In “La verità e la biro” Tiziano Scarpa propone una prima persona che potrebbe anche essere una terza persona travestita, un simulacro, una maschera come nel teatro greco. Mario Baudino ha letto per ilLibraio.it un’opera che può essere intesa come un lungo monologo interiore con frammenti narrativi, oppure come una narrazione frammentata, cifra ricorrente nella ormai vasta opera dell’autore veneziano. Una sorta di arringa appassionata, quella del personaggio-Scarpa; autofiction elegiaca, con tanto di avvertenza sin dalla prima pagina…

In questo libro non ho inventato nulla”, avverte Tiziano Scarpa in La verità e la biro (Einaudi), opera che secondo la prospettiva con cui lo si guarda (lo si legge) può essere inteso come un lungo monologo interiore con frammenti narrativi, oppure come una narrazione frammentata, cifra ricorrente nella ormai vasta opera dell’autore veneziano: con una prima persona che potrebbe anche essere una terza persona travestita, un simulacro, una maschera come nel teatro greco; e nel corso della narrazione si riflette del resto proprio su questo tema, fino a farne, attraverso l’immagine della “machina” scenica , quello del “Deus ex machina” una sorta di immagine simbolica del sé, un correlativo oggettivo.

La verità e la biro appare d’altra parte come scritto proprio in Grecia, sulle spiagge di un’isoletta non troppo alla moda, durante una vacanza non troppo cara. Ma è tutto fuorché “non troppo”, quanto al resto. Scarpa, si sa, fa dell’eccesso una cifra personale: eccesso autobiografico, anche narcisistico, provocatorio, passionale, di una passione invincibile e tormentata per un lettore che resta sostanzialmente ignoto.

Tiziano Scarpa la verità e la biro

Ciò che era se non latente almeno implicito in molti sui libri precedenti (dall’esordio di Occhi sulla graticola, nella stagione dei cosiddetti “cannibali”, a Stabat Mater, che vinse lo Strega nel 2009), in La verità e la biro si sprigiona in una sorta di arringa appassionata: perché il tema è sì, come da titolo, il rapporto tra verità e scrittura, in questo caso innanzitutto manuale, intimamente legata alla fisicità del corpo, alla carne; ma si direbbe come risultato di altro: di una tensione verso un (il) destinatario della cui esistenza fisica, “vera” si è sempre in fondo un poco dubitato.

È a lui che parla il personaggio-Scarpa, accanendosi anzi sulla propria eventuale inaffidabilità, sottolineando ad esempio che “oggi si può ottenere onore – quello che va cercando”, anche “attraverso la spudoratezza, l’ostentazione, l’esibizionismo”; e definendosi “un predatore che esce dalla tana a caccia di successo” in una forma estrema quasi di martirio, perché  “le parole che vado scrivendo qui dentro raccontano i fatti miei, svelano i miei segreti, mi sbeffeggiano, mi mettono in discussione, potrebbero ferirmi, uccidermi, minare la mia reputazione, mettere a repentaglio le mie relazioni, i miei affetti, la mia credibilità pubblica, la mia autorevolezza, la mia considerazione sociale, il capitale simbolico che ho accumulato in questi anni di attività letteraria”.

Ne vale la pena?  Lo scrittore (o il personaggio scrittore) in realtà non risponde: “sto facendo il furbo – si chiede – perché so che questa mossa, al contrario, potrebbe rendermi molto più di quanto mi costa? E se mi costasse molto più di quanto mi renderà?”.

