Einaudi) di Elsa Morante (1912-1985), nel quale la narrazione personale è implicita ed emerge nella forma di una ricostruzione familiare, grazie a cui il contesto personale e quello collettivo si fondono totalmente. Così come Lessico famigliare (Einaudi) di Natalia Ginzburg (1916-1991), in cui, al contrario, il racconto è apertamente autobiografico, ma rende la realtà domestica dell’autrice un mezzo per riflettere su un’intera generazione di italiani.

Siamo invece nel 1963 quando, negli Stati Uniti, esce La campana di vetro (Mondadori, traduzione di Adriana Bottini e Anna Ravano) di Sylvia Plath (1932-1963), che ci fa immergere nell’angoscia del disagio mentale e nella sensazione di oppressione sperimentata da molte donne dell’epoca. Attraverso una prosa schietta e suggestiva, l’autrice di Boston torna così ad approfondire tramite l’autofiction la sofferenza psicologica, rendendo tangibile l’estraneità e la lotta del singolo contro la società.

Copertina del libro La campana di vetro di Sylvia Plath, esempio di autofiction novecentesca

Intanto, a partire dal 1967 e fino al 1971, vengono pubblicati anche i volumi Infanzia, Gioventù e Dipendenza, che insieme formano la famosa Trilogia di Copenaghen (edita da Fazi, nella traduzione di Alessandro Storti) dell’autrice danese Tove Ditlevsen (1917-1976), riscoperta solo di recente ma che, già all’epoca, aveva gettato le basi per l’autofiction contemporanea: una narrazione che parla di legami difficili, di emancipazione e di (in)dipendenza, in un contesto storico e familiare in cui fare poesia – per un’intellettuale donna – era una grande sfida.

Negli anni ’70 è poi la volta di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (BUR, traduzione di Roberta Tatafiore) di Christiane F. (1962), che si fa testimonianza diretta del degrado giovanile nella Berlino del tempo, mentre fra gli ultimi tasselli di questo percorso è fondamentale il contributo di Alba de Céspedes (1911-1997) con Prima e dopo (Cliquot), che nel 1989 esamina il ruolo della memoria e la rielaborazione del trauma, offrendoci una riflessione matura e amara su come l’esperienza soggettiva si intrecci e scontri con le aspettative sociali e politiche.

Nello stesso periodo, a collegare la propria vita a rapporti amorosi e dinamiche di potere è intanto Marguerite Duras ne L’amante (Feltrinelli, traduzione di Leonella Prato Caruso) e ne L’amante della Cina del Nord (Feltrinelli, traduzione di Leonella Prato Caruso), rispettivamente del 1984 e del 1991, i quali raccontano con prospettive e focus diversi il legame fra una adolescente francese e un ricco uomo cinese nella Saigon coloniale degli anni Trenta.

Copertina del libro L'amante della Cina del Nord di Marguerite Duras, esempio di autofiction novecentesca

L’autofiction nell’Italia contemporanea…

Da questi punti cardine hanno preso le mosse, negli ultimi decenni, tentativi di autofiction sempre nuovi e sempre più frequenti, tanto che nel nostro Paese (e non solo) c’è chi parla ormai di una sorta di “moda letteraria”, all’interno della quale non mancano di certo le opere ben riuscite.

Pensiamo, per esempio, allo scrittore e critico Walter Siti, la cui poetica volutamente ambigua si caratterizza per un’esplorazione senza compromessi della realtà individuale e sociale, con un occhio di riguardo a temi come il desiderio, il potere, il corpo e la marginalità, creando quella che potremmo quasi definire una “estetica del degrado“: da Scuola di nudo a Troppi paradisi, passando – fra gli altri – per Il contagio e per Resistere non serve a niente (tutti disponibili per BUR), con il quale nel 2012 si è aggiudicato il Premio Strega.

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Altro autore italiano di riferimento quando si parla di autofiction è Emanuele Trevi, che in opere come Sogni e favole (Ponte alle Grazie) e La casa del mago (Ponte alle Grazie), per citarne solo due, ci porta al confine tra l’esperienza personale e un mondo fatto di narrazioni e di sogni, creando un’autobiografia intellettuale segnata da incontri pregnanti e memorie artistiche, e che con l’opera Due vite (Neri Pozza) ha a sua volta vinto il Premio Strega nel 2020.

