Al confine tra memoir e autofiction, “La squilibrata”, romanzo d’esordio di Juliet Escoria, è un resoconto intimo e crudo della malattia mentale e della dipendenza attraverso gli occhi di un’adolescente – L’approfondimento

Negli ultimi decenni sono stati fatti evidenti passi avanti nel trattamento e nella ricerca nell’ambito delle malattie mentali, ne sono un esempio il progetto BRAIN, finanziato dall’ex-presidente americano Barack Obama, e lo Human Brain Project dell’UE, entrambi a lavoro sulla mappatura del cervello.

Ciononostante, i disturbi psichici troppo spesso sono ancora incompresi e stigmatizzati. Una questione oggi sempre più rilevante, soprattutto per i giovani, se si pensa che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il suicidio è la terza causa di morte tra gli adolescenti.

Nel suo romanzo d’esordio, oltre che primo tradotto in italiano, Juliet Escoria affronta il tema partendo dalla sua esperienza personale: al confine tra memoir e autofiction, La squilibrata (Pidgin Edizioni, traduzione di Stefano Pirone) è un resoconto intimo e crudo della malattia mentale e della dipendenza attraverso gli occhi di un’adolescente.

Juliet Escoria La squilibrata

Insonnia, attacchi di panico, paranoia, allucinazioni. È il primo anno di liceo quando Juliet, una versione romanzata dell’autrice, capisce che c’è qualcosa in lei che non va. Da studentessa modello, inizia una spirale discendente fatta di droghe, alcol, sesso e autolesionismo che culminerà con due tentati suicidi e una diagnosi di bipolarismo di tipo I.

Preoccupati, i genitori la portano alla Redwood Trails School, un collegio terapeutico per ragazzi dove, tra psicofarmaci ed effetti collaterali, terapie di gruppo e un primo amore, Juliet dovrà fare i conti con i demoni che la perseguitano e mettere insieme i pezzi di una nuova identità adulta.

Un romanzo di formazione in quattro tempi, quello di Juliet Escoria: quattro come i libri in cui è suddiviso, ma anche come le fasi di ricovero previste dalla nuova scuola per poter tornare alla normalità. Nel raccontare l’adolescenza travagliata della sua alter-ego, l’autrice non cade nel tranello del fascino della malattia mentale e della ribellione adolescenziale. Non romanticizza, ma neanche demonizza: Juliet non è la classica eroina “bella e dannata”, è un’adolescente che, oltre a dover confrontarsi con i disagi quotidiani legati all’età, è costretta a lottare con qualcosa (“l’Altra Cosa”, così la definisce), che lentamente prende il sopravvento su di lei. E l’unico modo che conosce per mettere fine alla confusione e alle allucinazioni che la perseguitano è fumare, bere e assumere una pillola dopo l’altra finché non diventa “tutto secco e ovattato”, finché non sente più nulla.

Sullo sfondo, l’America degli anni Novanta, vittima di suicidi e omicidi di massa, come Heaven’s Gate o la strage della Columbine High School per mano di due studenti poco più grandi di Juliet, sospettati di soffrire di disturbi psichici. Il massacro scolastico, uno dei più tragici episodi di school shootings americani, aprì la strada anche al dibattito sugli effetti dell’uso di psicofarmaci negli adolescenti.

“Gli anni Novanta sono stati un periodo strano, perché i farmaci erano relativamente nuovi, e mi sembra che i medici stessero prescrivendo troppo”, ha spiegato l’autrice in un’intervista, “mi sentivo come una cavia”. E ancora: “Ho tentato il suicidio più volte, probabilmente a causa degli antidepressivi”.

La storia di Juliet è anche una denuncia di quel sistema incapace, di quelle istituzioni che, invece di proteggere, alimentano il problema. Escoria include infatti nel libro anche i registri da cui è evidente l’abuso nelle prescrizioni di psicofarmaci e, attraverso le parole della sua protagonista, critica apertamente alcune delle terapie adottate dalla scuola.

Una prosa erratica e frammentata che fa eco alle pagine di un diario — capitoli brevissimi (un paragrafo, due) si alternano a episodi più lunghi e approfonditi — rende l’estrema instabilità emotiva tipica del disturbo bipolare. Contribuiscono a rinforzare la sensazione di realtà gli elementi paratestuali che costellano l’intera narrazione: la fotocopia della lettera-grido-d’aiuto che Juliet infila sotto la porta dei genitori, l’immagine del braccialetto dell’ospedale dopo il primo tentativo di suicidio, i bigliettini scambiati con gli altri studenti della scuola e, infine, il messaggio alla sé del futuro che marca la fine della storia con una nota di ottimismo.

Con questo romanzo, il nome di Escoria (anche autrice della raccolta di poesie Witch Hunt e della raccolta di racconti Black Cloud) si inserisce in una lunga tradizione di autrici e autori che hanno affrontato e affrontano il tema del disagio mentale e dei suoi mali, da Sylvia Plath (La campana di vetro compare anche nella pila di libri letti da Juliet) fino a Susanna Kaysen e Otessa Moshfegh, che con il loro lavoro hanno contribuito a promuovere la destigmatizzazione e la comprensione delle patologie mentali. Lo stesso fa La squilibrata: non ha la pretesa di spiegare o dare una soluzione, si limita a raccontare la vita vera, con tutte le sue sfumature, tutti i suoi colori. Anche, e soprattutto, quelli più grigi.

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