Siamo in zona autofiction, dove emergono i ricordi del professore delle medie che raccomandava, nelle recensioni, di essere sincero, insomma di dire sempre la verità; o personaggi come un ignoto depresso che a sorpresa scrive una confessione disperata invece del “Lorem ipsum”, quel testo privo di senso tratto da Cicerone e modificato un po’ a caso, usato spesso in fase di redazione per indicare l’ingombro eventuale di quel che sarà lo scritto vero (e tuttavia andrà ricordato che “lorem”, termine che non esiste in latino, nell’originale è “dolorem”, all’accusativo); o ancora, e sono le pagine più tragicomiche e “vere”, gli amori dei vent’anni con una studentessa di filosofia che diceva sempre la verità, anche quando poteva essere molto imbarazzante (al centro di tutto il pene dell’autore, indubbiamente godibile il racconto degli sforzi per portare a termine l’atto sessuale: “Eravamo due contro una: io e la studentessa, in combutta contro la sua vagina”); o ancora con un’altra, ma dedita alla letteratura russa, dal linguaggio curiosamente eufemistico, che riconduce il protagonista a un sonetto di Lorenzo Venier, petrarchista del ‘500, dove si proclama sfrontatamente “io dico pane al pane e cazzo al cazzo”: ma, attenzione al vero successivo, “per dire il ver, per odio e per sollazzo”.

Sembrano questi i punti chiave dell’autofiction elegiaca di Scarpa; che peraltro, lui uomo anche di teatro, ci propone nella parte di riflessione più saggistica, gli appunti scritti sulla spiaggia, un’interessante riflessione sul passaggio dal teatro greco (machina artificiale della verità) all’anfiteatro romano, dove tutto è in vista e cambia l’esperienza vissuta degli spettatore: non assistono più a una finzione ma a ferite ed uccisioni non più simulate.

Certo, i romani scrivevano e rappresentavano tragedie anche alla vecchia maniera: ma è lo slittamento da attore a gladiatore quello che interessa ed affascina l’autore, e che lui rivede nel sistema dell’intrattenimento contemporaneo. Lo scrittore contemporaneo che mette baudelarianamente il proprio “cuore” a nudo, a questo punto, non sarà a pieno titolo un gladiatore? È ovvio che, da scrittore che “si mette in scena” (per sollazzo?), debba necessariamente chiederselo; sta inseguendo un’idea di verità, e la verità è asociale, e dunque “l’essere umano” in quanto “animale sociale” è di conseguenza, conclude, “un animale reticente e ipocrita”.

Quella che ci propone il personaggio Scarpa, parlando di autofiction (“l’autofinzione consiste non tanto nell’inventare cose mai successe, ma nella quantità di reticenza che ogni dicitura contiene, nelle informazioni che tralascia”) non pare chiudere la questione posta del suo stesso libro.

È sufficiente il non tralasciare nulla, in nome della verità? Ma che cosa significa questo “nulla”, ovvero siamo sicuri di riuscire a dir “tutto” – e che ne valga la pena?

A questo punto del discorso saggistico narrativo c’è però già stata, e dalla prima pagina, una mossa di teatro (si direbbe da tragedia greca) che orienta la lettura e apre una sorta di abisso interpretativo: è l’“avvertenza” al libro stesso, datata debitamente luglio 2012 – il che gli conferisce una sorta di vidimazione autoriale, un sovrappiù di autenticità  – in cui si dà una notizia che sembrerebbe del tutto biografica: “Sto per subire una transizione sessuale a causa di un’operazione chirurgica, da uomo che sono verrò trasformato in qualcos’altro. […] Tu che leggi, sappi che il sottinteso di ogni parola che troverai in queste pagine è la consapevolezza che, quando saranno pubblicate, io non sarò più un maschio. Non sto scherzando. Mi sta capitando questo. Perciò, di fatto, questo libro è anche un congedo dalla mia maschilità”.

Il punto, ancora una volta, è che un lettore non sa e non è in grado di verificare se questo sia “vero” nel senso della biografia o in quello della letteratura, né forse gli interessa o dovrebbe interessargli saperlo: al confine della verità, che Scarpa intende soprattutto come denudamento, resta semmai la sospensione del cosiddetto patto di incredulità, come in ogni altra opera letteraria, sia essa di finzione sia essa autobiografica (in fondo, non sono che etichette). E resta il poema eroicomico della mascolinità forse perduta – ma sempre correttissima, da maschio nient’affatto predatore e neppure “maschilista” – e il funambolismo di un autore (attore) che a ogni pagina sembra volersi giocare il tutto per tutto; tanto che la seduzione del lettore si sdoppia in una sorta di autoseduzione, come in uno specchio.

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