Copertina del libro La casa del mago di Emanuele Trevi, esempio di autofiction contemporanea

L’autofiction di matrice più sperimentale e intellettuale emerge anche in autori come Paolo Nori, che in testi come Sanguina ancora (Mondadori) ragiona sulla propria formazione attraverso un dialogo costante con la letteratura russa, e – negli ultimi anni – in Splendi come vita (Ponte alle Grazie) di Maria Grazia Calandrone, che affronta con lirismo la ricerca di una riconciliazione emotiva con la propria madre biologica, o in Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie) di Daniela Ranieri, la quale si addentra invece nel proprio mondo interiore attraverso una narrazione densa di riferimenti intertestuali.

Un altro filone sviluppato spesso è quello che accompagna la memoria più intima a una riflessione sulla forza della letteratura: è il caso di Tiziano Scarpa con La verità e la biro (Einaudi), dove la scrittura si fa strumento di autoanalisi e disvelamento, e di Bianca Pitzorno, che con Donna con libro (Salani) mette su una “fantasmagoria di ricordi da lettrice” – ma anche, più di recente, di Daria Bignardi, con il più scanzonato Libri che mi hanno rovinato la vita (Einaudi Stile Libero).

A essere acclamato dalla critica è stato poi La straniera (La Nave di Teseo) di Claudia Durastanti, incentrato sulle migrazioni e trasfigurazioni del nostro tempo. E ha fatto molto parlare anche La più amata (Mondadori) di Teresa Ciabatti, opera in cui la scrittrice costruisce un racconto provocatorio sull’affermazione di sé di fronte allo sguardo del padre.

Sempre di padri si parla in Leggenda privata (Einaudi) di Michele Mari e ne Il padre infedele (Bompiani) di Antonio Scurati, come pure in Come un giovane uomo (Marsilio) di Carlo Carabba, tutte dimostrazioni di come l’autofiction si confronti anche con il senso di colpa più intimo e con un bruciante desiderio di redenzione.

Se restiamo nell’ambito del contesto familiare e storico, spiccano inoltre Il pane perduto (La Nave di Teseo) di Edith Bruck, che racconta la Shoah attraverso una rielaborazione intima e personale, e Vita mia (Rizzoli) di Dacia Maraini, che intreccia il racconto della propria crescita con delle riflessioni sulla condizione dei singoli individui e della collettività novecentesca, mentre Aldo Busi in Vacche amiche (Marsilio) riprende intanto il tema dell’identità attraverso la provocazione e il dissenso.

Negli ultimi anni, l’autofiction ha esplorato temi profondamente intimi e dolorosi. Un esempio significativo è Febbre (Fandango) di Jonathan Bazzi, finalista al Premio Strega 2020, in cui l’autore si racconta con sincerità, dalla giovinezza nella periferia sud di Milano fino alla scoperta della sieropositività. Tematiche altrettanto delicate emergono in Cose che non si raccontano (Einaudi) di Antonella Lattanzi, incentrato su maternità e malattia, e nella vicenda speculare di Guarigione (Ponte alle Grazie) di Cristiano De Majo. Il tema della morte diventa poi centrale in opere come Italia De Profundis (minimum fax) di Giuseppe Genna e Tre ciotole (Mondadori) di Michela Murgia.

Copertina del libro Guarigione di Cristiano De Majo, esempio di autofiction dei nostri giorni

Ma le ferite della storia personale e collettiva si riversano anche in opere come Cassandra a Mogadiscio (Bompiani) di Igiaba Scego, che esplora la fragile identità postcoloniale, e come Tasmania (Einaudi) di Paolo Giordano, in cui l’autore ci mostra come la dimensione individuale si connetta con i problemi globali più urgenti.

A loro si affianca l’indagine delle relazioni del recentissimo Dimmi di te (Einaudi Stile Libero) di Chiara Gamberale, di Niente di vero (Einaudi) di Veronica Raimo, in cui l’autrice fa ricorso a una pungente ironia per ripercorrere la propria infanzia, e di Storia dei miei soldi (Bompiani) di Melissa Panarello e Sad Girl. La ragazza come teoria (66thand2nd) di Sara Marzullo, che mescolano autobiografia, femminismo e critica sociale.

…e nel panorama internazionale

Anche nel panorama internazionale contemporaneo l’autofiction ha assunto un ruolo centrale, diventando uno mezzo privilegiato per raccontare di sé in maniera lontana dai canoni tradizionali, e per superare i vincoli della narrativa contaminando i generi, i temi e i linguaggi della produzione letteraria dei nostri giorni.

Già Gabriel García Márquez (1927-2014) con Vivere per raccontarla (Mondadori, traduzione di Angelo Morino) e Isabel Allende (1942), con Il mio Paese inventato (Feltrinelli, traduzione di Tiziana Gibilisco) avevano mescolato biografia e mito, creando un ponte tra esperienze private e riflessioni storiche.

Dopodiché, negli ultimi decenni, la già citata Annie Ernaux si è concentrata su numerose opere più marcatamente a sfondo sociale (fra cui ricordiamo L’evento, Gli anni, Una donna, La vergogna e Memorie di ragazza, tutte tradotte per L’Orma da Lorenzo Flabbi), che – come anticipavamo – le sono valse il Nobel.

Copertina del libro L'evento di Annie Ernaux

Da citare, naturalmente, è anche (e soprattutto) Emmanuel Carrère, uno dei capisaldi dell’autofiction, e che in testi come Limonov (Adelphi, traduzione di Francesco Bergamasco), Vite che non sono la mia (Adelphi, traduzione di Federica di Lella e Maria Laura Vanorio) e La vita come un romanzo russo (Adelphi, traduzione di Lorenza Di Lella e Maria Laura Vanorio), giusto per citare alcuni dei titoli che hanno segnato la sua vasta produzione, ha contribuito con particolare abilità ad allargare ulteriormente i confini e le potenzialità di questo approccio alla scrittura letteraria.

Altri autori, come Bret Easton Ellis in Lunar Park e nel recente Schegge (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia), hanno portato invece l’autofiction verso sperimentazioni più visionarie, dove la realtà si fonde con elementi horror e surreali, laddove Karl Ove Knausgård, attraverso il ciclo di culto La mia lotta (Feltrinelli, traduzione di Lisa Raspanti), ci offre una narrazione monumentale e spietata della propria vita.

Copertina del libro Limonov di Emmanuel Carrère

David Foster Wallace, specie ne Il re pallido (Einaudi Stile Libero, traduzione di Giovanna Granato), e Joan Didion nell’iconico L’anno del pensiero magico (il Saggiatore, traduzione di Vincenzo Mantovani), affrontano invece l’alienazione, la perdita e il dolore, mentre Cees Nooteboom in Lettere a Poseidon (Iperborea, traduzione di F. Ferrari) e William T. Vollmann ne L’atlante (minimum fax, traduzione di Cristiana Mennella) si interrogano sui grandi misteri dell’esistenza a partire dalle proprie esperienze.

Non sono stati da meno Amos Oz, che con il suo Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli, traduzione di Elena Loewenthal) ha intrecciato il racconto familiare con la storia di Israele, e l’acclamato scrittore spagnolo Javier Cercas, la cui vasta produzione è basata per lo più proprio sull’autofiction – come nel caso di Soldati di Salamina (Guanda, traduzione di Giuseppe Cacucci e di Bruno Arpaia), la sua prima opera di successo, focalizzata sulla guerra civile spagnola e sul personaggio storico di Rafael Sánchez Mazas, ministro del secondo governo franchista.

Nello stesso filone si collocano Tahar Ben Jelloun con La punizione (La Nave di Teseo, traduzione di Anna Maria Lorusso), in cui l’importante autore marocchino ripercorre la sua drammatica esperienza di prigionia, e, negli ultimi anni, Ocean Vuong con Brevemente risplendiamo sulla terra (La Nave di Teseo, traduzione di Claudia Durastanti) e Camila Sosa Villada con Le cattive (Sur, traduzione di Giulia Zavagna), i quali utilizzano a propria volta l’autofiction per trasformare la narrazione del sé in una forma di resistenza politica.

Copertina del libro Maus di Art Spiegelman, esempio di autofiction in forma di graphic novel

Un discorso analogo vale anche per i pluripremiati graphic novel Maus (Einaudi Stile Libero, traduzione di Cristina Previtali) di Art Spiegelman Persepolis (Rizzoli Lizard, traduzione di Cristina Sparagana e Gianluigi Gasparini) di Marjane Satrapi, che raccontano rispettivamente della memoria della Shoah in chiave metaforica e di infanzie negate e migrazioni forzate nell’Iran degli anni Duemila.

Ma l’autofiction è capace di inglobare anche temi e stili molto diversi: basti pensare a L’arte di correre (Einaudi, traduzione di Antonietta Pastore) di Haruki Murakami, nel quale la dimensione dello sport si lega alla passione del famoso autore giapponese per la scrittura e per la disciplina, o alla pseudo-autobiografia A proposito di niente (La Nave di Teseo, traduzione di Alberto Pezzotta) del regista Woody Allen, che alterna una sottile ironia a toni ben più duri, per riflettere su una vita segnata non solo dall’arte e dalla comicità.

Copertina del libro L'arte di correre di Haruki Murakami

Un approccio altrettanto ironico e crudo è quello che ritroviamo ne I beati anni del castigo (Adelphi) di Fleur Jaeggy e in Una vita come le altre (Adelphi, traduzione di Mariagrazia Gini) di Alan Bennett, mentre più delicato e basato sul bisogno di empatia è il celebre graphic novel di culto Blankets (Rizzoli Lizard, traduzione di C. Manzolelli) di Craig Thompson.

Ulteriore argomento ricorrente nell’autofiction internazionale è poi quello della rielaborazione dei primi anni di vita di chi scrive, che trova terreno fertile in Metafisica dei tubi (Voland, traduzione di Patrizia Galeone) e in Biografia della fame (Voland, traduzione di Monica Capuani) della nota autrice belga Amélie Nothomb, nei quali un approccio filosofico e sensoriale fa emergere tutte le sfaccettature e le contraddizioni della crescita nel mondo moderno.

Fra le sperimentazioni contemporanee segnaliamo peraltro la dibattuta “trilogia dell’ascolto” di Rachel Cusk, composta da Resoconto, Transiti e Onori (editi da Einaudi Stile Libero, nella traduzione di Anna Nadotti), e i suggestivi e metaletterari Viaggio a Eco Spring (il Saggiatore, traduzione di Francesca Mastruzzo e Alessio Pugliese) e Gita al fiume (il Saggiatore, traduzione di Francesca Mastruzzo) di Olivia Laing.

Ma non vanno dimenticati nemmeno l’affermato scrittore israeliano Eshkol Nevo, con L’ultima intervista (Neri Pozza, traduzione di Raffaella Scardi), e la riscoperta di Notti insonni (Blackie, traduzione di Claudia Durastanti) dell’autrice novecentesca Elizabeth Hardwick, che – seppure in momenti storici e con modalità diverse – ci offrono degli spunti molto attuali sui temi della migrazione e del legame con la natura.

Copertina del libro L'ultima intervista di Eshkol Nevo, che rientra nel genere dell'autofiction

Infine, dei testi significativi sono – tra gli altri – anche Correndo con le forbici in mano (Rizzoli, traduzione di Giovanna Scocchera) di Augusten Burroughs, incentrato su un’infanzia particolarmente problematica, e i più recenti Il medico della nave/8 (Edizioni Black Coffee, traduzione di Leonardo Taiuti) di Amy Fusselman, dedicato ai due uomini opposti fra loro che hanno segnato l’esistenza dell’autrice, e La squilibrata (Pidgin, traduzione di Stefano Pirone) di Juliet Escoria, che dal canto suo indaga il tema dell’autolesionismo e della malattia mentale, riaprendo idealmente il cerchio inaugurato tempo addietro da Sylvia Plath.

I possibili futuri dell’autofiction

Dopo essersi guadagnata un posto di tutto rispetto nella produzione del nostro tempo, l’autofiction si sta dirigendo a grandi passi verso molteplici direzioni. Una tendenza emergente, come abbiamo visto, è per esempio quella di dare spazio a voci fuori dal coro e spesso marginalizzate, per trasformare episodi individuali di giustizia sociale in narrazioni condivise, di denuncia e di ispirazione.

Non è da escludere, peraltro, che in un’epoca di fake news e post-verità questo genere letterario possa servire a interrogarci sui modi in cui costruiamo le nostre identità personali e collettive, portando a una sempre maggiore consapevolezza critica tanto in chi fa la letteratura quanto in chi la fruisce.

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In ultimo, ma non per importanza, considerando la sperimentazione stilistica e le contaminazioni a cui l’autofiction è già andata incontro dal Novecento a ora, è possibile che in futuro oltrepassi la soglia della narrativa in senso stretto, per approdare in maniera più sistematica (come in parte sta già accadendo) ai graphic novel, ai podcast e al mondo del grande e piccolo schermo, esplorando così nuove modalità di espressione ibrida e di connessione con il pubblico.

In ogni caso, fino a quel momento, resta valida una massima dello scrittore spagnolo Javier Marías (1951-2022), secondo il quale “Non sappiamo mai se quello che ci viene detto sia la verità, non vi è mai certezza di niente che non provenga da noi stessi, e neanche così“.

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